N. 74 - Febbraio 2014
(CV)
L’aviazione italiana e la Prima Guerra mondiale
Intervista al Gen. Basilio Di Martino
di Vincenzo Grienti
La
prima
guerra
mondiale
sotto
il
profilo
di
tattica
militare
è
stata
soprattutto
una
guerra
di
“posizione”,
di
“attesa”
in
trincea.
È
stato
però
un
momento
fondamentale
nella
storia
dell’aeronautica
militare
creando
le
premesse
per
gli
sviluppi
successivi
e in
particolare
per
la
sua
trasformazione
in
forza
armata
indipendente.
Su
questo
e
altri
aspetti
della
forza
aerea
del
nostro
Paese
abbiamo
intervistato
il Brigadier
Generale
Basilio
Di
Martino,
Vice
Direttore
della
Direzione
Informatica,
Telematica
e
Tecnologie
Avanzate
(Teledife),
storico
della
prima
guerra
mondiale
e
autore
di
numerose
pubblicazioni
tra
le
quali
“L’Aviazione
italiana
a
Caporetto”
(Gaspari
Editore),
e
“L’aviazione
italiana
nella
Grande
Guerra”
(Ugo
Mursia
Editore).
Generale,
qual
era
la
situazione
dell’aviazione
italiana
nel
1914?
Cosa
cambiò
con
l’entrata
in
guerra?
Allo
scoppio
della
Grande
Guerra
i
regolamenti
in
vigore
vedevano
nel
velivolo
soprattutto
una
più
efficace
alternativa
alla
cavalleria
nell’attività
di
ricognizione
in
uno
scenario
di
guerra
di
movimento.
Le
operazioni
dell’estate
del
1914
sembrarono
confermare
queste
previsioni
ma
quando
il
fronte
si
cristallizzò
e si
aprì
la
lunga
stagione
della
guerra
di
trincea,
i
comandi
cominciarono
a
fare
affidamento
sul
velivolo
per
una
continua
attività
di
sorveglianza
sulle
prime
linee,
finalizzata
a
costruire
una
dettagliata
planimetria
delle
posizioni
avversarie
e
per
guidare
l’azione
dell’artiglieria,
risolvendo
il
problema
del
tiro
indiretto
in
cui
il
bersaglio
non
era
visibile
agli
osservatori
a
terra.
Nell’agosto
del
1914
il
Regio
Esercito
disponeva
di 8
squadriglie
mobili,
montate
su
monoplani
Nieuport
e
Blériot,
e 3
squadriglie
da
posizione,
con
biplani
Farman
MF1912.
Prima
della
fine
dell’anno
fu
però
avviato
un
programma
di
potenziamento
che
prevedeva
la
sostituzione
di
queste
macchine
con
altre
più
avanzate,
prodotte
su
licenza,
come
il
Voisin
e il
Farman
MF
1914,
o di
concezione
nazionale,
come
il
Macchi
Parasol
e
soprattutto
il
trimotore
Caproni.
Il
r.d.
n.11
del
7
gennaio
1915
creò
il
Corpo
Aeronautico
Militare,
distinto
dall’Arma
del
Genio
che
aveva
fino
ad
allora
inquadrato
i
“servizi
aeronautici”,
e
strutturato
in
Direzione
Generale
d’Aeronautica,
inserita
nel
Ministero
della
Guerra,
Comando
Dirigibilisti,
Comando
Aviatori
e
Istituto
Centrale
Aeronautico.
La
direzione
generale
era
un
organo
tecnico-amministrativo
che
provvedeva
alla
gestione
del
personale
e
del
materiale,
l’istituto
era
un
organo
di
studio,
ricerca
e
sperimentazione,
i
due
comandi
erano
organi
tecnico-operativi
con
competenze
che
includevano
l’addestramento
e la
logistica.
