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N. 112 - Aprile 2017 (CXLIII)

Dai luoghi comuni ai luoghi sepolti dell’archeologia
Intervista all’archeologo Giovanni Borriello

di Chiara Tangredi

 

Classe 1986. Se molti ricorderanno gli anni Ottanta per Cindy Lauper e Joe Cocker, a lui sono rimasti i giochi della Playmobil. Si è ancora lontani dalle ricostruzioni storiche. Sebbene non dispiace immaginare che in quei giochi ci siano gli esordi della sua inclinazione: passando dal montare i pezzi al rimontare i cocci. Il Dottor Giovanni Borriello si occupa di archeologia. Ma sarebbe sbagliato chiamarlo diversamente da Gianni. Lui è Gianni per chiunque. Una specie di principio d’uguaglianza.

 

C’è una certa astuzia che gli riempie lo sguardo. Mi sembra chiaro adesso. L’archeologia il più delle volte è un malinteso. Non ci si rende conto davvero cosa si sta immaginando. Probabilmente la comprende solo chi la vive ogni giorno. Nella buona e nella cattiva sorte. Sicché una definizione è d’obbligo. L’archeologia è una scienza storica, luogo di indagine. Studia le società passate attraverso le loro testimonianze materiali: la cultura materiale nel suo complesso e le opere d’arte. Nessun oggetto ha dal principio ruolo di testimone. Ma è proprio la funzione di testimonianza a rendere gli oggetti di interesse archeologico. Perché “l’archeologia non diseppellisce cose, diseppellisce uomini e le loro civiltà” (M. Wheeler, 1954).

 

Siamo a Napoli. Gianni è appena uscito dal suo “ufficio”. Così definisce il cantiere a Piazza Municipio dove opera. Lo trovo assiso in panchina a Piazza Carità. È quasi un giorno primaverile. Lui più di me deve rendersene conto. Se la primavera è la stagione degli amori, per Gianni è il momento delle allergie. Sfuggiamo da un esterno movimentato, entrando in un bar. Ci sistemiamo nella saletta del tea. È nervoso. Controllato ma nervoso. Anche io lo sono. Il caffè che abbiamo preso non aiuta. Almeno me.

 

Salve Gianni.

Buonasera Chiara.

 

Sicché hai cominciato con lo scavare un buco nel giardino della nonna e da allora non hai più smesso. Insomma com’è andata?

 

È iniziato più o meno all’età di cinque, sei anni quando ho avuto il primo approccio col terreno, letteralmente giocando nel giardino della nonna. Mentre l’incontro con i resti archeologici è avvenuto a Pompei. Dove di solito, la Domenica, all’età di sette, otto anni, i miei genitori mi lasciavano “scorrazzare”. A questo modo c’è stato questo primo contatto con l’antico in genere e soprattutto con l’età romana che rappresenta da sempre il punto focale della mia formazione e la mia più grande passione. Proprio in quel momento è nato in me il desiderio di andare alla ricerca di qualcosa. E quel qualcosa era il passato! (Sorride).

 

Così nonostante tu sia un Gemelli, un segno d’aria, hai deciso di sporcarti con la terra. Qual è stato il tuo percorso di studi?

 

La mia formazione è un po’ trasversale. Ho frequentato un istituto tecnico commerciale. La maggior parte degli archeologi, normalmente, ha una preparazione classica. Io, invece, nasco come ragioniere. Quindi in me è forte questa tendenza a relazionarmi a un’idea di mondo globale in cui i rapporti commerciali svolgono un ruolo determinante. I commerci rappresentano l’elemento che più mi affascina, soprattutto nel mondo romano, cioè questa possibilità di avere degli interscambi forti, non solo intesi come interscambi di merci, ma come scambio di idee, di cultura in genere. Ho proseguito gli studi iscrivendomi a una laurea in archeologia classica all’Università degli Studi di Napoli L’Orientale che, se vogliamo, è stato il trampolino di lancio nel mondo archeologico. In seguito all’esperienza triennale e magistrale all’Orientale ho conseguito una specializzazione in archeologia classica e romana all’Università La Sapienza di Roma. Adesso eccomi qui, sono rientrato in “patria” se così possiamo dire. Da due anni sono dottorando dell’Orientale, di nuovo al punto di inizio del mio percorso formativo.

 

Andrea Carandini sostiene che alla base del lavoro dell’archeologo ci siano due elementi irrazionali: l’istinto e la curiosità. Sei curioso, Gianni?

 

Estremamente! Penso sia fondamentale esserlo, non solo in archeologia, perché credo che la curiosità sia la base delle scoperte. È facile percorrere strade conosciute, anzi è quello che normalmente uno fa perché si sente più sicuro, però non è sbagliato ogni tanto spostarsi da questa linea nota per andare a vedere cosa cambia. Anche semplicemente guardando lo stesso elemento da una prospettiva diversa.

 

Lo ha detto Indiana Jones: “Se vuoi diventare un bravo archeologo, devi uscire da questa biblioteca!” Nella formazione di un archeologo è altrettanto importante frequentare i libri e i reperti, la biblioteca e il cantiere. Le università italiane sono spesso accusate di un approccio esclusivamente teorico. Questo vale anche per l’archeologia?

 

L’archeologia ha il pregio di essere una disciplina molto, molto pratica. Soprattutto negli ultimi anni si è incentivato un approccio di tipo manuale. Per quanto quello teorico resta imprescindibile. Accanto al lavoro sul campo, indispensabile per una comprensione delle attività archeologiche, non si può rinunciare a una conoscenza teorica quale base fondamentale e complessiva.

