N. 19 - Luglio 2009
(L)
storia di un’Italia perduta
Intervista a Lorenzo De Antiquis, l’ultimo cantastorie di Romagna
di Nunzia Manicardi
Io cantastorie lo sono diventato perché sono nato; dal momento
che
sono
nato,
dovevo
diventare
cantastorie.
Se
la
mia
mamma,
poveretta,
era
già
in
piazza
a
fare
quel
lavoro,
cosa
dovevo
fare?
Anzi,
cosa
mi
consentivano
di
fare?
Sono nato a Savignano sul Rubicone, in provincia di Forlì
il
22
luglio
1909.
La
mia
figlia
più
grande
ha
53
anni;
la
più
piccolina
è
nata
nel
’38.
Con mia moglie, la signora Emma Cresti, condivido queste
giornate
serene…
o
anche
nuvolose.
Io e
lei
viviamo
a
Forlì,
in
Piazza
del
Lavoro
n. 8
dove,
in
una
stanza
dello
stesso
caseggiato,
che
non
è
mio,
c’è
anche
una
bella
stanzina,
che
è la
sede
dell’Associazione
Cantastorie,
con
molta
polvere,
perché
non
ho
molto
tempo
di
stare
a
fare
la
commessa:
io
sono
un
presidente
che
non
dispone
di
una
segretaria.
Nell’Associazione abbiamo iscritto tutti i cantastorie che
ancora
esistevano
in
Italia,
salvo
qualche
assenteista…
Fondammo
questa
Associazione
il
14
settembre
1947:
avevamo
fatto
la
fiera
di
Foligno,
io e
un’altra
persona
che
mi
faceva
da
partner
e
che
era
di
sesso
diverso;
c’era
un’altra
comitiva
di
cantastorie
di
Bologna
con
Piazza
Marino
e
poi
ce
n’era
un’altra:
tre
gruppi
di
cantastorie,
quindi,
in
questa
fiera
di
San
Feliciano
di
Foligno,
una
fiera
che
casca
in
settembre.
La fiera è grossa e perciò tutti, più o meno, si son fatti
la
giornata.
Alla
fine
della
fiera
i
cantastorie,
da
bravi
colleghi,
sono
andati
a
mangiare
tutti
nella
stessa
trattoria,
contenti
perché
era
anche
una
bella
giornata
e
ognuno
aveva
preso
i
suoi
soldi.
Il giorno dopo, segreto professionale, ognuno di noi aveva
un
itinerario:
una
buona
parte
di
noi
aveva
l’abbonamento
ferroviario.
Le
FF.SS.
concedevano
infatti
a
quell’epoca
degli
abbonamenti
a
serie,
che
si
pagavano
mensilmente.
La nostra serie, la tredicesima, valida per quelli che erano
nell’Italia
Centrale,
comprendeva
Emilia-Romagna,
Lombardia,
Veneto,
Liguria,
Toscana,
Marche,
Abruzzi
e
Lazio.
Questo
tipo
di
tessera,
in
vigore
fino
allo
scoppio
della
guerra,
era
poi
stata
ripristinata
dalle
FF.SS.
ed è
andata
avanti
così
ancora
per
alcuni
anni,
poi
hanno
incominciato
a
stringere,
a
stringere…
Adesso
però
c’è
l’abbonamento
a
chilometraggio
che
è
simile,
perché
costa
poco.
Io sapevo che, il giorno dopo la riunione di Foligno, c’era
la
fiera
a
Crocette
di
Castelfidardo
e,
da
buon
collega,
non
ho
mica
detto
dove
andavo
perché
volevo
andarci
da
solo:
una
fieretta
piccola
piccola,
vado
là e
me
la
faccio.
Oh,
non
c’era
ancora
l’Associazione!
Agli altri io non ho chiesto dove andavano; quella sera
tornai
a
dormire
ad
Ancona
e la
mattina
dopo
presi
un
treno
per
Castelfidardo.
Scendo
alla
stazione
e
aspetto
la
corriera
che
portava
a
Crocette
e
che
passava
una
volta
al
giorno:
a
perder
quella
si
restava
bloccati.
Quando scendo dal treno a Castelfidardo per aspettare questa
corriera,
mi
vedo…
circondato
da
cantastorie:
c’erano
tutti
quelli
che
il
giorno
prima
stavano
a
Foligno!
Era
inutile
domandare
dove
andavano…
Eravamo
tutti
lì;
non
c’era
altro
che
prendere
la
corriera
e
andare
a
queste
Crocette.
Be’,
la
fiera…
era
una
fierina,
non
una
fiera,
e
quel
giorno
c’era
anche
poca
gente,
si
vedevano
poche
bestie,
anzi,
le
uniche
bestie…
eravamo
noi!
Noi si andava a lavorare alle fiere del bestiame; ci mettevamo
proprio
vicino
allo
staggio,
tra
un
somarino
e
una
mucca,
e i
garzoni,
non
sapendo
cosa
fare,
venivano
lì.
Per
loro
era
un
passatempo.
Se
poi
avevano
qualche
soldo,
compravano.
Poi
c’erano
anche
gli
altri,
i
compratori,
i
venditori.
Allora io quel giorno dissi: “Siamo tutti qui… Lavoriamo
assieme!”.