Il
23
maggio
1915,
all’atto
della
dichiarazione
di
guerra
all’Austria-Ungheria,
nell’ambito
del
Comando
Supremo
fu
costituito
un
Ufficio
Servizi
Aeronautici
e le
squadriglie
disponibili
furono
proiettate
verso
l’Isonzo,
in
parte
a
disposizione
dei
comandi
d’armata.
I 75
velivoli
in
linea
erano
monoplani
Blériot
XI e
Nieuport
IV
M,
con
qualche
biplano
Farman
MF
1912.
La
carenza
di
medi
e
grossi
calibri,
che
avrebbe
condizionato
il
Regio
Esercito
fino
al
1916,
era
resa
più
grave
dall’impossibilità
di
sfruttare
al
meglio
quelli
disponibili
per
la
difficoltà
nel
localizzare
gli
elementi
dell’organizzazione
difensiva
avversaria.
In
questa
situazione
il
potenziamento
del
servizio
d’artiglieria
era
una
priorità
assoluta
e
nel
corso
dell’estate
fu
perseguito
con
decisione
inviando
al
fronte
squadriglie
specializzate
nell’osservazione
del
tiro
montate
su
macchine
affidabili
e
collaudate
come
il
Caudron
G.3,
attrezzando
una
rete
di
collegamenti
bordo-terra
che
utilizzava
la
radiotelegrafia,
con
stazioni
trasmittenti
di
bordo
e
stazioni
riceventi
di
terra
distribuite
lungo
il
fronte,
e
lavorando
infine
per
superare
la
diffidenza
degli
artiglieri
affinando
le
procedure
e
curando
l’addestramento.
Anche
se
per
le
comunicazioni
terra-bordo
si
dovevano
utilizzare
ancora
i
teli
da
segnalazione,
la
radiotelegrafia
rappresentò
un
significativo
salto
di
qualità
per
il
servizio
d’artiglieria.
Nel
contempo
il
sempre
più
ampio
ricorso
alla
fotografia
aerea
permetteva
di
costruire
un
dettagliata
planimetria
delle
posizioni
avversarie.
Cioè?
Mentre
i
monoplani
venivano
ritirati
dal
servizio
di
prima
linea
non
potendo
più
fornire
prestazioni
adeguate,
e
una
squadriglia
di
Farman
MF1914
schierata
ad
Asiago
estendeva
l’impiego
del
velivolo
al
fronte
trentino,
il
20
agosto
entravano
in
azione
i
primi
due
trimotori
Caproni
Ca.1,
con
motori
FIAT
A.10
da
100
cv,
bombardando
il
campo
di
aviazione
di
Aisovizza
in
risposta
a
un’incursione
su
Udine.
Per
difendere
la
città,
sede
del
Comando
Supremo
e
importante
centro
logistico,
venne
poi
attivata
a
Santa
Caterina
una
prima
quadriglia
da
caccia
equipaggiata
con
il
biplano
biposto
Nieuport
Ni.10,
presto
sostituito
dal
monoposto
Ni.11.
Con
il
potenziamento
della
ricognizione,
l’entrata
in
linea
del
trimotore
Caproni
e la
creazione
di
un
embrionale
reparto
da
caccia,
alla
fine
del
1915
l’aviazione
italiana
poteva
ormai
dirsi
costituita
in
tutte
le
sue
componenti
fondamentali.
I
mesi
a
venire
avrebbero
visto
il
progressivo
aggiornamento
del
parco
macchine
e un
consistente
incremento
del
numero
delle
squadriglie.
Nell’ottobre
del
1917
l’ordine
di
battaglia
avrebbe
visto
66
squadriglie
e 1
sezione
per
le
esigenze
dei
fronti
italiano,
albanese
e
macedone,
3
squadriglie
e 1
sezione
in
Libia,
4
squadriglie
e 14
sezioni
adibite
alla
difesa
aerea
del
territorio
nazionale,
per
un
totale
di
650
velivoli
dei
quali
570
sul
fronte
italiano.
Qual
era
il
punto
di
forza
dell’aviazione
italiana
durante
la
Prima
Guerra
Mondiale?
