N. 77 - Maggio 2014
(CVIII)
A PROPOSITO DI UOMINI SUL FONDO
intervista a Mariapia Comand
di Vincenzo Grienti
A
proposito
del
film-manifesto
Uomini
sul
fondo,
abbiamo
posto
qualche
domanda
a
Mariapia Comand,
che
insegna
Caratteri
del
cinema
italiano
al
Dams
dell’Università
degli
Studi
di
Udine.
È
autrice
di
Dino
Risi.
Il
sorpasso
(Lindau,
Torino,
2002),
Commedia
all’italiana
(Castoro,
Milano,
2010),
I
personaggi
dei
film
(Marsilio,
Venezia,
2012).
Ha
curato
Sulla
carta.
Storia
e
storie
della
sceneggiatura
in
Italia
(Lindau,
Torino,
2006).
Perché
un
film
come
“Uomini
sul
fondo”
oltre
ad
essere
considerato
una
sorta
di
manifesto
del
coraggio
patriottico
del
tempo
secondo
lei
viene
inserito
tra
i
lavori
cinematografici
del
filone
neorealista?
Diciamo
che
lo
stile
documentaristico
(che
richiama
i
documentari
britannici
degli
anni
30)
imprime
alla
pellicola
un
forte
carattere
realistico.
Questo
tratto
è
valorizzato
inoltre
dalla
“quotidianità”
del
racconto;
specialmente
all’inizio
del
film
infatti,
gli
uomini
a
bordo
del
sommergibile
sono
descritti
mentre
svolgono
azioni
ordinarie,
come
apparecchiare
la
tavola,
cucinare
la
pasta,
farsi
la
barba
e
così
via.
Perché
queste
scelte?
In
parte
erano
dettate
dalla
politica
fascista del
momento,
che
riteneva
più
efficace
propagandare
certi
valori
–
l’eroismo,
la
dedizione
–
incarnati
in
personaggi
concreti
e
umani,
idealmente
più
capaci
di
provocare
la
simpatia
e la
solidarietà
del
pubblico.
Tuttavia
va
tenuto
in
considerazione
che
in
quegli
anni
–
quindi
già
prima
del
neorealismo
–
era
molto
forte
la
richiesta,
negli
ambienti
artistici,
nelle
riviste
di
settore,
tra
i
cineasti,
di
un
cinema
dotato
di
un
maggior
timbro
di
verità.
Non
possiamo
definire
Uomini
sul
fondo
un
film
neorealista,
possiamo
dire
che
esprime
–
forse
più
inconsapevolmente
che programmaticamente
–
una
tensione
al
realismo
presente
nel
contesto
sociale
e
culturale
dell’epoca.
Francesco
De
Robertis,
ufficiale
e
direttore
del
ministero
della
marina,
scelse
attori
non
professionisti
provenienti
da
equipaggi
reali.
Non
è la
prima
volta
che
questo
accade
nella
cinematografia
italiana
e,
in
particolare,
nel
genere
di
guerra.
Perché
questa
scelta?
Non
dimentichiamo
che
il
film
viene
realizzato
dal
Centro
cinematografico
del
Ministero
della
Marina:
impiegando
suoi
uomini
–
sottoufficiali
e
ufficiali effettivi
– il
Centro
poteva
avere
un
controllo
produttivo
totale
sull’opera.
Questi
militari
tra
l’altro
erano
degli
interpreti
perfetti
per
le
esigenze
del
film:
essendo attori
improvvisati
la
loro
recitazione
poteva
contribuire
a
quella
spontaneità
del
racconto
di
cui
dicevo,
spontaneità
che
poteva
più
facilmente
toccare
emotivamente
gli
spettatori;
nello
stesso
tempo
questi
uomini
erano
anche
efficienti
“macchine
da
guerra”,
esperti
di
tecnica
militare,
capaci
di
manovrare
sofisticate
apparecchiature
con
destrezza
e
precisione, aspetto
questo
evidente
quando
devono
eseguire
una
serie
di
azioni
a
bordo
per
far
fronte
all’emergenza:
perciò
rappresentavano
perfettamente
l’immagine
dell’”umanità
dell’arma”,
della
“bontà
della
guerra”
che
il
film
intendeva
promuovere.
Può
darci
una
valutazione
complessiva
dei
film
“Uomini
sul
fondo”?
È un
film
molto
interessante
per
tutti
questi
aspetti,
per
la
coesistenza
di
una
complessità
di
elementi;
ci
racconta
di
quel
preciso
momento
storico
molto
di
più
di
quanto
intendesse
fare;
apparentemente
è un
film
di
propaganda,
ma a
posteriori
possiamo
rintracciarvi
il
caos
vitale
e
contraddittorio
degli
umori:
da
Uomini
sul
fondo
emerge
un
bisogno
di
verità
che
evidentemente
si
faceva
strada,
la
richiesta
di
rappresentazioni
vicine
al
vissuto
del
pubblico,
istanze
che
erano
in
contraddizione
con
la
retorica
fascista
“classica”,
basata
su
narrazioni
mitiche,
astratte,
distanti
dalla
vita
delle
persone
(pensiamo
alla
celebrazione
dell’impero
romano);
vi
intravediamo
anche
la
fascinazione
della
tecnica,
sirena
della
modernità;
e
insieme
a
questa
ci
sono
le
vestigia
del
passato,
per
esempio
le
donne
sono
viste
come
figure
del
tutto
passive,
capaci
solo
di
subire
l’attesa
di
uomini
che
invece
agiscono.
È
insomma
un
film-manifesto
della
incontrollabile
potenza
del
cinema,
della
sua
capacità
di
accogliere
e
restituire
i
desideri
profondi, le
pulsioni
latenti che
circolavano
nell’aria
o
che
si
agitavano
nelle
profondità
del
sentire
collettivo.