 

Gianni è uno studioso delle antichità classiche. Per archeologia classica si intende l’archeologia della cultura greca e romana. Lui è un romanista: al centro dei suoi interessi è l’antica Roma. In ambito accademico la distinzione tra grecisti e romanisti non è assolutamente un fatto privo di importanza. È lo stesso che tifare giallorosso durante una partita Lazio-Roma. C’è pure qualcosa nel suo aspetto, capelli neri, barba sul viso (dice di non raderla completamente da tempo), chiazza glabra sotto il mento, ampie spalle, petto robusto, struttura solida. Ricorda l’archetipo del legionario romano nell’immaginario collettivo. La “militari licentia” se c’è non l’espone. A essa sovrappone un’educata gentilezza.

 

Sei un romanista con un debole per Alessandro Magno. Cosa ti affascina di questo personaggio storico?

 

L’uscire dal proprio mondo conosciuto. La necessità di cercare luoghi nuovi, persone nuove, culture diverse. Alessandro Magno, per me, rappresenta l’emblema di tutto ciò. Quindi è ovvio che lo consideri una figura principale all’interno della storia in generale e nello specifico quella antica.

 

Prima esperienza di scavo: come la immaginavi? Com’è stata? Eri preparato?

 

Indubbiamente la prima esperienza di scavo rappresenta per molti archeologi, me compreso, un venire a contatto con una realtà piuttosto diversa da quella che normalmente uno immagina. Ciononostante questa non è meno interessante. Certo diversa dalla visione generale che si ha dell’archeologia, quindi molto avventurosa. Poi, in realtà, l’avventura c’è sempre. Anche se lo scavo viene fatto, diciamo, in situazioni controllate. L’avventura è l’elemento che condiziona e caratterizza la ricerca archeologica: proprio il cercare è l’avventura nello specifico. La mia prima esperienza è stata agli scavi di Cuma, nell’area delle mura settentrionali. È stata enormemente formativa. Innanzitutto perché era un’area chiave, scoprendolo molto dopo chiaramente, quando la mia preparazione è cresciuta. Inoltre mi sono trovato ad affrontare una situazione estremamente pratica in cui le mie conoscenze, all’epoca ancora molto ridotte, già entravano in gioco fortemente, quindi quell’interrelazione tra aspetti pratici e teorici di cui parlavamo prima era già ben presente. C’era sempre bisogno di un confronto con quello che avevi studiato per comprendere cosa stavi scavando.

 

Lo scavo archeologico, in passato, era orientato alla ricerca di sculture, vasi, elementi architettonici. Questi erano strappati ai loro contesti di ritrovamento e trasferiti nelle collezioni antiquarie, nei musei di antichità del mondo. Oggi lo scavo è sempre meno uno spazio da Far West. Si effettua per risolvere un problema e non per recuperare oggetti. Il metodo con cui viene condotto è quello stratigrafico derivato dalla geologia. La terra viene smontata strato per strato. Gli strati sono rimossi in senso inverso a quello di deposizione: prima gli strati più alti, di recente formazione, poi via via quelli successivi, più antichi nel tempo. Lo scavo si presenta come un luogo d’indagine pianificato perché strutturato con orari di cantiere, compiti definiti, fasi di attività. Le condizioni logistiche dipendono da caso e caso. Per la maggiore si è ospitati in alloggi semplici. In genere ci si disabitua a tutti i confort di casa. La giornata di lavoro inizia presto. Termina nel pomeriggio inoltrato. In genere con due pause: a metà mattina e a pranzo. Il cantiere è gestito da responsabili, punti di riferimento per studenti e quanti vi partecipano. Scavare comporta lunghe giornate di piccone, pala, svuotamento secchi e carriole. Ore trascorse in ginocchio a “troulare” con la trowel, la cazzuola inglese. È uno strumento utile a rimuovere il terreno in maniera più graduale e meno incisiva di quanto consenta il piccone, in modo da indagarlo più efficacemente. II più delle volte i reperti non sono eccezionali. Eppure uno scavo si presenta sempre come una scoperta. Non si sa precisamente in anticipo ciò che la terra può restituire. “Un archeologo non sa mai se trova ciò che cerca o se cerca ciò che trova” (H. Mankell).

 

L’archeologia è spesso definita come la scienza della pala e del piccone. L’attività di scavo, però, è solo una parte del lavoro dell’archeologo. Un’indagine archeologica si compone di diverse fasi: scavo stratigrafico, documentazione, pulizia e catalogazione dei reperti, interpretazione dei contesti e dei reperti. Tu sei responsabile della gestione del magazzino archeologico degli scavi dell’Orientale a Cuma. In cosa consiste il tuo lavoro?

 

Sostanzialmente consiste nel cercare di organizzare e di effettuare una prima classificazione di tutto il materiale che, anno per anno, viene messo in luce. Ciò vuol dire controllare e prendersi cura di quelli che sono i reperti in tutte le fasi: dal momento in cui emergono dal terreno, a seguire durante la fase di pulitura e di prima classificazione quindi di suddivisione macroscopica in periodi cronologici e classi di appartenenza intese come classi funzionali e produttive. È un momento fondamentale perché allo stesso tempo mi occupo anche della didattica, la formazione delle matricole o comunque di coloro che partecipano allo scavo. È un momento chiave perché lo scavo è recente e quindi si ha immediatamente la possibilità di rapportare i reperti al luogo dal quale provengono. Si iniziano a comprendere quali sono le problematiche che poi verranno esaminate nello specifico con analisi successive.

 

Non tutti i reperti sono musealizzati. La maggior parte viene documentata e conservata all’interno di magazzini. Qual è, invece, l’iter di conservazione dei ritrovamenti di una certa importanza?