Qualcuno, non mi ricordo chi fu, ma forse fui proprio io,
disse:
“Qui
ci
siamo
tutti,
si
potrebbe
fare
il
sindacato”...
Nacque
così
l’Associazione.
Questa Associazione era stata precededuta da due esperienze
simili,
nel
’27
e
nel
’30.
Quella del ’27 nacque a Bologna; si chiamava “Sindacato
Cantori”.
“Suonatori
ambulanti”
mi
sembrava
disonorevole;
“Cantori”
andava
bene
perché
all’inizio,
per
fare
numero
per
costituire
questo
primo
nucleo,
prendevamo
tutti
quelli
che
suonavano
e
cantavano
e
andavano
in
giro
nelle
piazze
o
nelle
osterie.
A
quei
tempi
io
avevo
18 o
19
anni.
La cosa interessò quelli della zona e, tra quelli di Modena,
anche
la
Curadèina
(la
Corradina,
n.d.C.),
che
era
una
campionessa.
Questa
Curadèina
era
una
donna
proprio
di
aspetto
campagnolo,
con
un
bel
fazzoletto
in
testa:
ballava,
cantava,
diceva
anche
delle
parolette
che
a
quell’epoca
erano
un
pochino
spinte.
Lui, il marito, si chiamava Ferdinando Corradini e lei la
chiamavano
Curadèina
proprio
per
questo;
lei
era
la
comica,
la
parlante,
l’imbonitora;
faceva
tutto
lei.
E
vendeva.
Lei
imboniva
e il
marito
era
formidabile
a
suonare
la
fisarmonica;
metteva
un
piede
su
una
sedia,
era
uno
di
quei
suonatori…
“Suona,
gnurànt!”,
e
quando
faceva
una
di
quelle
suonate,
la “Migliavacca”
per
esempio,
la
gente
andava
in
visibilio.
E
lei
dopo,
appena
finito:
“Eh,
adesso
fa
il
gallo,
ma
la
mattina,
quando
arriva
in
piazza,
non…
mica,
eh!”.
La
gente
rideva.
Ma
nel
’47,
per
fortuna,
la
Corradina
non
c’era
a
Castelfidardo…
L’altro sindacato l’avevo fatto nel ’30, a Cremona. Si erano
associati
quelli
della
zona
ma
poi,
proprio
per
ragioni
di
lavoro
e di
necessità,
lasciai
per
un
po’
di
tempo
l’Alta
Italia:
navigavo
male.
Intrapresi un viaggio che durò alcuni anni, feci degli spettacoli
ginnastici
e da
cantastorie,
ma
venendo
verso
la
Toscana
dove
sapevo
di
trovare
meno
concorrenza.
E
dalla
Toscana
arrivammo
fino
a
Grosseto,
in
Maremma;
impiegammo
due
o
tre
anni:
rientrai
in
Romagna,
da
un
paese
all’altro,
con
questo
spettacolo
che
presupponeva
una
sosta
di
otto,
dieci
giorni.
Per fare quel lavoro avevamo comprato una carovana, anzi
due:
una
per
mia
moglie,
me e
i
ragazòli
e
una
per
il
mio
patrigno
e
per
mia
mamma.
Era
una
di
quelle
piccole
compagnie
che
giravano
da
un
paese
all’altro,
quindi,
per
fare
il
percorso
dalla
Romagna
in
giù
ci
avevo
impiegato
un
anno;
tra
venir
giù
e
tornare
indietro,
giunse
il
1939.
C’era
un
odor
di
polvere…
Dissi:
“Torno
in
Romagna”.
E
infatti,
in
Romagna,
accadde:
era
il
1940
e De
Antiquis
ha
fatto
anche
l’esperienza
guerresca,
andando
a
sbarcare
nel
paese
di
Scanderbeg:
l’Albania.
Sono sbarcato in Albania e ho imparato a conoscere questo
signore,
questo
eroe,
che
è il
Garibaldi
degli
Albanesi.
Io,
Garibaldi
che
lo
onoro,
l’ho
onorato
anche
nel
’31;
nel
’31
era
il
Cinquantenario
e
c’erano
in
vendita
i
distintivi
di
Garibaldi.
Mi
ricordo
che
comprai
un
bel
distintivo
di
Garibaldi,
anche
se
allora
c’era…
Ma a
me
questo
Garibaldi
piaceva!
Quando noi italiani siamo andati in Albania non credo che
tutti
lo
volessero,
però
noi
credevamo
che
questi
albanesi
potessero
essere
dei
nostri
fratelli
e di
poter
convivere
molto
fraternamente
tra
Italiani
e
Albanesi;
almeno,
in
un
primo
tempo.
Va
bene
che
sono
arrivati
prima
i
granatieri,
e
certamente
in
casa
degli
altri
certe
presenze
non
sono
gradite.
C’era
stata
presentata
la
cosa
come
una
bella
iniziativa:
“Torniamo
ai
tempi
di
Roma,
rifacciamo
l’Impero!”.
E
invece
dell’Impero
abbiamo
fatto…
l’“imparo”!
Perché
abbiamo
imparato
che
gli
altri
non
hanno
piacere
di
avere
degli
estranei
in
casa
propria.
E
così
è
avvenuto
questo
fatto.
La guerra è finita e io mi sono rimesso a fare il cantastorie.
