N. 112 - Aprile 2017
(CXLIII)
Dai luoghi comuni ai luoghi sepolti dell’archeologia
Intervista all’archeologo Giovanni Borriello
di Chiara Tangredi
Classe
1986.
Se
molti
ricorderanno
gli
anni
Ottanta per
Cindy Lauper
e
Joe
Cocker,
a
lui
sono
rimasti
i
giochi
della
Playmobil.
Si è
ancora
lontani
dalle
ricostruzioni
storiche.
Sebbene
non
dispiace
immaginare
che
in
quei
giochi
ci
siano
gli
esordi
della
sua
inclinazione:
passando
dal
montare
i
pezzi
al
rimontare
i
cocci.
Il
Dottor
Giovanni
Borriello
si
occupa
di
archeologia.
Ma
sarebbe
sbagliato
chiamarlo
diversamente
da
Gianni.
Lui
è
Gianni
per
chiunque.
Una
specie
di
principio
d’uguaglianza.
C’è
una
certa
astuzia
che
gli
riempie
lo
sguardo.
Mi
sembra
chiaro
adesso.
L’archeologia
il
più
delle
volte
è un
malinteso.
Non
ci
si
rende
conto
davvero
cosa
si
sta
immaginando.
Probabilmente
la
comprende
solo
chi
la
vive
ogni
giorno.
Nella
buona
e
nella
cattiva
sorte.
Sicché
una
definizione
è
d’obbligo.
L’archeologia
è
una
scienza
storica,
luogo
di
indagine.
Studia
le
società
passate
attraverso
le
loro
testimonianze
materiali:
la
cultura
materiale
nel
suo
complesso
e le
opere
d’arte.
Nessun
oggetto
ha
dal
principio
ruolo
di
testimone.
Ma è
proprio
la
funzione
di
testimonianza
a
rendere
gli
oggetti
di
interesse
archeologico.
Perché
“l’archeologia
non
diseppellisce
cose,
diseppellisce
uomini
e le
loro
civiltà”
(M.
Wheeler,
1954).
Siamo
a
Napoli.
Gianni
è
appena
uscito
dal
suo
“ufficio”.
Così
definisce
il
cantiere
a
Piazza
Municipio
dove
opera.
Lo
trovo
assiso
in
panchina
a
Piazza
Carità.
È
quasi
un
giorno
primaverile.
Lui
più
di
me
deve
rendersene
conto.
Se
la
primavera
è la
stagione
degli
amori,
per
Gianni
è il
momento
delle
allergie.
Sfuggiamo
da
un
esterno
movimentato,
entrando
in
un
bar.
Ci
sistemiamo
nella
saletta
del
tea.
È
nervoso.
Controllato
ma
nervoso.
Anche
io
lo
sono.
Il
caffè
che
abbiamo
preso
non
aiuta.
Almeno
me.
Salve
Gianni.
Buonasera
Chiara.
Sicché
hai
cominciato
con
lo
scavare
un
buco
nel
giardino
della
nonna
e da
allora
non
hai
più
smesso.
Insomma
com’è
andata?
È
iniziato
più
o
meno
all’età
di
cinque,
sei
anni
quando
ho
avuto
il
primo
approccio
col
terreno,
letteralmente
giocando
nel
giardino
della
nonna.
Mentre
l’incontro
con
i
resti
archeologici
è
avvenuto
a
Pompei.
Dove
di
solito,
la
Domenica,
all’età
di
sette,
otto
anni,
i
miei
genitori
mi
lasciavano
“scorrazzare”.
A
questo
modo
c’è
stato
questo
primo
contatto
con
l’antico
in
genere
e
soprattutto
con
l’età
romana
che
rappresenta
da
sempre
il
punto
focale
della
mia
formazione
e la
mia
più
grande
passione.
Proprio
in
quel
momento
è
nato
in
me
il
desiderio
di
andare
alla
ricerca
di
qualcosa.
E
quel
qualcosa
era
il
passato!
(Sorride).