È
difficile
individuare
un
singolo
punto
di
forza.
Il
passare
dei
mesi
vede
infatti
delinearsi
uno
strumento
aereo
ben
bilanciato
e
nel
1917
la
numerosa
componente
da
ricognizione
ed
osservazione,
essenziale
in
una
guerra
di
posizione,
era
sostenuta
da
una
valida
componente
da
caccia
in
rapido
sviluppo
ed
affiancata
da
una
componente
da
bombardamento
che,
per
quanto
mai
troppo
numerosa,
aveva
dimostrato
di
poter
colpire
in
profondità
nel
territorio
avversario.
Era
uno
strumento
aereo
che
dall’estate
del
1916
aveva
ormai
la
superiorità
aerea
sull’avversario
in
termini
quantitativi,
qualitativi
e
anche
organizzativi,
superiorità
aerea
che
non
avrebbe
più
perso
se
non
per
poche
settimane
nell’autunno
del
1917,
come
conseguenza
della
crisi
determinata
dallo
sfondamento
di
Caporetto
e
dell’arrivo
sul
fronte
italiano
di
alcune
agguerrite
squadriglie
tedesche.
Se
si
dovesse
però
individuare
una
peculiarità
dell’aviazione
italiana,
la
si
potrebbe
vedere
nella
componente
da
bombardamento:
con
il
trimotore
Caproni
l’Italia
fu
infatti
la
prima
Nazione
dell’Intesa
a
mettere
in
campo
un
vero
bombardiere,
impiegandolo
poi
alla
luce
di
un
concreto
pragmatismo.
Quale
fu
il
ruolo
dei
caccia
e
quali
risultati
furono
conseguiti
attraverso
l’azione
dei
bombardieri
finalizzata
a
contrastare
le
capacità
operative
delle
forze
nemiche?
Come
nel
caso
delle
altre
aviazioni
belligeranti,
la
specialità
della
caccia
nasce
a
conflitto
iniziato,
quando
si
rende
necessario
da
un
lato
contrastare
il
passo
ai
ricognitori
avversari,
dall’altro
garantire
libertà
d’azione
ai
propri.
Non
si
deve
infatti
dimenticare
che
il
ruolo
affidato
inizialmente
all’aviazione,
e
quello
che
ne
avrebbe
sempre
assorbito
la
percentuale
maggiore
dello
sforzo,
è
quello
della
ricognizione,
ivi
inclusa
l’importante
specializzazione
dell’osservazione
del
tiro.
Anche
nel
caso
della
caccia
velivoli
e
concetti
d’impiego
furono
oggetto
di
un
prepotente
sviluppo
che,
nel
caso
italiano,
avrebbe
sfruttato
al
meglio
le
possibilità
consentite
dalla
produzione
su
licenza
di
macchine
di
concezione
francese
come
i
Nieuport
e
gli
Hanriot,
alle
quali
si
sarebbe
aggiunto
lo
SPAD,
acquistato
in
Francia
in
numeri
significativi,
per
conquistare
e
mantenere
un
buon
livello
di
superiorità
aerea.
Dal
punto
di
vista
dell’impiego
è
degno
di
nota
che
alle
crociere
di
sbarramento
tipiche
del
1916
e
del
1917,
in
sostanza
dei
pendolamenti
lungo
la
linea
del
fronte,
si
affiancò
e si
sostituì
nella
seconda
parte
del
conflitto
un
pattugliamento
aggressivo
spesso
proiettato
oltre
la
linea
del
fronte,
per
imporre
tempi
e
modi
del
combattimento
all’avversario.
La
caccia
ebbe
poi
sempre
più
spesso
il
compito
di
scortare
i
bombardieri
Caproni,
un
ruolo
per
il
quale
si
cercò
continuamente
di
affinare
le
procedure,
scontrandosi
però
con
il
problema
della
mancanza
di
un
efficace
sistema
di
comunicazione
tra
i
velivoli,dal
momento
che
non
esistevano
ancora
apparati
radio
idonei
per
questo
scopo.