Ed
ecco
che
si
torna
al
14
settembre
1947
e mi
danno
l’incarico
di
formare
questa
Associazione;
io
l’accetto
con
riserva,
proprio
per
il
fatto
che
ero
stato
da
Scanderbeg,
che
c’ero
andato
con
un
reparto
di
romagnoli,
e
volontari.
La
mia
posizione
politica
era
tutt’altro
che
indicata
per
andare
a
prendere
una
posizione
a
nome
di
tutti.
Allora,
però,
tra
noi
c’era
un
carissimo
collega,
che
era
di
Rimini
e
aveva
un
“DOC”,
una
“denominazione
d’origine
controllata”
molto
diversa
da
quella
di
De
Antiquis.
Io e lui però – si chiamava Silvagni – eravamo amici fin da
quando
ci
eravamo
trovati
in
anni
antecedenti
la
guerra,
con
gli
abbonamenti
ferroviari
in
tasca,
in
un
treno;
lui
aveva
formato
un
terzetto
romagnolo
per
motivi
politici,
perché
era
perseguitato
quale
socialista.
Ci
eravamo
trovati
in
treno:
due
cantastorie,
uno
perseguitato
perché
era
socialista,
l’altro
invece
era…
sulla
cresta
dell’onda…
Noi
credevamo;
credevamo
nella
nostra
vita.
Lui mi spinse ad accettare. Fu per questo che, nonostante i
dubbi
iniziali,
accettai
di
formare
l’Associazione.
Chi
è
nato
nel
1909
come
me,
quando
nel
’22
va
su
un
certo
tipo
di
organizzazione
politica,
la
Marcia
su
Roma,
è
appena
un
ragazzino;
quando
c’è
stata
la
guerra
del
’15-’18,
per
noi
era
una
cosa
proprio
col
cuore,
tant’è
vero
che
dove
sono
andato
io,
in
Albania,
avevo
dietro
la
fisarmonica;
e
non
ero
tutte
le
sere
a
suonare
in
qua
e in
là,
anche
con
gli
albanesi?
Ho fatto spettacoli misti persino dopo, quando eravamo nel
Montenegro
dove
c’era
tanta
guerriglia:
spettacoli
di
varietà,
oltre
a
fare
il
mio
servizio.
Quindi,
io
non
odiavo
quella
gente,
anzi,
le
volevo
bene.
Un
giorno,
in
una
cittadina,
mi
trovavo
disponibile,
in
libera
uscita;
tutti
mi
conoscevano:
De
Antiquis
faceva
le
canzonette,
le
storielle,
anche
là.
Entrai
in
un
localetto:
due
o
tre
tavolini;
vendevano
soprattutto
la
rakìa.
Là
dentro
c’erano
quattro
o
cinque
albanesi,
in
costume
nazionale.
Portano
uno
zucchetto
bianco.
Entrano una decina di soldati italiani; io non ero nell’Esercito,
ero
della
Milizia,
però
la
fraternità…
“Oh,
De
Antiquis!”
Io
ero
in
piedi,
vicino
al
banco.
Questi
ragazzi,
chi
lo
sa,
erano
un
po’…
Io
ero
con
un
reparto
di
romagnoli,
perché
noi
eravamo
tutti
romagnoli;
gli
altri
invece
erano
di
diverse
origini.
Quegli
albanesi
erano
seduti
ai
tavoli.
I soldati italiani pretendono di farli alzare per mettersi
a
sedere
loro.
Gli
italiani
parlano
in
italiano,
ma
gli
altri
non
sono
mica
obbligati
a
capire
l’italiano.
Gli
fanno
cenno
che
si
devono
alzare,
e
loro
non
si
alzano.
Allora
un
italiano
prende
gli
zucchetti
agli
albanesi
e li
sbatte
per
terra.
Questo
voleva
dire
seminare
anche
un’esplosione
di
rivolta.
E
io,
per
sedare
questa
brutta
cosa,
io,
De
Antiquis,
sono
andato
a
raccogliere
i
quattro
o
cinque
berretti;
non
glieli
ho
messi
in
testa,
ma
li
ho
riconsegnati
ai
cinque
infortunati
e
poi
ho
ordinato
da
bere
per
tutti,
italiani
e
anche
albanesi,
che
hanno
accettato.
Gli italiani, che hanno capito di essersi comportati male,
ed
erano
molto
più
giovani
di
noi
(noi
avevamo
tutti
più
di
trent’anni),
se
la
sono
squagliata
e io
sono
rimasto
solo,
nel
bar,
con
gli
albanesi.
Come
sono
usciti
quelli
là,
mi
hanno
circondato,
non
volevano
più
farmi
andar
via
perché
ero
diventato
il
loro
capitano.
Questi sono gli albanesi, come li vedevo io. E questa è
stata
la
mia
parentesi
bellica;
dove
sono
andato,
pur
facendo
il
soldato,
ho
cercato
di
tenere
l’allegria.
E poi è venuto appunto il fatto di riprendere a fare il
cantastorie,
dopo
la
guerra;
venni
ad
Avezzano
a
fare
il
primo
mercato
con
la
storiella
delle
elezioni,
perché
il
Fronte
Popolare
aveva
vinto
in
Romagna,
ma
in
tutta
Italia
comandava
la
Democrazia
Cristiana
e
quindi
andai
subito
a
cantare
contro
la
D.C.,
ma
alla
D.C.
non
gli
andava
bene.