Così
nonostante
tu
sia
un
Gemelli,
un
segno
d’aria,
hai
deciso
di
sporcarti
con
la
terra.
Qual
è
stato
il
tuo
percorso
di
studi?
La
mia
formazione
è un
po’
trasversale.
Ho
frequentato
un
istituto
tecnico
commerciale.
La
maggior
parte
degli
archeologi,
normalmente,
ha
una
preparazione
classica.
Io,
invece,
nasco
come
ragioniere.
Quindi
in
me è
forte
questa
tendenza
a
relazionarmi
a
un’idea
di
mondo
globale
in
cui
i
rapporti
commerciali
svolgono
un
ruolo
determinante.
I
commerci
rappresentano
l’elemento
che
più
mi
affascina,
soprattutto
nel
mondo
romano,
cioè
questa
possibilità
di
avere
degli
interscambi
forti,
non
solo
intesi
come
interscambi
di
merci,
ma
come
scambio
di
idee,
di
cultura
in
genere.
Ho
proseguito
gli
studi
iscrivendomi
a
una
laurea
in
archeologia
classica
all’Università
degli
Studi
di
Napoli
L’Orientale
che,
se
vogliamo,
è
stato
il
trampolino
di
lancio
nel
mondo
archeologico.
In
seguito
all’esperienza
triennale
e
magistrale
all’Orientale
ho
conseguito
una
specializzazione
in
archeologia
classica
e
romana
all’Università
La
Sapienza
di
Roma.
Adesso
eccomi
qui,
sono
rientrato
in
“patria”
se
così
possiamo
dire.
Da
due
anni
sono
dottorando
dell’Orientale,
di
nuovo
al
punto
di
inizio
del
mio
percorso
formativo.
Andrea
Carandini
sostiene
che
alla
base
del
lavoro
dell’archeologo
ci
siano
due
elementi
irrazionali:
l’istinto
e la
curiosità.
Sei
curioso,
Gianni?
Estremamente!
Penso
sia
fondamentale
esserlo,
non
solo
in
archeologia,
perché
credo
che
la
curiosità
sia
la
base
delle
scoperte.
È
facile
percorrere
strade
conosciute,
anzi
è
quello
che
normalmente
uno
fa
perché
si
sente
più
sicuro,
però
non
è
sbagliato
ogni
tanto
spostarsi
da
questa
linea
nota
per
andare
a
vedere
cosa
cambia.
Anche
semplicemente
guardando
lo
stesso
elemento
da
una
prospettiva
diversa.
Lo
ha
detto
Indiana
Jones:
“Se
vuoi
diventare
un
bravo
archeologo,
devi
uscire
da
questa
biblioteca!”
Nella
formazione
di
un
archeologo
è
altrettanto
importante
frequentare
i
libri
e i
reperti,
la
biblioteca
e il
cantiere.
Le
università
italiane
sono
spesso
accusate
di
un
approccio
esclusivamente
teorico.
Questo
vale
anche
per
l’archeologia?
L’archeologia
ha
il
pregio
di
essere
una
disciplina
molto,
molto
pratica.
Soprattutto
negli
ultimi
anni
si è
incentivato
un
approccio
di
tipo
manuale.
Per
quanto
quello
teorico
resta
imprescindibile.
Accanto
al
lavoro
sul
campo,
indispensabile
per
una
comprensione
delle
attività
archeologiche,
non
si
può
rinunciare
a
una
conoscenza
teorica
quale
base
fondamentale
e
complessiva.
Gianni
è
uno
studioso
delle
antichità
classiche.
Per
archeologia
classica
si
intende
l’archeologia
della
cultura
greca
e
romana.
Lui
è un
romanista:
al
centro
dei
suoi
interessi
è
l’antica
Roma.
In
ambito
accademico
la
distinzione
tra
grecisti
e
romanisti
non
è
assolutamente
un
fatto
privo
di
importanza.
È lo
stesso
che
tifare
giallorosso
durante
una
partita
Lazio-Roma.