 

In seguito a quella che è la prima fase di organizzazione e classificazione del materiale, si procede a uno studio più specifico, soprattutto di quei reperti che, chiaramente, meritano di essere analizzati, quelli che noi definiamo diagnostici o che comunque sono utili alla comprensione di problematiche produttive, commerciali o funzionali e in ogni caso sempre allo scopo di ricostruire i vari aspetti di quella che è la storia. Dunque sono presi in considerazione tutti i reperti, ma ci si concentra nello specifico su quelli che risultano essere più interessanti. In tal senso occorre operare scelte di carattere sintetico. Si procede alla creazione di un vero e proprio catalogo, quindi a uno studio analitico dei singoli individui, alla documentazione grafica e fotografica e a effettuare, laddove c’è necessità, restauri e integrazioni. Al che si procede alla musealizzazione.

 

Il tipo di reperti portato alla luce attraverso gli scavi è vario e dipende dal contesto che si sta indagando: ceramica, reperti osteologici, monete, oggetti in ferro o in bronzo, vetro... Gianni è un ceramologo, un esperto di ceramica. Siamo abituati a Indiana Jones in fuga da nazisti e da sovietici, alla scoperta di reperti straordinari. Le sfide di Gianni sono tutte qui, esposte sul tavolo: frammenti ceramici non leggendari da classificare. Eppure quando è a lavoro sembra di guardare John Henry Bonham suonare la batteria. Distingue i frammenti per classi con una velocità che quasi ti mette a disagio. La frase giusta è proprio quella di Jimi Hendrix a Bonham: “Ragazzo, le tue zampe sono più veloci di quelle di un coniglio!”

 

L’importanza della ceramica in archeologia

 

La ceramica ha un ruolo fondamentale. Ci dà tantissime informazioni, funzionando come un vero e proprio “oggetto parlante”. Innanzitutto è il reperto archeologico più frequente durante uno scavo. Oggetti in ceramica sono stati prodotti in grandi quantitativi durante tutte le epoche e si sono conservati in quantitativi altrettanto cospicui, sebbene di solito in frammenti. Diverse sono le informazioni che possiamo ricavare dallo studio di questi manufatti. La ceramica fornisce dati su quella che era la vita quotidiana, informando sugli usi del vivere. A ciò si aggiungono le informazioni di carattere produttivo e commerciale: è possibile riconoscere le aree di origine e di diffusione di questi prodotti, ricostruire le reti commerciali quindi gli scambi delle merci e i contatti culturali, fondamentali per la comprensione del mondo antico. Dall’aspetto economico è possibile passare all’aspetto puramente di gusto quindi alla circolazione di modelli. Ricavare, in questo modo, informazioni utili a definire il processo di acculturazione delle popolazioni, chiarendo come vengono a interagire i popoli conquistati con quelli che conquistano. E non ultima, è stata e rimane l’aspetto fondamentale, la funzione datante. In assoluto la ceramica rappresenta il marker cronologico di base sul quale si fondano ancora molte stratigrafie.

 

Oggetti rinvenuti all’interno di uno stesso strato si ritengono interrati più o meno contemporaneamente. Di conseguenza quelli databili sono indizi utili per la collocazione cronologica di tutti gli altri presenti nello strato. Tra le varie categorie di materiali la ceramica è lo strumento più importante per la datazione degli strati e dei siti. Essa, infatti, ha subito nel corso del tempo modifiche riconoscibili: cambiano le forme, le tecniche, il tipo di decorazione. Ciò ha permesso di elaborare una griglia cronologica delle differenti produzioni ceramiche succedutesi nelle diverse epoche.

 

In tempi recenti sono stati adottati in archeologia metodi di misurazione desunti dalle scienze naturali: il metodo del Carbonio 14, la termoluminescenza. Quanto è ancora rilevante affidarsi alla ceramica come elemento datante?

 

Entrambi gli elementi devono essere presi in considerazione: l’archeometria da un lato e gli studi classici di ceramologia dall’altro devono sempre andare a braccetto affinché si possano migliorare le datazioni.

 

In quasi tutte le epoche antiche è possibile distinguere tra una ceramica comune e una ceramica fine. Nella ceramica comune l’aspetto funzionale prevale su quello estetico. Si tratta di una produzione destinata a un uso quotidiano. Al contrario la ceramica fine è una produzione più raffinata. Queste categorie includono al loro interno classi differenti. La classe definisce un insieme di vasi prodotti con caratteristiche comuni. Gli elementi che concorrono a definire una classe sono diversi: proprietà tecniche e produttive, repertorio formale, decorazioni, contrassegni e bolli, distribuzione geografica.

 

Di quali classi ceramiche ti occupi?

 

Principalmente terra sigillata italica, ceramica a pareti sottili e l’iberica dipinta.

 

Di Alberto Angela, Gianni ha l’agilità linguistica e la capacità di comunicazione. Non è stato sempre così, ammette. Fatto sta che adesso salta da un argomento all’altro come la pallina del flipper. Così sotto la spinta di forze discorsive rimbalziamo a Cuma. Il geografo greco Strabone la riteneva la più antica fondazione greca d’Occidente. Posta sul litorale campano, di fronte all’isola di Ischia, nell’area vulcanica dei Campi Flegrei. Dal 1994 un nuovo programma di ricerca ha interessato l’area archeologica, coinvolte la Soprintendenza, le università napoletane e il Centro Jean Bérard. L’Università degli Studi di Napoli L’Orientale si è occupata di indagare il settore nord-occidentale. La missione, dal 1994 al 2006 diretta dall’etruscologo Bruno D’Agostino, è dal 2007 sotto la direzione del professore Matteo D’Acunto. Alle indagini cumane Gianni collabora da ben undici anni. È disponibile a spiegare se e come cambia il quadro relativo a Cuma a fronte delle nuove investigazioni.