Mi
sequestrarono
la
canzone,
poi
me
la
restituirono
perché
non
c’era
il
nome
della
tipografia;
nella
fretta
di
andare
alla
vendita
ero
partito
con
le
bozze.
Non butto mica tutto via di quello che ho vissuto io, nel
Ventennio,
sia
ben
chiaro;
ma
mi è
sempre
piaciuto
raccontar
quel
che
succede.
Quando ero sotto le armi, arrivato a Bari per venire a casa
in
licenza,
scrissi
una
canzone
che
non
era
poi
tanto
conformista,
perché
diceva
(sull’aria
della
“Cucaracha”,
n.d.C.):
“Dopo avere tanto atteso
i
ventun
dì
di
licenza
giunto
a
Bari
mi
hanno
preso
e mi
han
detto
in
confidenza:
‘Contumacia
devi
fare
ché
puoi
essere
ammalato,
ma
se
devi
andar
a
sposare
ammalato
non
sei
tu”.
Spiegazione: quando arrivavano i soldati, le truppe, dall’oltre
Adriatico,
siccome
c’era
il
tifo
petecchiale
causato
dai
pidocchi,
c’era
un
blocco,
a
Bari,
che
si
chiamava
“contumacia”,
con
una
parola
così,
generica.
Quindici
giorni
bisognava
stare
a
Bari;
non
so
quali
accertamenti
avrebbero
fatto
per
evitare
che
si
portasse
l’infezione.
Questo,
tutto
bene;
ma
c’era
una
deroga.
Siccome uno, quando si trova al fronte, ceca tutte le strade
per
potersela
squagliare,
una
grande
quantità
di
combattenti,
per
venire
via
dal
fronte,
si
sposava
perfino,
per
avere
la
licenza
di
matrimonio.
Quelli
lì,
per
una
direttiva
dall’alto,
non
dovevano
fare
la
contumacia,
era
garantito
che
erano
sani,
così
quando
andavano
a
casa
infettavano
la
moglie.
E
quindi
questo
mi
sembrava
un
paradosso.
Noi
stiamo
qui
quindici
giorni
e
quello
che
deve
andare
subito
a
fare
un
contatto…
quello
invece
no.
Dopo
la
canzone
diceva:
“La contumacia, la contumacia,
rompimento
di
coglion,
la
contumacia,
la
contumacia,
sempre
brodo
e
minestron
(perché
bevevamo
sempre
brodo).
La
contumacia,
la
contumacia,
è
una
cura
original,
la
contumacia,
la
contumacia,
per
andare
all’ospedal”.
La prima sera dopo averla scritta, avendo con me la fisarmonica,
la
canto
in
un
gruppetto
di
soldati
e
uno
mi
dice:
“Dài,
fammela
scrivere!”.
Il
giorno
dopo,
tutti
i
soldati
(erano
diecimila!)
cantavano:
“La
contumacia,
la
contumacia,
rompimento
di
coglion…”.
Sòrbole, è andata a finire al Comando del Policlinico da un
ufficiale,
un
colonnello,
che
va
alla
ricerca:
“Chi
l’ha
scritta?”.
Era sediziosa:
“Se vuoi andare alle latrine,
ci
vuol
la
prenotazione”.
C’erano, come ho detto, diecimila uomini; per andar là alle
latrine
era
un
lavoro,
una
coda,
e io
lo
avevo
descritto
in
questa
seconda
strofa.
Il
bello
è
che
per
fare
il
servizio,
cioè
per
impedire
di
fare
la
piscia,
ci
avevano
messo
la
Guardia
di
Finanza!
Conclusione:
ci
feci
la
canzone.
Allora venne un sergente che chiese: “C’è qualcuno, qui,
che
sa
suonare?
C’è
nessuno
che
ha
la
fisarmonica?”.
Be’, la fisarmonica ce l’avevo io…
“È tua?”
“Eh, perbacco, come no? È mia, ci mancherebbe altro che non
sia
mia!”
“Ah, è tua… Vieni al Comando!”
Io ho capito subito la faccenda. Vado al Comando. Il colonnello,
severo:
“Come ti chiami? Di che reparto sei?” ecc.
Non so chi l’aveva rifatta a macchina, perché era un po’
storpiata,
ma
su
un
foglio
c’era
la
canzone.
“Cos’è questa roba qua?”
“La guardi, sembra una poesia.”
“Ah, lo sai bene, te, che cos’è! La voglio sentir cantare.”
E io ho preso la palla al balzo: “La canto perché l’ho sentita
cantare
anch’io”.
Allora la cantavano tutti…
“Lasciamo stare. Tu ti chiami Lorenzo De Antiquis. Hai scritto…
So
tutto,
quindi
questa
l’hai
scritta
tu.”
“Riconosco che l’ho scritta io.”
“E io la voglio sentir cantare.”
“Eh, no, signor colonnello, se Lei vuole sentirla cantare
Lei
fa
come
hanno
fatto
tutti
gli
altri.
Lei
questa
sera
mi
invita
alla
mensa.
Come
autore
della
canzone
io
partecipo
alla
mensa
e,
alla
fine,
faccio
tutto
il
mio
programma”
(perché
poi
avevo
anche
delle
altre
canzoni,
c’erano
anche
quelle
che
andavano
col
“vento”.
“Eh,
eh,
allora
dico,
ce
la
metto
in
mezzo
e
faccio
un
bel
cocktail
che
può
bere
anche
il
colonnello.”)