Quanto
ai
bombardieri,
il
loro
impiego,
centralizzato
alle
dirette
dipendenze
dell’organo
di
vertice
dell’aviazione,
e
quindi
del
Comando
Supremo,
fu
finalizzato
soprattutto
ad
attaccare
i
terminali
ferroviari
e i
centri
logistici
dell’avversario
e a
colpirne
i
campi
di
aviazione
per
concorrere
al
mantenimento
della
superiorità
aerea.
Oltre
a
questi
compiti,
che
oggi
inquadreremmo
nelle
categorie
dell’interdizione
e
della
controaviazione,
vi
fu
anche
un
primo
abbozzo
di
impiego
“strategico”
del
velivolo
da
bombardamento,
soprattutto
con
gli
attacchi
alla
piazzaforte
di
Pola,
principale
base
operativa
della
marina
austro-ungarica,
al
silurificio
di
fiume
e
alla
base
navale
di
Cattaro.
Gli
effetti
ottenuti,
significativi
sia
in
termini
materiali
che
in
termini
morali,
vanno
valutati
in
funzione
della
tipologia
di
armamento
disponibile
(il
carico
di
bombe
di
un
bombardiere
variava
dai
200
ai
400
chilogrammi)
e
della
novità
rappresentata
dagli
attacchi
aerei,
il
che
enfatizzava
il
loro
impatto
a
livello
psicologico.
Una
riflessione
conclusiva
sull’evoluzione
dell’aviazione
da
bombardamento
durante
la
Grande
Guerra
non
può
non
partire
dalla
considerazione
che,
se
il
prepotente
sviluppo
del
mezzo
aereo
portò
ad
una
rapida
crescita
delle
aviazioni
belligeranti,
questa
non
poté
prescindere
dalle
esigenze
delle
forze
di
superficie,
esigenze
che,
se
erano
state
strumentali
nel
favorire
l’espansione
delle
specialità
da
ricognizione
e da
caccia,
diventarono
un
freno
per
l’espansione
della
specialità
da
bombardamento.
Quali
erano
i
rapporti
tra
le
forze
di
superficie
e
l’aviazione
e in
che
modo
si
può
parlare
di
concorso
aereo
alle
loro
operazioni?
È il
caso
di
premettere
che
l’aviazione
italiana
era
articolata
in
due
componenti:
una,
composta
da
squadriglie
da
ricognizione
e da
caccia,
ripartita
tra
le
armate
che,
a
partire
dal
1917,
la
impiegavano
tramite
i
loro
comandi
di
aeronautica
a
diretto
supporto
delle
operazioni
condotte
dalle
truppe
in
linea,
l’altra,
comprendente
i
reparti
da
bombardamento,
qualche
squadriglia
da
caccia
e,
sul
finire
del
conflitto,
anche
un
reparto
da
ricognizione,
alle
dirette
dipendenze
del
Comando
Supremo.
Già
da
questa
articolazione
si
può
comprendere
come
vi
fosse
una
forte
integrazione
con
l’azione
delle
forze
di
terra,
anche
se
la
componente
a
disposizione
del
Comando
Supremo
fu
di
solito
impiegata
in
modo
piuttosto
indipendente
dalla
situazione
sul
terreno,
il
che
lasciava
intendere
l’opportunità
di
avere
un’arma
aerea
in
grado
di
sviluppare
la
sua
azione
su
un
piano
diverso,
meno
“tattico”
e
più
“strategico”.
Anche
in
relazione
al
bombardamento
però,
non
si
può
non
rilevare
come
la
scelta
dei
bersagli
da
battere
fosse
sempre
fatta
nel
quadro
di
una
visione
organica
dello
sforzo
complessivo
richiesto
al
Regio
Esercito
ed
in
aderenza
alla
consistenza
quantitativa
e
qualitativa
della
componente
da
bombardamento,
mai
più
numerosa
di
qualche
decina
di
trimotori,
per
la
maggior
parte
del
tipo
Ca
3,
con
una
potenza
totale
di
450
cv,
ben
lontana
quindi
nei
numeri
e
nelle
prestazioni
da
quanto
sarebbe
stato
necessario
per
dare
concretezza
alle
idee
di
quanti
avrebbero
voluto
un
impiego
offensivo
dell’arma
aerea
che
andasse
oltre
i
temi
dell’interdizione
e
della
controaviazione.