 

Nel 2007 si è intrapreso lo scavo in estensione del quartiere abitativo compreso tra il Foro e le mura settentrionali. Obiettivo: ricostruire il sistema urbanistico di questo settore della città. La continuità abitativa ha reso possibile ricostruire le diverse fasi di occupazione. Potresti descriverne gli sviluppi: dalla fondazione alle ultime fasi di frequentazione?

 

Indubbiamente non è facile, visto l’arco cronologico ampio. Si parte da una fase protostorica, anteriore all’avvento della prima colonizzazione greca, con attestazioni soprattutto di necropoli, nella fase opicia sostanzialmente. La prima colonizzazione greca si colloca nella seconda metà dell’VIII sec. a.C. Nell’abitato sembra ci sia già una pianificazione di base impostata in contemporanea alla fondazione o immediatamente dopo, quindi già verso la fine dell’VIII e gli inizi del VII sec. a.C. In tutta la fase arcaica gli assi stradali così come le prime abitazioni sembrano già avere quella strutturazione che poi si conserverà anche nei secoli successivi, con le dovute modifiche. Su questo impianto, infatti, si strutturerà la fase sannitica e la fase romana che andranno sostanzialmente a ripercorrere i tracciati, ricalcandoli, già definiti nella fase più antica. Gli impianti di epoca romana sono quelli, chiaramente, più presenti. Per adesso è stato messo in luce questo grande isolato. Recentemente si suppone che il margine più settentrionale si vada a strutturare come fascia relativa alle aree produttive. Ovviamente questi sono elementi inziali. Solo nuove indagini potranno confermare o meno tali ipotesi. Infine c’è una fase tarda di IV-VI sec. d.C. che sembra essere molto limitata. Probabilmente già alla fine del VII sec. d.C. l’area viene dismessa. Comincia ad assumere quella connotazione agricola che mantiene tutt’oggi.

 

Nel 2008 presso le mura settentrionali, a ridosso dello stadio, è stato rinvenuto un deposito di materiali ceramici identificato come scarico di fornace. Marco Giglio ha dichiarato: “Il sogno di ogni archeologo delle ceramiche è trovare una discarica di questi materiali”. La scoperta consente, infatti, di riaprire la questione delle produzioni locali. Stiamo parlando di scarti di lavorazione. Puoi spiegarne l’importanza dal punto di vista archeologico e quali sono i dati emersi dallo scavo dello scarico?

 

Questo è uno di quei rari casi in cui un oggetto brutto, un oggetto che in sé non ha mantenuto quelli che sono gli standard per la vendita rappresenta un elemento molto più importante rispetto a un oggetto ben fatto. La presenza a Cuma di scarti (malcotti, rotti e quant’altro), oggetti che sostanzialmente non erano vendibili neanche a un prezzo più basso, perché ormai non più idonei alla funzione per la quale erano stati creati, per noi rappresenta un elemento fondamentale. Il grande quantitativo di questi scarti, parliamo di diversi chili e numerosissimi individui, ci dà, infatti, la possibilità di accertare e di collocare in ambito locale una serie di produzioni ceramiche. Allo stato attuale, come è già stato presentato in alcuni convegni, i materiali rinvenuti permettono di documentare una produzione locale sostanzialmente limitata a tre classi: la ceramica a vernice rossa interna, confermando il dato delle fonti letterarie che ne parlano chiaramente; le ceramiche comuni, nello specifico soprattutto tegami e piatti-coperchi; le pareti sottili che rappresentano la novità, fino a questo momento, infatti, non si parlava di una produzione di pareti sottili a Cuma, mentre adesso la presenza di questi scarti ne attesta la produzione.

 

Cuma, quindi, si inserisce tra i centri produttori di ceramica a pareti sottili insieme ad altri individuati in Campania come Benevento con il sito di contrada Cellarulo, Pompei e Allifae. Cosa puoi dirci della produzione cumana?

 

Indubbiamente è un qualcosa che sta emergendo soltanto di recente. La pubblicazione relativa a questa produzione è del 2016. Possiamo dire che dovevano esserci dei modelli che si possono definire “campani”. Ora sull’entità dei quali vanno fatti necessariamente degli studi. Però questo ci dà la misura di una coerenza regionale. La commercializzazione dei prodotti realizzati in Campania non era limitata solo a quest’area. Questi, infatti, avevano larga diffusione, erano esportati soprattutto verso il limes germanico e in Spagna. Così come per i prodotti anforici e per le produzioni di ceramica fine, che ebbero una discreta diffusione in questi ambiti, accade lo stesso anche per la ceramica comune e per le pareti sottili. Ovviamente solo procedendo a un’analisi puntuale di quelle che sono le attestazioni potremo avere un’idea precisa sia dal punto di vista quantitativo sia qualitativo di questi marker commerciali.

 

È accertata anche in Campania la produzione di terra sigillata. Sono state individuate officine nella stessa Puteoli (Pozzuoli). In particolare l’officina di Naevius Hilarus: di cui una è sicuramente da localizzare a Puteoli, un’altra potrebbe essere localizzata a Cuma sulla base del ritrovamento di tre frammenti di matrici. Rimane in discussione il rapporto cronologico tra le due: se cioè l’officina cumana abbia preceduto oppure sia stata una succursale dell’impianto puteolano. Ti chiedo: fino a che punto è possibile parlare di sigillata cumana? Qual era il rapporto tra Puteoli e Cuma?