Mi ha preso in parola, ma mentre ero là alla mensa (o l’hanno
avvertito
o
che)
è
arrivato
un
ufficiale
dei
miei,
che
era
un
mio
collaboratore;
si
pubblicava
infatti
anche
un
giornaletto
che
si
intitolava
“Il
segone”
perché
dovevamo
segare
il
bosco
per
il
Corpo
d’Armata,
noi
che
eravamo
là
con
intenzioni
non
segalignee,
non
certo
per
fare
il
segone,
noi
volontari…
Questo
avveniva
là
in
Albania.
Anche
lì
nel
“Segone”
c’erano
alcune
“boiate”
che
andavano
mica
tanto
bene…
L’ufficiale era il tenente Pacchioni di Cesena, figlio di
quel
famoso
giurista
Giovanni
Pacchioni
che
andò
a
patrocinare
l’Italia
quando
l’Italia
entrò
in
Etiopia
e
bisognava
invece
far
apparire
che
erano
gli
Etiopi
che
volevano
venir
qua…
le
solite
cose.
Questo Giovanni Pacchioni, a cui è dedicata una via anche a
Cesena,
era
un
grandissimo
amico
del
Presidente
Luigi
Einaudi,
era
uno
del
vecchio
Partito
Liberale;
e il
figlio
invece
no,
era
nella
parte
emergente:
scavezzacollo,
era
ufficiale
nella
Milizia
e
lì,
quando
ha
visto
che
mi
trovavo
a
discutere
col
colonnello
ed
ero
un
po’
inguaiato,
ha
detto:
“Oh,
allora,
se
stasera
De
Antiquis
lo
invitiamo
alla
mensa
ci
fa
un
programma
coi
fiocchi,
ve
lo
garantisco:
anzi,
canto
anch’io!”.
Eh,
sì,
perché
cantava
anche
lui…
Ce
n’era
un’altra:
“Oh, dolce Albania, maliarda sei tu;
se
posso
andar
via,
non
torno
mai
più”.
Allora è andata bene; sono andato alla mensa, ho mangiato
con
loro
e
poi
abbiamo
cantato.
Non
so
se
questa
“Contumacia”
l’hanno
cantata
anche
alcuni
degli
ufficiali
più
giovani.
Eh, sì, anche dopo quel famoso 14 settembre in cui è stata
fondata
l’A.I.C.A.,
bene
o
male
De
Antiquis
ha
passato
un’altra
buona
parte
della
sua
vita
a
guadagnar
da
mangiare
assieme
ai
colleghi,
giorno
per
giorno.
Io
non
avevo
nessuna
speranza
di
diventare
milionario
o
miliardario;
mi
accontentavo
quando
vedevo
che
i
soldi
erano
abbastanza
per
poter
bilanciare,
pagare
l’abbonamento
ferroviario,
far
vivere
la
famiglia.
A un certo momento è venuta un po’ di crisi per i cantastorie,
quando
si è
cambiata
la
situazione;
la
gente
veniva
via
dalle
montagne
e
dalle
campagne
e i
cantastorie
che
andavano
a
fare
questo
lavoro
proprio
in
quelle
zone,
come
me,
cominciavano
a
trovare
sempre
meno
gente,
sempre
meno
gente…
Dopo
sono
venute
le
musicassette,
la
radiolina,
il
cosiddetto
mangianastri,
il
grammofono
alla
portata
di
tutti.
Tutti
potevano
sentire
suonare,
cantare,
molto
meglio
di
quello
che
cantava
un
cantastorie.
Andavo
in
piazza,
non
mi
guardavano
più…
È venuta l’eclissi. Io, che avevo sposato una ragazza del
circo,
che
aveva
sempre
tenuto
alta
la
sua
bandiera
assieme
alla
mia,
saltimbanchi
e
cantastorie,
dico:
“Qua
è
molto
meglio
che
mi
metta
al
servizio
di
mia
moglie”.
E
così
siamo
andati
fuori
per
la
seconda
volta
a
fare
questo
spettacolo,
anche
nel
dopoguerra.
L’abbiamo
fatto
nella
Romagna,
senza
più
andare
tanto
lontano,
con
le
figlie
che
facevano
gli
esercizi,
e
così
siamo
arrivati
fino
al
’54.
Nel
’54,
proprio
a
Piazza
Montefeltro,
a
Forlì,
ultimo
spettacolo:
mia
moglie
ha
chiuso
la
sua
attività.
Mia
moglie
lavorava
bene,
era
molto
brava,
lavorava
agli
anelli,
al
trapezio.
Per lo spettacolo, se andavamo in un locale o in piazza, ci
voleva
il
biglietto.
La
rivendicazione
del
cantastorie
fatta
da
De
Antiquis
è
stata
soprattutto
per
differenziare
il
suonatore
ambulante,
il
suonatore
girovago,
dall’altro
sistema,
cioè
dal
cantastorie
che
andava
in
piazza
a
vendere;
questa
era
una
forma
dignitosa.
Lo
scopo
della
nascita
dell’A.I.C.A.
era
valorizzare
il
cantastorie
e
difenderlo
in
piazza
contro
il
nemico
pubblico
n.