C’è
pure
qualcosa
nel
suo
aspetto,
capelli
neri,
barba
sul
viso
(dice
di
non
raderla
completamente
da
tempo),
chiazza
glabra
sotto
il
mento,
ampie
spalle,
petto
robusto,
struttura
solida.
Ricorda
l’archetipo
del
legionario
romano
nell’immaginario
collettivo.
La
“militari
licentia”
se
c’è
non
l’espone.
A
essa
sovrappone
un’educata
gentilezza.
Sei
un
romanista
con
un
debole
per
Alessandro
Magno.
Cosa
ti
affascina
di
questo
personaggio
storico?
L’uscire
dal
proprio
mondo
conosciuto.
La
necessità
di
cercare
luoghi
nuovi,
persone
nuove,
culture
diverse.
Alessandro
Magno,
per
me,
rappresenta
l’emblema
di
tutto
ciò.
Quindi
è
ovvio
che
lo
consideri
una
figura
principale
all’interno
della
storia
in
generale
e
nello
specifico
quella
antica.
Prima
esperienza
di
scavo:
come
la
immaginavi?
Com’è
stata?
Eri
preparato?
Indubbiamente
la
prima
esperienza
di
scavo
rappresenta
per
molti
archeologi,
me
compreso,
un
venire
a
contatto
con
una
realtà
piuttosto
diversa
da
quella
che
normalmente
uno
immagina.
Ciononostante
questa
non
è
meno
interessante.
Certo
diversa
dalla
visione
generale
che
si
ha
dell’archeologia,
quindi
molto
avventurosa.
Poi,
in
realtà,
l’avventura
c’è
sempre.
Anche
se
lo
scavo
viene
fatto,
diciamo,
in
situazioni
controllate.
L’avventura
è
l’elemento
che
condiziona
e
caratterizza
la
ricerca
archeologica:
proprio
il
cercare
è
l’avventura
nello
specifico.
La
mia
prima
esperienza
è
stata
agli
scavi
di
Cuma,
nell’area
delle
mura
settentrionali.
È
stata
enormemente
formativa.
Innanzitutto
perché
era
un’area
chiave,
scoprendolo
molto
dopo
chiaramente,
quando
la
mia
preparazione
è
cresciuta.
Inoltre
mi
sono
trovato
ad
affrontare
una
situazione
estremamente
pratica
in
cui
le
mie
conoscenze,
all’epoca
ancora
molto
ridotte,
già
entravano
in
gioco
fortemente,
quindi
quell’interrelazione
tra
aspetti
pratici
e
teorici
di
cui
parlavamo
prima
era
già
ben
presente.
C’era
sempre
bisogno
di
un
confronto
con
quello
che
avevi
studiato
per
comprendere
cosa
stavi
scavando.
Lo
scavo
archeologico,
in
passato,
era
orientato
alla
ricerca
di
sculture,
vasi,
elementi
architettonici.
Questi
erano
strappati
ai
loro
contesti
di
ritrovamento
e
trasferiti
nelle
collezioni
antiquarie,
nei
musei
di
antichità
del
mondo.
Oggi
lo
scavo
è
sempre
meno
uno
spazio
da
Far
West.
Si
effettua
per
risolvere
un
problema
e
non
per
recuperare
oggetti.
Il
metodo
con
cui
viene
condotto
è
quello
stratigrafico
derivato
dalla
geologia.
La
terra
viene
smontata
strato
per
strato.
Gli
strati
sono
rimossi
in
senso
inverso
a
quello
di
deposizione:
prima
gli
strati
più
alti,
di
recente
formazione,
poi
via
via
quelli
successivi,
più
antichi
nel
tempo.
Lo
scavo
si
presenta
come
un
luogo
d’indagine
pianificato
perché
strutturato
con
orari
di
cantiere,
compiti
definiti,
fasi
di
attività.
Le
condizioni
logistiche
dipendono
da
caso
e
caso.