In
questo
quadro,
nel
corso
del
1918,
se
il
bombardamento
dei
campi
d’aviazione
da
parte
dei
dirigibili
e
delle
squadriglie
Caproni
puntava
a
ridurre
l’operatività
dell’aviazione
nemica,
gli
attacchi
ai
terminali
ferroviari
trovavano
giustificazione
sia
in
chiave
difensiva,
per
disturbare
gli
eventuali
preparativi
dell’avversario,
che
in
chiave
offensiva,
per
impedirgli
il
rafforzamento
delle
posizioni.
Infine,
lo
sviluppo
di
una
componente
da
bombardamento
veloce
non
fu
soltanto
finalizzata
a
trovare
un
ruolo
per
una
macchina
dalle
prestazioni
di
tutto
rilievo
come
lo
SVA,
ma
anche
la
naturale
evoluzione
di
concetti
di
impiego
che
sempre
più
spesso
vedevano
le
squadriglie
da
caccia
e da
ricognizione
partecipare
attivamente
alla
battaglia,
con
attacchi
a
bassa
quota
sulle
vie
di
comunicazione,
sulle
zone
di
radunata
e
sulle
postazioni
d’artiglieria.
Sulla
base
di
queste
considerazioni,
tra
il
1917
e il
1918
si
può
davvero
parlare
di
strumento
aeroterrestre.
Per
quanto
riguarda
la
Regia
Marina,
bisogna
ricordare
che
questa
disponeva
di
propri
reparti
di
idrovolanti
che,
equipaggiati
con
macchine
sempre
più
efficaci,
a
partire
dal
Macchi
L.1,
frutto
di
una
riuscita
operazione
di
“reverse
engineering”
ai
danni
di
un
idrovolante
Lohner
catturato
intatto
all’inizio
delle
ostilità,
per
arrivare
all’idrocaccia
Macchi
M.5
del
1918,
riuscì
a
ribaltare
la
situazione
iniziale
e ad
imporsi
all’avversario.
L’aviazione
navale,
che
in
prospettiva
avrebbe
dovuto
disporre
anche
di
una
componente
da
bombardamento
montata
su
velivoli
terrestri,
pur
svolgendo
con
efficacia
compiti
di
pattugliamento
e
sorveglianza
delle
rotte,
non
sviluppò
però
metodi
e
procedure
per
una
efficace
cooperazione
con
la
flotta
nel
corso
delle
poche
azioni
navali
che
si
svolsero
in
Adriatico.
Non
si
può
quindi
parlare
di
un
vero
strumento
aeronavale,
anche
se
negli
ultimi
tempi
delle
ostilità
si
cominciarono
a
compiere
i
primi
passi
in
questa
direzione.
Quali
velivoli
furono
impiegati
per
la
ricognizione
ma
anche
per
l’attacco
al
suolo?
In
linea
di
massima
per
la
ricognizione,
includendo
sotto
questa
denominazione
anche
il
servizio
d’artiglieria
con
l’osservazione
del
tiro,
furono
impiegati
inizialmente
il
Macchi
Parasol,
il
Caudron
G.3
e il
Farman
MF1914.
Il
Macchi
Parasol,
penalizzato
da
una
certa
instabilità,
uscì
di
scena
già
nel
1915,
gli
altri
due,
entrambi
di
concezione
francese
e
costruiti
su
licenza,
rimasero
in
linea
fino
al
1917,
quando
si
puntò
su
macchine
di
concezione
nazionale.