1,
che
erano
i
vigili
urbani,
che
oggi
invece
sono
i
nostri
alleati
perché
quando
oggi
facciamo
gli
spettacoli
in
piazza,
finanziati
dai
Comuni,
abbiamo
a
nostra
disposizione
i
vigili.
Dico:
“Guarda
com’è
cambiato
il
mondo!”.
Gli spettacoli, io e mia moglie, abbiamo cominciato a farli
non
appena
ci
siamo
messi
assieme,
perché
uno
spettacolo
ginnastico
e
comico
rendeva
molto
di
più
(lo
faceva
Ridolini,
e
infatti
molte
delle
mie
storielle
scritte
allora
parlano
di
Ridolini);
questo
spettacolo
si
chiamava
“postone”.
Una
serata
poteva
dare
molto
di
più
di
uno
spettacolo
di
un
cantastorie
isolato.
C’era
tutto:
alla
gente
piaceva
e
tornavano
anche
le
altre
sere,
perché
sennò
non
tornavano
più.
Il bello e il brutto… Quando nel 1928-’29 c’era la miseria
più
spaventevole
che
abbia
mai
attraversato
l’Italia
da
quando
sono
vivo
io,
alla
fiera
di
Santa
Caterina,
il
25
novembre,
a
Rubiera
di
Reggio
Emilia,
c’erano
consociati
tre
circhi:
il
Circo
Caroli,
il
Circo
Pellegrini
e il
Circo
Maggi.
Il Circo Maggi, poveretti, i poverini del circo romagnolo,
erano
padre,
figlio
e la
mamma.
I
due
uomini
erano
due
grandi
artistoni:
facevano
i
salti
mortali
sui
trampoli.
Roba
incredibile.
Alla
sera,
quando
andavamo
a
fare
lo
spettacolo,
non
si
riconoscevano
più,
né
il
padre
col
figlio,
né
il
figlio
col
padre;
non
si
riconoscevano
più
perché
erano
ubriachi.
A un
certo
momento
scoppiavano
delle
risse
furibonde,
degli
insulti,
delle
parolacce;
insomma,
era
una
miseria…
I a quel tempo facevo i “postoni” all’aperto con mia madre,
il
mio
patrigno
e
mia
moglie;
eravamo
dei
signori.
Noi
non
avevamo
un
circo,
ma
avevamo
una
fila
di
panche.
Girando
in
bicicletta
da
un
paese
all’altro
per
cercar
piazza,
vedo
quest’orribile
ammasso
di
rottami
e
dico:
“’orco
d’un
mondo,
poveretti!”
e
questi,
che
avevano
saputo
che
io
avevo
un “circoletto”,
mi
dicono:
“Facciamo
assieme,
facciamo
assieme!”.
“Guardate, per un giorno o due, magari anche tre, facciamo
anche,
ma…”
Alla fine trovai delle scuse.
Io facevo sempre anche il cantastorie; se lo spettacolo
andava
male,
io
la
mattina
scrivevo
quello
che
era
successo,
perché
la
risorsa
del
cantastorie
è
sempre
stata
quella
di
scrivere
i
fatti
che
succedevano
se
“per
fortuna”
succedeva
una
disgrazia.
Io cantastorie lo sono diventato perché sono nato; dal momento
che
sono
nato,
dovevo
diventare
cantastorie.
Se
la
mia
mamma,
poveretta,
era
già
in
piazza
a
fare
quel
lavoro,
cosa
dovevo
fare?
Anzi,
cosa
mi
consentivano
di
fare?
Io sono nato da una mamma che, poveretta, per sua disgrazie,
ha
avuto
la
ventura,
forse
anche
con
la
“esse”
davanti,
di
diventare
una
cantastorie.
Ma
mia
mamma
era
figlia
di
un
veterinario,
e lo
zio
di
mia
mamma
era
sindaco
di
Picinisco,
vicino
a
Frosinone;
l’altro
zio
di
mia
mamma
era
prete,
parroco
di
Picinisco.
L’altro
fratello
era
perito
agrario
e le
due
zie,
siccome
a
quei
tempi
le
donne
non
dovevano
né
studiare
né
niente,
erano
monache
laiche.
Neanche
il
marito:
in
casa,
a
fare
le
casalinghe.
Queste
erano
le
famiglie
patriarcali:
i
fratelli
tutti
diplomati
o
laureati,
e
loro
due…
lì.
Il veterinario, che doveva avere uno spirito garibaldino,
era
violinista
e
aveva
insegnato
ai
figli
a
suonare,
perché
allora
non
c’era
né
radio
né
televisione,
è
chiaro,
e si
vede
che
il
veterinario
faceva
dei
concertini
casalinghi.
Da
Picinisco
c’era
una
corrente
di
emigrazione
in
Inghilterra:
molti
piciniscani
andavano
a
Londra
e
qualcuno
disse
al
veterinario:
“Invece
di
star
lì a
curare
i
ciucciarelli,
va’
in
Inghilterra,
dove
ci
sono
i
cavalli,
le
corse…
farai
i
soldi”.
Lui ci ha creduto ed è partito da Picinisco con lo “sciarrabà”.
Lo
sciarrabà
è un
carrettone
con
due
ruote
altissime,
senza
balestre
(almeno,
così
era
quello
su
cui
sono
salito
io
quando
sono
andato
a
Picinisco),
c’era
da
sbudellarsi.