Per
la
maggiore
si è
ospitati
in
alloggi
semplici.
In
genere
ci
si
disabitua
a
tutti
i
confort
di
casa.
La
giornata
di
lavoro
inizia
presto.
Termina
nel
pomeriggio
inoltrato.
In
genere
con
due
pause:
a
metà
mattina
e a
pranzo.
Il
cantiere
è
gestito
da
responsabili,
punti
di
riferimento
per
studenti
e
quanti
vi
partecipano.
Scavare
comporta
lunghe
giornate
di
piccone,
pala,
svuotamento
secchi
e
carriole.
Ore
trascorse
in
ginocchio
a
“troulare”
con
la
trowel,
la
cazzuola
inglese.
È
uno
strumento
utile
a
rimuovere
il
terreno
in
maniera
più
graduale
e
meno
incisiva
di
quanto
consenta
il
piccone,
in
modo
da
indagarlo
più
efficacemente.
II
più
delle
volte
i
reperti
non
sono
eccezionali.
Eppure
uno
scavo
si
presenta
sempre
come
una
scoperta.
Non
si
sa
precisamente
in
anticipo
ciò
che
la
terra
può
restituire.
“Un
archeologo
non
sa
mai
se
trova
ciò
che
cerca
o se
cerca
ciò
che
trova”
(H.
Mankell).
L’archeologia
è
spesso
definita
come
la
scienza
della
pala
e
del
piccone.
L’attività
di
scavo,
però,
è
solo
una
parte
del
lavoro
dell’archeologo.
Un’indagine
archeologica
si
compone
di
diverse
fasi:
scavo
stratigrafico,
documentazione,
pulizia
e
catalogazione
dei
reperti,
interpretazione
dei
contesti
e
dei
reperti.
Tu
sei
responsabile
della
gestione
del
magazzino
archeologico
degli
scavi
dell’Orientale
a
Cuma.
In
cosa
consiste
il
tuo
lavoro?
Sostanzialmente
consiste
nel
cercare
di
organizzare
e di
effettuare
una
prima
classificazione
di
tutto
il
materiale
che,
anno
per
anno,
viene
messo
in
luce.
Ciò
vuol
dire
controllare
e
prendersi
cura
di
quelli
che
sono
i
reperti
in
tutte
le
fasi:
dal
momento
in
cui
emergono
dal
terreno,
a
seguire
durante
la
fase
di
pulitura
e di
prima
classificazione
quindi
di
suddivisione
macroscopica
in
periodi
cronologici
e
classi
di
appartenenza
intese
come
classi
funzionali
e
produttive.
È un
momento
fondamentale
perché
allo
stesso
tempo
mi
occupo
anche
della
didattica,
la
formazione
delle
matricole
o
comunque
di
coloro
che
partecipano
allo
scavo.
È un
momento
chiave
perché
lo
scavo
è
recente
e
quindi
si
ha
immediatamente
la
possibilità
di
rapportare
i
reperti
al
luogo
dal
quale
provengono.
Si
iniziano
a
comprendere
quali
sono
le
problematiche
che
poi
verranno
esaminate
nello
specifico
con
analisi
successive.
Non
tutti
i
reperti
sono
musealizzati.
La
maggior
parte
viene
documentata
e
conservata
all’interno
di
magazzini.
Qual
è,
invece,
l’iter
di
conservazione
dei
ritrovamenti
di
una
certa
importanza?
In
seguito
a
quella
che
è la
prima
fase
di
organizzazione
e
classificazione
del
materiale,
si
procede
a
uno
studio
più
specifico,
soprattutto
di
quei
reperti
che,
chiaramente,
meritano
di
essere
analizzati,
quelli
che
noi
definiamo
diagnostici
o
che
comunque
sono
utili
alla
comprensione
di
problematiche
produttive,
commerciali
o
funzionali
e in
ogni
caso
sempre
allo
scopo
di
ricostruire
i
vari
aspetti
di
quella
che
è la
storia.