 

Chiaramente è estremamente difficile riuscire a distinguere i due gruppi dal punto di vista qualitativo. Le produzioni cumane e le produzioni puteolane quasi certamente facevano riferimento a uno stesso bacino di approvvigionamento per quanto riguarda le materie prime. Allo stato attuale non emergono, a parte le tre matrici, elementi a conferma di una produzione cumana. Pertanto rimane in dubbio la presenza di Nevio in ambito cumano. Tuttavia non è improbabile, in virtù di quella tradizione produttiva presente a Cuma, immaginare una Cuma quale centro produttivo non secondario di sigillata, e perché no, come immagina il professore Gianluca Soricelli, pensare alla creazione di un’officina prima a Cuma e poi successivamente a Puteoli. Rimane un’ipotesi plausibile, per quanto al momento non verificabile. Ciononostante quello che si evidenzia è che nel momento in cui, in epoca romana, Puteoli diviene un centro fondamentale dal punto di vista commerciale, Cuma deve aver avuto un ruolo determinante. Magari non più come città con la quale direttamente si avevano questi rapporti commerciali, ma quasi come una sorta di fucina di Puteoli, quindi come un retrobottega più tranquillo di una Puteoli invasa da masse enormi di merci, persone, scambi.

 

Affrontiamo la questione delle “cumanae testae”. Le fonti letterarie (Varrone, Marziale, Tibullo, Stazio, Apicio) fanno menzione di vasellame cumano cioè ivi prodotto. Ancora incerta è l’identificazione di tali produzioni. Innanzitutto capire se si tratta di ceramica comune oppure fine.

 

Il problema principale è che nelle fonti non è chiara la destinazione d’uso della ceramica cumana. Marziale (XIV,114) colloca a Cuma una produzione di colore rosso senza specificarne l’impiego. Varrone (Men.114), invece, cita i “cumanos calices” di cui si presume la funzione potoria.

 

Apicio menziona la cumana sempre come una ceramica da porre a contatto con il fuoco, una ceramica comune da cucina. Le interpretazioni moderne divergono. Per il Comfort (1973) le “cumanae testae” sono da identificare con la terra sigillata (ceramica fine). Per cui le officine di terra sigillata puteolana andrebbero localizzate a Cuma piuttosto che a Puteoli. Al contrario il Pucci (1975) identifica le “cumanae testae” con la ceramica a vernice rossa interna (ceramica comune).

 

Soricelli propone una lettura diversa: Apicio e forse Stazio provano la presenza di una produzione cumana di ceramica comune da cucina; Varrone e Tibullo attestano a Cuma una produzione più fine da mensa, nel caso di Tibullo può ipotizzarsi una produzione di sigillata.

 

Con quali produzioni ritieni siano da identificare le “cumanae testae” menzionate dalle fonti letterarie?

 

Il termine “cumanae testae” ricorre in una serie di fonti in cui il rapporto sembra essere sempre con una ceramica di uso comune, di uso quotidiano e soprattutto a contatto con il fuoco. Quindi ormai diciamo che quando si parla di “cumanae testae” è da intendersi la produzione di ceramica a vernice rossa interna, di cui Cuma doveva rappresentare il centro produttivo principale. Difficile, poi, comprendere se gli altri termini riferibili a vasi e associati all’aggettivo cumano abbiano la stessa valenza. Per esempio il cumano calice citato da Varrone potrebbe eventualmente rappresentare una produzione alta, una ceramica fine. Anche qui si discute molto: se il calice sia effettivamente un prodotto potorio o possa, invece, indicare anche un prodotto da fuoco. Però sembra plausibile l’ipotesi che il vasellame menzionato da Varrone sia da riferire ad altra tipologia di prodotti cumani e perché no, a questo punto, vista la nuova scoperta, pensare anche alle pareti sottili che erano vasi potori, non di grandissima qualità, data la frequenza e l’estrema rapidità di realizzazione.

 

Tante campagne di scavo cumane. Tanti ricordi. Qualcuno in particolare?

 

Indubbiamente è difficile focalizzarsi su un singolo ricordo. Quello che posso estrapolare da questi undici anni di esperienza cumana è soprattutto l’interazione che si viene a creare e tra i collaboratori e tra chi si sta approcciando per la prima volta allo scavo. Il ricordo, diciamo così generale, non specifico, può essere l’emozione leggibile sui volti di chi per la prima volta mette piede su uno scavo, quell’istante in cui ci si rende effettivamente conto di cosa rappresenta l’archeologia, nel bene e nel male, si cancella la propria idea di archeologia e la si vive realmente. Spesso e volentieri hai la conferma che, anche se l’idea che ti eri fatto è diversa, l’archeologia reale è comunque ugualmente bella se non di più. O la ami o la odi. Sto parlando di Napoli. Da Cuma, infatti, ci rovesciamo a Napoli.

 

Dal 2015 collabori agli scavi della Metro in Piazza Municipio. Durante i lavori nella Stazione Municipio è stato ritrovato l’antico porto di Napoli. Lo scavo è stato definito un vero e proprio “pozzo di San Patrizio” per quantità e qualità del materiale rinvenuto. Sono state portate alla luce cinque navi d’epoca romana (in sostanza battelli lunghi circa 15 metri). Presumibilmente queste partivano dall’antico porto di Napoli per prelevare i carichi dalle grandi navi che, a causa delle loro dimensioni, non potevano attraccare ai moli cittadini. Cosa è accaduto all’antico porto?