È
partito
con
lo
sciarrabà
coperto
da
un
telo,
tirato
dal
cavallo,
proprio
tipo
Far
West,
con
tutta
la
famiglia:
da
un
paese
all’altro.
La devozione di Picinisco era la Madonna di Loreto, oltre
alla
Madonna
del
Canneto
che
festeggiano
ogni
anno.
Sono
passati
da
Loreto
e
mio
nonno,
molto
devoto,
ha
fatto
quella
ginocchiata
lì
e,
siccome
a
forza
di
strofinare
e
strofinare,
da
questi
mattoni
ne
uscivano
dei
frammenti,
delle
piccole
particelle,
delle
reliquie
che
i
devoti
raccoglievano
e si
portavano
via,
il
veterinario
ne
ha
raccolti
alcuni
e se
li è
portati
via
per
devozione.
Da
un
paese
all’altro,
fino
in
Francia:
non
ho
informazioni
esatte,
queste
cose
me
le
raccontava
la
mia
mamma.
Quando sono arrivati in Francia, i soldi cominciavano a
calare
e
questo
veterinario
ha
pensato
di
cominciare
a
fare
qualche
suonata;
a
Picinisco,
infatti,
gli
avevano
detto:
“Guarda
un
po’,
veterinario,
che
all’estero,
sapendo
suonare
il
violino,
si
sta
bene!”.
Mia mamma suonava già la chitarra, perché gliel’aveva insegnata
il
suo
babbo,
ad
uso
interno.
Pensava,
quindi,
che
facendo
delle
suonate
avrebbe
guadagnato
tanti
soldi
e
invece
in
Francia,
ogni
volta
che
si
mettevano
a
suonare,
arrivavano
i
gendarmi
che
li
minacciavano
di
arresto
e
gli
facevano
delle
multe.
E allora, un giorno che pioveva e c’era maltempo, dopo una
lite
con
la
Rosa
(la
moglie
si
chiamava
Rosa
Tempesta,
e
forse
quel
giorno
c’era
proprio
una
gran
“tempesta”…)
al
veterinario
è
venuta
una
rabbia
incontrollata:
ha
preso
quei
sassolini
e li
ha
scaraventati
ai
quattro
venti.
I
frammenti
della
Madonna
di
Loreto…
È
arrivato
in
Inghilterra;
naturalmente
ha
venduto
lo
sciarrabà
e i
figli
erano
già
grandi,
poi
è
venuta
evidentemente
una
lite
tra
marito
e
moglie.
Non
so
neanche
se
nell’animo
di
mio
nonno
ci
fosse
qualche
altro
sentimento…
La vita era dura; dopo qualche anno, quando mia mamma che,
poverina,
era
molto
scarsa
di
studio,
aveva
già
incominciato
a
parlare
un
po’
d’inglese,
il
veterinario
è
tornato
in
Italia
con
due
figlie.
Gli
altri
figli
maschi
sono
voluti
restare
in
Inghilterra,
perché
intanto
si
erano
messi
a
commerciare,
ma
in
piccolo,
proprio
in
piccolo:
addirittura
si
erano
messi
a
fare
il
mestiere
che
dopo
è
venuto
di
moda
qui,
nel
dopoguerra:
i
raccoglitori
di
rifiuti.
Oggi
c’è
una
grossissima
ditta,
a
Londra,
che
si
chiama
“Lawrence
De
Antiquis”:
un
grossissimo
tessile,
roba
grossa,
con
cui
naturalmente
non
abbiamo
relazioni.
È
solo
il
mio
omonimo.
Il veterinario allora è tornato in Italia. La figliola più
grande,
dopo
un
po’,
ha
trovato
il
moroso,
un
figlio
di
capostazione
di
un
paesetto
del
Lazio
e si
è
sposata:
si
chiamava
Loreta.
Era
tanta
la
devozione
alla
Madonna…
La ragazzona più giovane, che forse non era poi tanto “giovane”
(avrà
avuto
ventuno,
ventidue
anni…),
te
la
appioppa
là,
in
casa,
con
il
prete
e le
due
monache,
e
lei
doveva
vivere
lì.
Voi
capite:
una
donna
di
venutno,
ventidue
anni
può
essere
felice
in
una
situazione
simile?
Era
in
gabbia.
E avvengono i festeggiamenti della Madonna del Canneto,
sulle
pendici
del
Monte
Meta,
di
là
di
Picinisco:
un
festone
che
non
finisce
mai,
con
musica,
canti,
fuochi
artificiali…
dura
otto
o
ciocie
giorni.
A
questo
grande
festeggiamento
va a
fare
gli
onori
musicali
la
musica
del
corpo
della
Pubblica
Sicurezza
di
allora.
In
occasione
dei
festeggiamenti,
allora
e
anche
adesso,
è in
uso
di
alloggiare
gli
ospiti,
i
suonatori,
nelle
famiglie
patrizie.
Per
combinazione,
nella
famiglia
De
Antiquis
è
andata
una
tromba,
una
prima
tromba.
Cosa
succede?
Adesso
siamo
in
tempi
di
maggiore
scorrevolezza,
ma
allora
la
scorrevolezza
di
legge
non
c’era,
ma
c’era
la
scorrevolezza…
naturale.
Detto
in
romagnolo:
“J
è
scapé”,
sono
scappati
via,
il
trombettiere
e la
ragazòla
del
veterinario.
Scandalo!!