Dunque
sono
presi
in
considerazione
tutti
i
reperti,
ma
ci
si
concentra
nello
specifico
su
quelli
che
risultano
essere
più
interessanti.
In
tal
senso
occorre
operare
scelte
di
carattere
sintetico.
Si
procede
alla
creazione
di
un
vero
e
proprio
catalogo,
quindi
a
uno
studio
analitico
dei
singoli
individui,
alla
documentazione
grafica
e
fotografica
e a
effettuare,
laddove
c’è
necessità,
restauri
e
integrazioni.
Al
che
si
procede
alla
musealizzazione.
Il
tipo
di
reperti
portato
alla
luce
attraverso
gli
scavi
è
vario
e
dipende
dal
contesto
che
si
sta
indagando:
ceramica,
reperti
osteologici,
monete,
oggetti
in
ferro
o in
bronzo,
vetro...
Gianni
è un ceramologo,
un
esperto
di
ceramica.
Siamo
abituati
a
Indiana
Jones
in
fuga
da
nazisti
e da
sovietici,
alla
scoperta
di
reperti
straordinari.
Le
sfide
di
Gianni
sono
tutte
qui,
esposte
sul
tavolo:
frammenti
ceramici
non
leggendari
da
classificare.
Eppure
quando
è a
lavoro
sembra
di
guardare
John
Henry
Bonham
suonare
la
batteria.
Distingue
i
frammenti
per
classi
con
una
velocità
che
quasi
ti
mette
a
disagio.
La
frase
giusta
è
proprio
quella
di
Jimi
Hendrix
a
Bonham:
“Ragazzo,
le
tue
zampe
sono
più
veloci
di
quelle
di
un
coniglio!”
L’importanza
della
ceramica
in
archeologia
La
ceramica
ha
un
ruolo
fondamentale.
Ci
dà
tantissime
informazioni,
funzionando
come
un
vero
e
proprio
“oggetto
parlante”.
Innanzitutto
è il
reperto
archeologico
più
frequente
durante
uno
scavo.
Oggetti
in
ceramica
sono
stati
prodotti
in
grandi
quantitativi
durante
tutte
le
epoche
e si
sono
conservati
in
quantitativi
altrettanto
cospicui,
sebbene
di
solito
in
frammenti.
Diverse
sono
le
informazioni
che
possiamo
ricavare
dallo
studio
di
questi
manufatti.
La
ceramica
fornisce
dati
su
quella
che
era
la
vita
quotidiana,
informando
sugli
usi
del
vivere.
A
ciò
si
aggiungono
le
informazioni
di
carattere
produttivo
e
commerciale:
è
possibile
riconoscere
le
aree
di
origine
e di
diffusione
di
questi
prodotti,
ricostruire
le
reti
commerciali
quindi
gli
scambi
delle
merci
e i
contatti
culturali,
fondamentali
per
la
comprensione
del
mondo
antico.
Dall’aspetto
economico
è
possibile
passare
all’aspetto
puramente
di
gusto
quindi
alla
circolazione
di
modelli.
Ricavare,
in
questo
modo,
informazioni
utili
a
definire
il
processo
di
acculturazione
delle
popolazioni,
chiarendo
come
vengono
a
interagire
i
popoli
conquistati
con
quelli
che
conquistano.
E
non
ultima,
è
stata
e
rimane
l’aspetto
fondamentale,
la
funzione
datante.
In
assoluto
la
ceramica
rappresenta
il
marker
cronologico
di
base
sul
quale
si
fondano
ancora
molte
stratigrafie.
Oggetti
rinvenuti
all’interno
di
uno
stesso
strato
si
ritengono
interrati
più
o
meno
contemporaneamente.
Di
conseguenza
quelli
databili
sono
indizi
utili
per
la
collocazione
cronologica
di
tutti
gli
altri
presenti
nello
strato.
Tra
le
varie
categorie
di
materiali
la
ceramica
è lo
strumento
più
importante
per
la
datazione
degli
strati
e
dei
siti.