 

Ricostruire la vita del porto di Napoli non è cosa facile. Stiamo parlando di una fase lunghissima e soprattutto di cambiamenti economici, commerciali, geologici che l’area ha subito nel tempo, chiaramente non illustrabili in breve se non a discapito di una loro generalizzazione. Indubbiamente il ruolo che ebbe il porto di Napoli deve essere rivalutato rispetto allo scenario prospettato dalle fonti letterarie. Dove, diciamo, l’antico porto sembra essere praticamente assente. È possibile usare il porto di Napoli come termine di confronto. Se quello di Napoli, di minor importanza, ha restituito tali quantità di materiali e in generale di strutture, allora dobbiamo immaginare che un porto più grande come quello di Pozzuoli, onnipresente nelle fonti, doveva essere estremamente complesso e come struttura e come possibilità di scambi. Se così è allora stiamo parlando di un porto di Pozzuoli di grandissimo livello.

 

Cosa distingue i ritrovamenti di un insediamento come quello di Cuma rispetto a quelli emersi durante gli scavi dell’antico porto? Tipo di reperti, indice di frammentarietà, stato di conservazione?

 

Sono molto diversi. L’area di Cuma è uno scavo in emerso, è stata sottoposta a continui rifacimenti. Perché appunto abitata, il terreno viene continuamente mosso, turbato. Ciò ha comportato una frammentazione sempre maggiore delle strutture e dei materiali. L’estrema frammentarietà dei reperti che emergono nella realtà cumana così come nelle altre realtà terrestri è sostanzialmente dovuta a questi continui movimenti di terra che si effettuano sempre sulla stessa area, a distanza anche di secoli. Se si pensa che in un metro si può avere anche un millennio, è possibile immaginare di che tipologia di contesto stiamo parlando. Tutt’altra storia è quella del porto di Napoli, così come di tante altre realtà di scavo marittimo. In questo caso ovviamente non si va a intervenire, se non raramente, su fondali marini che quindi sono lasciati così, non disturbati, come i reperti che per varie ragioni ci vanno a finire. Le anfore cadute in acqua durante il trasbordo, ad esempio, si sono conservate quasi integre. Ciò comporta comunque una stratificazione, ma una conservazione sostanzialmente quasi totale di quelli che sono i reperti. Quindi la possibilità di leggere e ottenere molte più informazioni attraverso l’analisi degli stessi.

 

Da quasi un decennio Gianni collabora con il Gruppo Archeologico Napoletano, una ONLUS nata nel 1971 attiva nell’ambito della conoscenza, della tutela e della valorizzazione del patrimonio culturale. Nel 1999 al G.A.N. è stato affidato lo scavo dei due mausolei funerari di Torre San Severino nei pressi di Licola, nel comune di Giugliano (NA). Le attività di scavo si sono svolte, in più riprese, fino al 2004. Condotte dai soci del G.A.N sotto la supervisione di archeologi. Gianni si sta occupando del laboratorio di catalogazione dei reperti rinvenuti durante lo scavo. Il laboratorio è diventata un’opportunità per avvicinare i non addetti ai lavori, un’occasione pratica per gli studenti di archeologia, un punto aggregante. Obiettivo dichiarato è il catalogo, la didattica e non ultimo la socializzazione.

 

Il Gruppo Archeologico Napoletano: opportunità e limiti del volontariato in archeologia?

 

L’archeologia ha un forte pregio: affascina molto. Poi tutt’altra cosa è essere un archeologo, tutt’altra cosa è viverla in maniera continuativa e quotidiana con quelli che sono i pregi e i difetti. Il G.A.N. cerca appunto di aprire il mondo dell’archeologia anche a chi non ne è parte, vuole essere coinvolto e contribuire. L’esperienza al G.A.N., le diverse esperienze, dall’apertura di un sito normalmente chiuso alla presentazione di un sito durante una guida o l’attività di laboratorio che portiamo avanti da quattro anni, rappresentano tutte facce del desiderio sostanzialmente di dare la possibilità di avvicinarsi o quanto meno di affacciarsi a questo mondo. Il problema più grosso dell’archeologia, ma di tanti ambiti scientifici, è la difficoltà di comunicare con chi non ne è parte. Il G.A.N. è un ottimo tassello per raccordare i due mondi: da un lato quello dell’archeologia tout court e dall’altro quello del volontariato archeologico. I limiti restano nella mancata formazione di chi poi oggettivamente è impegnato nel volontariato. Si dovrebbe essere molto più attenti alla formazione del volontario al fine di un corretto operare.

 

Dicono di te che sei un insegnante pazzesco. Insegnare: cosa significa per te?

 

(Al pazzesco scoppia in una risata assurda. Coinvolge anche me. Ci vuole un po’ per riguadagnare la serietà). Ti ringrazio per il complimento. Quello che più mi preme nel fornire una spiegazione, quando mi trovo a dover presentare uno scavo o un reperto e quant’altro, è cercare di considerare due aspetti: da un lato l’aspetto scientifico, teorico e anche accademico, dall’altro cercare di essere quanto più semplice e chiaro possibile. Credo sia inutile usare parole complesse se non spiegate. Usare un linguaggio tecnico è necessario per consentire a chi intende approcciarsi a un determinato mondo di acquisirne il linguaggio specifico, però, allo stesso tempo spiegando i concetti in modo semplice. Questo vuol dire insegnare secondo me: dare la possibilità a tutti di comprendere! Insegnare comporta tutta una serie di responsabilità che una persona dovrebbe avere e dovrebbe sentire nel momento in cui fornisce delle informazioni. Soprattutto quando si stanno formando persone che dovranno lavorare su un patrimonio culturale stimato e invidiato da tutto il mondo!

 

Non hai a che fare solo con la ceramica. Sei anche un collezionista di monete. Quando hai cominciato?