Conclusione: la ragazza è andata a finire a Savignano sul
Rubicone,
dov’era
nato
il
trombettiere;
il
trombettiere
è
stato
scacciato
dalla
forza
di
Pubblica
Sicurezza;
la
ragazola
è
stata
diseredata
dalla
famiglia
e da
tutto
questo
trambusto
è
nato
De
Antiquis,
che
porta
il
cognome
della
madre.
Mia mamma mi ha messo al mondo, ne sono riconoscente, e mi
ha
dato
anche
un
bel
cognome
per
quello
che
è la
vita.
Ho
imparato
a
leggere
e a
scrivere
guardando
le
insegne
dei
negozi
dove
andavamo
a
cantare
e a
suonare.
Mia
mamma,
poveretta,
ha
dovuto
cominciare
a
lavorare
con
mio
babbo
sulle
piazze.
Sapeva
suonare
la
chitarra,
mio
babbo
suonava
la
tromba
ed è
morto
quando
io
avevo
cinque
anni.
A scuola non ci sono mai andato, però ho dato gli esami da
adulto:
ho
la
quinta
elementare.
Quell’anno
lì,
ero
direttore
di
una
compagnia
di
saltimbanchi;
vedo
un
manifesto,
a
Siena:
“Esame
per
adulti”.
Dico: “Ohi, qui è ora che vada a vedere di avere un pzzo di
carta
in
mano”.
Ero un analfabeta, in via giuridica… Mi sono iscritto.
Non so se quell’insegnante fosse venuto a vedere qualche
spettacolo,
io
facevo
il
Ridolini,
facevo
tutto,
chiacchieravo
più
o
meno
come
adesso.
Credo
però
che
quel
professore
sia
venuto.
Certo,
se
mi
faceva
fare
le
operazioni
di
matematica
è
chiaro
che
io,
così
come
ero
entrato,
così
uscivo
fuori.
Mi ha fatto fare un’addizione, una sottrazione, cose semplici
e
poi…
un
po’
di
teatro!
“Va
bene
– mi
dice
– mi
parli
un
po’
di
Petrolini.”
Eh,
io
ne
cantavo
anche,
di
alcune
sue
storielle
un
po’
licenziose,
come
“Se
fossi
più
simpatico,
sarei
meno
antipatico...
”.
È andato tutto bene. Mi hanno dato il diploma di quinta
elementare.
Fui
molto
contento.
Poi,
con
quel
diploma
lì,
strada
facendo,
è
andato
a
finire
che
abbiamo
passato
l’inverno
suonando
da
ballo
e
facendo
qualche
spettacolo;
c’era
ancora
il
mio
patrigno:
io
con
la
fisarmonica,
lui
con
il
violino,
mia
mamma
con
la
chitarra…
Poveretta,
si
addormentava;
ero
solo
io
che
dovevo
tener
su
coi
bassi,
una
fatica
da
cani.
Abbiamo fatto tutto l’inverno; si andava a fare qualche
mercato,
sempre
da
cantastorie,
lei
aveva
ormai
abbandonato
il
mestiere,
io
l’ho
sempre
continuato.
Poi
da
lì
ci
siamo
mossi
e
siamo
rientrati,
appunto,
in
Romagna,
prima
che
scoppiasse
la
guerra.
Tutta
la
vita
passata
così:
da
un
giorno
all’altro
siamo
arrivati
qua,
che
a me
sembra
ancora
di
essere…
Non
mi
sono
neanche
accorto
di
essere
vecchio.
Una
vita
ricca
di
sorprese…
Ma,
dico
la
verità,
ho
avuto
momenti
di
grande
difficoltà,
pur
avendo
attraversato
anche
dei
momenti
di
forte
guadagno.
Non
dimentichiamo
che
io e
mia
moglie
pensavamo
anche
ai
nostri
genitori.
Molte
volte,
insieme
a
noi.,
c’erano
anche
i
miei
genitori
o
anche
quelli
di
mia
moglie.
Lo
spettacolo,
in
definitiva,
lo
facevamo
io e
mia
mogli,
e
mangiavano
anche
tutti
gli
altri:
non
solo
mangiavano,
ma
avevano
la
parte.
Quando
andavamo
a
fare
uno
spettacolo
da
soli
ed
era
un
incasso
grosso,
ci
riempivamo
delle
foderette
di
soldi
ma
quando
dopo,
per
aiutarli,
li
prendevamo
dentro
con
noi,
questi
soldi
non
c’erano
più.
Nel dopoguerra sono tornato lì, a Mugnano, vicino a Perugia,
dove
avevamo
passato
quell’inverno,
a
rivedere
come
stavano
le
cose.
Quando
ci
sono
andato
la
prima
volta
tutti
quei
giovani,
naturalmente,
erano
nella
Milizia
come
me e
insieme
eravamo
andati
a
fare
qualche
servizio
quando
passava
il
Duce
(c’era
la
ferrovia
poco
lontano…).
Dopo, quando sono ritornato nel dopoguerra, di quegli stessi
giovani
uno
era
segretario
della
Coop.,
uno
era
segretario
del
P.C.I…
Ma
non
ci
sono
state
mica
delle
discussioni!
Sono
stato
accolto
fraternamente
come
prima.
Eravamo
sempre
dei
viventi,
ieri
e
anche
dopo,
senza
rancori.
E
così.