Il
Savoia-Pomilio,
che
riprendeva
la
formula
a
trave
di
coda
del
Farman,
non
diede
buona
prova,
anche
perché
questa
configurazione
era
troppo
vulnerabile
agli
attacchi
in
coda,
più
successo
ebbero
macchine
a
fusoliera
come
il
Pomilio,
nonostante
una
certa
fragilità
strutturale
a
cui
fu
necessario
porre
rimedio,
e
soprattutto
il
SAML,
che
non
a
caso
sarebbe
rimasto
a
lungo
in
servizio
anche
nel
dopoguerra.
Un
fallimento
totale
fu
invece
il
SIA7b,
un
velivolo
a
fusoliera
le
cui
buone
prestazioni
furono
vanificate
da
una
irrimediabile
debolezza
strutturale
che
nel
giugno
del
1918
ne
impose
la
radiazione
dopo
l’ennesimo
cedimento
degli
attacchi
alari.
Di
contro
fu
una
macchina
di
successo
lo
SVA,
che
grazie
alla
sua
velocità
e
alla
sua
autonomia
si
dimostrò
particolarmente
adatto
per
le
missioni
di
ricognizione
a
lungo
raggio,
venendo
poi
impiegato
anche
come
bombardiere
leggero.
Per
quel
che
riguarda
l’attacco
al
suolo,
tra
il
1917
e il
1918
i
ricognitori,
che
comunque
potevano
portare
un
piccolo
carico
di
bombe
oltre
alle
mitragliatrici,
affiancarono
sempre
più
spesso
i
caccia,
come
nelle
battaglie
del
Piave
del
1918,
ottenendo
buoni
risultati.
In
quale
“fronte”
aereo
furono
maggiormente
impegnati
italiani?
L’aviazione
italiana
operò
nella
quasi
totalità
sul
fronte
italo-austriaco,
dove
il
Regio
Esercito
produsse
lo
sforzo
principale,
e
soprattutto
nel
settore
dell’Isonzo,
da
Tolmino
al
mare,
fino
al
1917,
nel
settore
dell’Altopiano
di
Asiago,
a
partire
dalla
tarda
primavera
del
1916,
e
poi
ovviamente
nel
settore
Grappa-Piave,
nell’ultimo
anno
di
guerra.
La
presenza
sugli
altri
fronti
fu
molto
ridotta
e su
quelli
albanese
e
macedone
in
particolare
limitata
a
una
piccola
componente
da
ricognizione
e da
caccia
funzionale
alle
esigenze
dei
contingenti
del
Regio
Esercito
che
vi
erano
schierati.
La
presenza
di
una
squadriglia
Caproni
in
Albania
non
altera
nella
sostanza
questo
quadro,
mentre
è
molto
più
significativo
l’invio
all’inizio
del
1918
di
un
gruppo
da
bombardamento
sul
fronte
francese,
dove
fu
impiegato
in
attacchi
notturni
ai
punti
nodali
delle
comunicazioni
ferroviarie
dell’avversario
nella
Francia
occupata.
La
disfatta
di
Caporetto
avvenne
anche
per
l’aviazione?
Se
la
domanda
allude
a
ciò
che
avrebbe
potuto
fare
la
ricognizione
aerea
per
evitare
la
“sorpresa”
è
opportuno
sottolineare
che
con
la
fine
dell’estate
il
tempo
peggiorò
rapidamente
e
che
per
questa
ragione,
oltre
che
per
le
misure
d’inganno
messe
abilmente
in
atto
dall’avversario,
i
ricognitori
non
riuscirono
a
confermare
le
notizie
relative
a
un’imminente
offensiva.
Se
poi
si
passa
a
un’analisi
delle
operazioni
aeree
in
quel
periodo
cruciale
del
conflitto
è
possibile
distinguere
diversi
momenti.