 

Il collezionismo nella storia degli studi archeologici ha rappresentato indubbiamente un punto di partenza di quello che poi è diventata l’archeologia. Nell’animo del collezionista c’è comunque il desiderio di conoscere, di comprendere, di diventare un esperto di quell’ambito. Collezionare monete è nato così, quasi per caso, sempre intorno ai cinque, sei anni. Lì c’era un altro aspetto a cui sono da sempre legato: la geografia! Quindi sostanzialmente collezionare monete che provenissero da tutto il mondo. Accanto a questo, poi, anche gli aspetti storici intrinsechi nella moneta. Il fatto di aggiungere una pluralità di elementi a quello che è un semplicissimo oggetto dal valore elevatissimo sia in termini puramente economici, sia soprattutto di informazioni ricavabili.

 

È una situazione complessa quella che vive il patrimonio culturale in Italia. C’è troppo ed è conservato male. Sei stato in Germania. Dei Tedeschi ti ha colpito un atteggiamento differente nei confronti del patrimonio. Quale?

 

Indubbiamente ciò che condiziona l’Italia è il quantitativo. È difficile esporre tutto e bene. In altre realtà, invece, dove il patrimonio magari è più ridotto, si riescono a trovare soluzioni migliori. La differenza l’ho riscontrata in tutto il mondo anglosassone. Questo approccio estremamente pratico. Purtroppo l’esposizione dei reperti o comunque dei contesti di scavo in Italia è fortemente condizionata dal nostro bagaglio culturale che spesso è stato troppo attento agli aspetti propriamente storico-artistici e meno alla funzione che questi oggetti rappresentavano e svolgevano in passato. Questo è un elemento secondo me importantissimo in ambito archeologico: il ricondurre l’oggetto al suo contesto di rinvenimento. Perché senza la comprensione di tutto quello che è intorno all’oggetto non puoi comprendere l’oggetto.

 

Perveniamo all’ultima dea, la Spes. Un tempo non si faceva che parlare di speranza di vita. L’elastico dell’esistenza umana è ormai stato teso. Le speranze attuali sono altre. La speranza di lavoro è ciò che calcoliamo instancabilmente.

 

Ho una domanda orrenda da farti. Il mestiere dell’archeologo è una professione impegnativa. Malgrado l’elevato livello di formazione, gli archeologi italiani hanno difficoltà a trovare un impiego stabile e adeguatamente remunerato. Per molti l’archeologia non costituisce la fonte principale di reddito. Tu riesci a fare ricerca grazie al dottorato con borsa di studio. Una volta terminato il dottorato, cosa accadrà? Quali sono i tuoi sogni a trent’anni? Quali, invece, le probabilità?

 

L’archeologia vive una realtà molto complessa. Laddove c’è una forte necessità di archeologi che ormai compaiono come figure in molti cantieri e in tutte le aree dove c’è esigenza. A questo non corrisponde una continuità lavorativa: questo è il grosso problema di chi è legato dal punto di vista personale, affettivo e lavorativo a questo mondo. Da parte mia la speranza ovviamente è di rimanervi in un modo o nell’altro, proseguendo quella che è la carriera accademica, anche lì affrontiamo un discorso fortemente complesso visto le riduzioni, e dall’altro collaborando con le Sovrintendenze. Ciò che mi preme personalmente è poter comunque avere una relazione con questo mondo. Anche se dovessi allontanarmi per necessità lavorative, rimarrei comunque legato, cercherei un contatto con l’archeologia, se non come archeologo, magari lavorando nel volontariato archeologico. Così, almeno, in qualche modo, continuare con questo sogno.

 

Gli è andata proprio di traverso quella parola. Sogno!

 

In Italia un laureato in Archeologia e Storia dell’Arte non può insegnare storia dell’arte nelle scuole. C’è un problema di fondo. Quale? Ritieni sia necessario ridefinire il profilo professionale dell’archeologo?

 

Trovo sia ingiusto non dare la possibilità a persone che hanno speso anni della propria vita, enorme passione, perché scegliere un ambito del genere vuol dire mettere tutta la passione che si ha, e non dare la possibilità a queste di poter condividere ciò che hanno imparato, formare chi magari vuole intraprendere il loro stesso percorso. Penso che sia una grossa perdita. Per un Paese che potrebbe fondare buona parte di quella che è la sua economia sul patrimonio culturale, se ne hanno tutte le possibilità, credo che questo sia un forte limite.

 

Il precariato degli archeologi da un lato riflette la grave crisi del Paese, dall’altro evidenzia anche un pregiudizio. L’archeologia è considerata ostacolo allo sviluppo della modernità. È davvero una scienza inutile e inattuale? C’è il pericolo che l’archeologia diventi autoreferenziale, trascurando o perdendo ogni rapporto con la realtà?

 

Il problema, da un lato, è proprio quello di sveltire alcune pratiche perché chiaramente l’archeologo è visto come una figura di intralcio ai lavori. Dall’altro, come dicevo in precedenza, solo cercando di spiegare, di far comprendere a quante più persone possibili ciò che si sta facendo e l’importanza di ciò che si sta facendo, si può avere la possibilità di non essere di intralcio e, anzi, di essere un punto a favore di un Paese che vuole crescere.

 

Come ti ha cambiato l’archeologia? Come ha influenzato il tuo modo di vedere, le tue abitudini? Quali i pregiudizi che ti ha consentito di superare?