Essa,
infatti,
ha
subito
nel
corso
del
tempo
modifiche
riconoscibili:
cambiano
le
forme,
le
tecniche,
il
tipo
di
decorazione.
Ciò
ha
permesso
di
elaborare
una
griglia
cronologica
delle
differenti
produzioni
ceramiche
succedutesi
nelle
diverse
epoche.
In
tempi
recenti
sono
stati
adottati
in
archeologia
metodi
di
misurazione
desunti
dalle
scienze
naturali:
il
metodo
del
Carbonio
14,
la
termoluminescenza.
Quanto
è
ancora
rilevante
affidarsi
alla
ceramica
come
elemento
datante?
Entrambi
gli
elementi
devono
essere
presi
in
considerazione:
l’archeometria
da
un
lato
e
gli
studi
classici
di
ceramologia
dall’altro
devono
sempre
andare
a
braccetto
affinché
si
possano
migliorare
le
datazioni.
In
quasi
tutte
le
epoche
antiche
è
possibile
distinguere
tra
una
ceramica
comune
e
una
ceramica
fine.
Nella
ceramica
comune
l’aspetto
funzionale
prevale
su
quello
estetico.
Si
tratta
di
una
produzione
destinata
a un
uso
quotidiano.
Al
contrario
la
ceramica
fine
è
una
produzione
più
raffinata.
Queste
categorie
includono
al
loro
interno
classi
differenti.
La
classe
definisce
un
insieme
di
vasi
prodotti
con
caratteristiche
comuni.
Gli
elementi
che
concorrono
a
definire
una
classe
sono
diversi:
proprietà
tecniche
e
produttive,
repertorio
formale,
decorazioni,
contrassegni
e
bolli,
distribuzione
geografica.
Di
quali
classi
ceramiche
ti
occupi?
Principalmente
terra
sigillata
italica,
ceramica
a
pareti
sottili
e
l’iberica
dipinta.
Di
Alberto
Angela,
Gianni
ha
l’agilità
linguistica
e la
capacità
di
comunicazione.
Non
è
stato
sempre
così,
ammette.
Fatto
sta
che
adesso
salta
da
un
argomento
all’altro
come
la
pallina
del
flipper.
Così
sotto
la
spinta
di
forze
discorsive
rimbalziamo
a
Cuma.
Il
geografo
greco
Strabone
la
riteneva
la
più
antica
fondazione
greca
d’Occidente.
Posta
sul
litorale
campano,
di
fronte
all’isola
di
Ischia,
nell’area
vulcanica
dei
Campi
Flegrei.
Dal
1994
un
nuovo
programma
di
ricerca
ha
interessato
l’area
archeologica,
coinvolte
la
Soprintendenza,
le
università
napoletane
e il
Centro
Jean
Bérard.
L’Università
degli
Studi
di
Napoli
L’Orientale
si è
occupata
di
indagare
il
settore
nord-occidentale.
La
missione,
dal
1994
al
2006
diretta
dall’etruscologo
Bruno
D’Agostino,
è
dal
2007
sotto
la
direzione
del
professore
Matteo
D’Acunto.
Alle
indagini
cumane
Gianni
collabora
da
ben
undici
anni.
È
disponibile
a
spiegare
se e
come
cambia
il
quadro
relativo
a
Cuma
a
fronte
delle
nuove
investigazioni.
Nel
2007
si è
intrapreso
lo
scavo
in
estensione
del
quartiere
abitativo
compreso
tra
il
Foro
e le
mura
settentrionali.
Obiettivo:
ricostruire
il
sistema
urbanistico
di
questo
settore
della
città.
La
continuità
abitativa
ha
reso
possibile
ricostruire
le
diverse
fasi
di
occupazione.
Potresti
descriverne
gli
sviluppi:
dalla
fondazione
alle
ultime
fasi
di
frequentazione?
Indubbiamente
non
è
facile,
visto
l’arco
cronologico
ampio.