Nei
giorni
immediatamente
successivi
al
24
ottobre
fu
fatto
il
massimo
sforzo
per
contenere
l’urto
avversario
sviluppando
una
massiccia
azione
di
interdizione
con
tutti
i
mezzi
disponibili,
accettando
per
questo
di
sostenere
perdite
elevate,
poi,
dopo
il
27
ottobre,
con
la
ritirata
dell’esercito
dietro
la
linea
del
Tagliamento,
vennero
schierati
sui
campi
della
Comina
e di
Aviano
forti
nuclei
da
bombardamento
e da
caccia
per
rallentare
l’avanzata
delle
forze
austro-tedesche
nella
pianura
friulana
con
azioni
di
bombardamento
e
mitragliamento
mirate
soprattutto
ai
rifornimenti
e ai
rincalzi,
e
contrastare
l’attività
della
loro
aviazione
con
un
intenso
servizio
di
caccia
e di
crociera.
In
questo
contesto
l’aviazione
austro-tedesca
non
sfruttò
l’occasione
di
attaccare
le
colonne
in
ritirata,
o
meglio
non
ne
ebbe
la
possibilità,
e
questo
non
solo
per
la
presenza
attiva
della
caccia
italiana,
ma
anche
per
la
crisi
determinata
dalla
necessità
di
spostare
in
avanti
il
suo
dispositivo.
Dopo
il 3
novembre,
con
il
successivo
ripiegamento
sulla
linea
del
Piave,
le
squadriglie
da
bombardamento
continuarono
a
sviluppare
un’azione
di
interdizione
e
quelle
da
caccia
seguitarono
a
contrastare
l’aviazione
avversaria
con
buoni
risultati
nel
servizio
di
crociera
e in
quello
di
allarme,
mentre
lo
stesso
non
può
dirsi
per
il
servizio
di
scorta
che
soffriva
di
problemi
di
comunicazione
e di
coordinamento.
Questi
inconvenienti
si
fecero
sentire
soprattutto
quando
l’aviazione
austro-tedesca,
trasferite
le
sue
squadriglie
sui
campi
abbandonati
da
quella
italiana,
tornò
a
farsi
aggressiva.
L’aviazione
italiana,
nonostante
il
contributo
di
reparti
da
caccia
e da
ricognizione
britannici
e
francesi,
rimase
sulla
difensiva
fino
a
dicembre
inoltrato,
quando
l’iniziò
della
ripresa
può
essere
fatto
coincidere
con
la
cosiddetta
“battaglia
di
Istrana”
del
26
dicembre,
in
cui
i
biposto
tedeschi
che
avevano
attaccato
quel
campo
subirono
una
dura
sconfitta,
con
11
velivoli
abbattuti
dai
cacciatori
britannici
e
italiani.
Quale
successo
memorabile
dell’aviazione
italiana
possiamo
ricordare,
oggi,
a
cento
anni
dalla
Prima
Guerra
mondiale?
Anche
se
mi
piace
considerare
quello
dell’aviazione
italiana
come
uno
sforzo
corale,
articolato
giorno
dopo
giorno
in
una
sequenza
interminabile
di
missioni
di
ricognizione
di
bombardamento
e di
caccia,
ci
sono
senz’altro
dei
momenti
che
vale
la
pena
di
sottolineare,
sia
per
il
loro
significato
“tecnico”,
che
per
l’impatto
sull’immaginario
collettivo.