 

Approcciarsi al mondo dell’archeologia, in realtà, non è né più né meno che occuparsi della società. Essere un sociologo dell’antico: di culture passate, di gruppi culturali vissuti decine, centinaia, migliaia di anni fa. L’archeologia ti dà la possibilità di aprirti, di “metterti nei panni” degli altri. La cosa che frequentemente un archeologo fa è cercare di interpretare. Puoi interpretare qualcosa soltanto se cerchi di leggerla integralmente, osservandola da tutti i punti di vista. Ciò ti offre la possibilità di confrontare tipi di realtà diverse e possibili.

 

Gianni ha la passione per i luoghi e i paesaggi. Il suo pittore preferito è Canaletto. Di cui apprezza l’estrema precisione, realismo e tecnica esecutiva. Gli piace molto la pittura fiamminga. Soprattutto Jan van Eyck. Dopo averlo visto alla National Gallery di Londra va alla ricerca di sue opere. Ama viaggiare. Un po’ è colpa di mamma e papà. Viaggi e vacanze sono cominciati da bambino in famiglia. Nessun posto al mondo, dice, non è meritevole di una visita. Si deve fare il massimo per vedere il più possibile.

 

C’è uno slogan a cui sei legato: Sii turista nella tua città e cittadino nelle altre. Cosa vuol dire per te?

 

Alle volte la situazione più bella è vivere la propria città come se non la si conoscesse. Napoli ti dà questa possibilità di conoscere nuove cose anche dopo trent’anni. Mentre dall’altro c’è il poter girare in una città, di cui sai ben poco, però, iniziando a viverla in maniera più quotidiana. Anche un’enorme città, come può essere una Parigi o una Londra, poi, dopo qualche tempo, si riduce a delle aree più piccole, dei quartieri. Anche riuscire a vivere quel piccolo spazio, come parte della propria quotidianità, è l’altra faccia della medaglia che trovo estremamente interessante. Quindi da un lato scoprire la propria città come se non la si conoscesse minimamente, dall’altro sentirsi parte di una città che ti ospita, con la quale magari hai pochissime relazioni, ma in cui ti senti a proprio agio e inizi a creare delle relazioni che poi sono quelle che normalmente hai a casa tua.

 

Ti faccio la stessa domanda che la Parodi ha posto ad Alberto Angela. Cleopatra, Lucrezia Borgia e l’australopiteco Lucy: chi avresti corteggiato?

 

Forse Lucy. (Al che ride).

 

Ho il sospetto che tu mi abbia involontariamente mentito. Le avresti corteggiate tutte!

 

(Ride. Ma non risponde).

 

Quegli occhi: buoni cattivi, astuti prudenti, introversi audaci, timidi incoraggianti, tristi allegri. Pieni delle cose che non dice, delle confessioni che non concede. Ero pronta a intervistare un archeologo. Tuttavia l’archeologia è un mestiere, un’attitudine, un’inclinazione. Ogni archeologo è un uomo. Ogni uomo è una memoria pluristratificata. Racconta una congerie di accidenti reali e non. Esprime a un tempo autenticità e finzione. Va smontato strato per strato fino a ciò che non è più personaggio, ma uomo. Ecco il mio rammarico!

 

Avrei dovuto portare una trowel per riuscire a scavare più a fondo!

 

Avresti dovuto procurarti un Bobcat allora! (Lui tira in ballo l’escavatore per scherzare sul fatto che quest’inverno ha messo su qualche chilo. Così è venuta fuori l’autoironia). Se vuoi sapere chi è Giovanni Borriello hai bisogno di molto più tempo! (Poi ride. Di nuovo. Per evitare la serietà. Lo accompagno nella risata. Anche se ho come la sensazione che ci sia poco da scherzare).

 

“Napule è na’ camminata”. Ci conduce, il più delle volte, in luoghi imprevisti, verso persone inattese. Dove ogni uomo è un percorso da affrontare. Gianni è indubbiamente un cammino interessante. Come andare da via Toledo a via Chiaia fino all’antico porto a Piazza Municipio. Intanto come uno strato sottile si è depositato su di noi. Un’altra giornata è trascorsa. Qui è pieno di gente che attende di sparire dalla vita. Allora mi viene in mente. Gianni e se fossi un archeologo per solitudine? Perché hai trascorso l’adolescenza in maniera riservata e introversa e hai deciso che non ti piaceva. Ami i paesaggi perché significa uscire di casa, trovare qualcuno, non essere escluso. Subisci il fascino degli interscambi perché per instaurare delle relazioni (commerciali, culturali) bisogna essere per lo meno in coppia, mai uno. L’archeologia potrebbe essere il tuo tentativo di rispondere alla solitudine. Disseppellire “uomini e le loro civiltà” per non rassegnarti alla riduzione dell’umanità, alla paura della desolazione, al dispiacere di sentirti solo. Un’ipotesi. Nient’altro.

 

Gli archeologi tentano di ricostruire l’umanità, ricomponendo le memorie del mondo materiale. Eppure ci sono profondità a cui non si potrà arrivare. Non basteranno le trowel, i Bobcat, le antologie di Spoon River, i Freud del mondo a ricostruire le memorie interiori. Ogni uomo è suolo e sottosuolo. Nessuno capisce esattamente qualcun altro. Ciononostante è importante coltivare il ricordo dell’umanità come forma di sopravvivenza per non essere digeriti dal tempo, come testimonianza, come eredità per andare avanti ricordando che certe strade sono preferibilmente perseguibili. Da dove veniamo e dove stiamo andando: a ciò tenta di rispondere l’archeologia. È un procedere all’indietro per capire dove sia possibile arrivare. Perché, anche se fosse stata la circostanza casuale il nostro Padre Eterno, saremo nati per caso, ma non dal nulla. Se non veniamo dal nulla, probabilmente non finiremo nel nulla.



 

 

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