Al
riguardo
si
possono
ricordare
il
raid
su
Lubiana
del
18
febbraio
1916,
prima
azione
in
profondità
nel
territorio
avversario
dei
bombardieri
Caproni
ed
anche
primo
incontro
con
la
caccia
avversaria,
in
cui
Oreste
Salomone
guadagnò
all’aviazione
italiana
la
prima
medaglia
d’oro
al
valor
militare
riportando
entro
le
linee
il
velivolo
crivellato
di
colpi
con
i
corpi
senza
vita
dei
suoi
due
compagni,
la
prima
vittoria
aerea
di
Francesco
Baracca,
ottenuta
il 7
aprile
del
1916
nel
cielo
di
Medeuzza,
che
fu
la
prima
vittoria
della
caccia
italiana
e
segnò
il
momento
in
cui
gli
aviatori
italiano
si
avviarono
alla
conquista
della
superiorità
aerea,
le
incursioni
su
Pola
e su
Cattaro
dell’estate
e
dell’autunno
del
1917,
il
contributo
determinante
dato
dalle
squadriglie
da
caccia
e da
ricognizione
al
successo
difensivo
del
Regio
Esercito
sul
Piave
nel
giugno
del
1918,
e il
raid
di
D’Annunzio
su
Vienna,
perfetto
esempio
di
operazione
di
guerra
psicologica
che
non
è
un’impresa
isolata
ma
si
inquadra
a
pieno
titolo
in
quella
vasta
campagna
di
propaganda
sul
nemico
avvista
all’inizio
dell’estate
del
1918
e
condotta
in
primo
luogo
con
il
lancio
di
manifestini
nelle
diverse
lingue
della
Duplice
Monarchia.
Se
volessimo
ricordare
alcuni
piloti
che
hanno
brillato
per
valore
militare,
per
spirito
di
corpo,
ma
anche
per
i
rischi
presi
al
fine
di
raggiungere
un
obiettivo,
quali
nomi
potremmo
fare?
L’elenco
degli
aviatori,
perché
parlare
soltanto
di
piloti
è
riduttivo,
che
si
distinsero
nel
corso
del
conflitto
è
molto
lungo
e
qualche
nome
è
già
stato
citato.
Vorrei
ricordare
ancora
quelli
di
Natale
Palli,
l’asso
della
ricognizione,
protagonista
con
lo
SVA
di
missioni
memorabili
nelle
lontane
retrovie
austro-ungariche,
pilota
di
D’Annunzio
nel
volo
su
Vienna
e
poi
comandante
dell’87a
Squadriglia,
di
Luigi
Gori
e
Maurizio
Pagliano,
due
piloti
di
Caproni
che
presero
parte
a
ripetute
azioni
su
Pola
e
sul
fronte
dell’Isonzo
prima
di
cadere
in
combattimento
sul
finire
del
1917,
di
Ernesto
La
Polla,
ufficiale
di
prim’ordine
con
una
lucida
visione
dei
problemi
dell’impiego
del
velivolo
da
bombardamento
e
comandante
del
Raggruppamento
Squadriglie
da
Bombardamento,
di
Silvio
Scaroni,
eccezionale
pilota
da
caccia
la
cui
fama
è
stata
forse
offuscata
dall’astro
di
Baracca.
L’elenco
potrebbe
essere
molto
più
lungo,
ma
ciò
che
forse
più
conta
è
che
furono
le
loro
azioni
quotidiane,
e
quelle
dei
loro
compagni
di
reparto,
a
far
sì
che
si
consolidasse
quella
“competenza
ambientale”
destinata
a
trovare
la
sua
più
compiuta
manifestazione
di
lì
qualche
anno,
con
la
nascita
della
Regia
Aeronautica
come
forza
armata
indipendente.
Quale
capitolo
delle
battaglie
affrontate
in
cielo
dalla
nostra
aviazione
durante
il
conflitto
1914-1918
occorre
ricordare?
La
scelta
è
ardua
e se
mi è
consentito
vorrei
ricordarne
due:
la
Battaglia
del
Solstizio,
del
giugno
del
1918,
quando
le
squadriglie
italiane
diedero
una
dimostrazione
di
impiego
razionale
del
potere
aereo,
riconquistando
immediatamente
il
controllo
del
cielo
della
battaglia
per
poi
passare
a
sviluppare
un’efficace
azione
di
interdizione
sulle
vie
di
alimentazione
delle
forze
avversarie
passate
sulla
sponda
destra
del
Piave,
e il
bombardamento
della
base
navale
di
Cattaro,
nella
notte
del
4
ottobre
1917,
che
al
di
là
dei
risultati
materiali
fu
una
dimostrazione
di
capacità
organizzativa
e di
capacità
aviatoria.