Si
parte
da
una
fase
protostorica,
anteriore
all’avvento
della
prima
colonizzazione
greca,
con
attestazioni
soprattutto
di
necropoli,
nella
fase
opicia
sostanzialmente.
La
prima
colonizzazione
greca
si
colloca
nella
seconda
metà
dell’VIII
sec.
a.C.
Nell’abitato
sembra
ci
sia
già
una
pianificazione
di
base
impostata
in
contemporanea
alla
fondazione
o
immediatamente
dopo,
quindi
già
verso
la
fine
dell’VIII
e
gli
inizi
del
VII
sec.
a.C.
In
tutta
la
fase
arcaica
gli
assi
stradali
così
come
le
prime
abitazioni
sembrano
già
avere
quella
strutturazione
che
poi
si
conserverà
anche
nei
secoli
successivi,
con
le
dovute
modifiche.
Su
questo
impianto,
infatti,
si
strutturerà
la
fase
sannitica
e la
fase
romana
che
andranno
sostanzialmente
a
ripercorrere
i
tracciati,
ricalcandoli,
già
definiti
nella
fase
più
antica.
Gli
impianti
di
epoca
romana
sono
quelli,
chiaramente,
più
presenti.
Per
adesso
è
stato
messo
in
luce
questo
grande
isolato.
Recentemente
si
suppone
che
il
margine
più
settentrionale
si
vada
a
strutturare
come
fascia
relativa
alle
aree
produttive.
Ovviamente
questi
sono
elementi
inziali.
Solo
nuove
indagini
potranno
confermare
o
meno
tali
ipotesi.
Infine
c’è
una
fase
tarda
di
IV-VI
sec.
d.C.
che
sembra
essere
molto
limitata.
Probabilmente
già
alla
fine
del
VII
sec.
d.C.
l’area
viene
dismessa.
Comincia
ad
assumere
quella
connotazione
agricola
che
mantiene
tutt’oggi.
Nel
2008
presso
le
mura
settentrionali,
a
ridosso
dello
stadio,
è
stato
rinvenuto
un
deposito
di
materiali
ceramici
identificato
come
scarico
di
fornace.
Marco
Giglio
ha
dichiarato:
“Il
sogno
di
ogni
archeologo
delle
ceramiche
è
trovare
una
discarica
di
questi
materiali”.
La
scoperta
consente,
infatti,
di
riaprire
la
questione
delle
produzioni
locali.
Stiamo
parlando
di
scarti
di
lavorazione.
Puoi
spiegarne
l’importanza
dal
punto
di
vista
archeologico
e
quali
sono
i
dati
emersi
dallo
scavo
dello
scarico?
Questo
è
uno
di
quei
rari
casi
in
cui
un
oggetto
brutto,
un
oggetto
che
in
sé
non
ha
mantenuto
quelli
che
sono
gli
standard
per
la
vendita
rappresenta
un
elemento
molto
più
importante
rispetto
a un
oggetto
ben
fatto.
La
presenza
a
Cuma
di
scarti
(malcotti,
rotti
e
quant’altro),
oggetti
che
sostanzialmente
non
erano
vendibili
neanche
a un
prezzo
più
basso,
perché
ormai
non
più
idonei
alla
funzione
per
la
quale
erano
stati
creati,
per
noi
rappresenta
un
elemento
fondamentale.
Il
grande
quantitativo
di
questi
scarti,
parliamo
di
diversi
chili
e
numerosissimi
individui,
ci
dà,
infatti,
la
possibilità
di
accertare
e di
collocare
in
ambito
locale
una
serie
di
produzioni
ceramiche.
Allo
stato
attuale,
come
è
già
stato
presentato
in
alcuni
convegni,
i
materiali
rinvenuti
permettono
di
documentare
una
produzione
locale
sostanzialmente
limitata
a
tre
classi:
la
ceramica
a
vernice
rossa
interna,
confermando
il
dato
delle
fonti
letterarie
che
ne
parlano
chiaramente;
le
ceramiche
comuni,
nello
specifico
soprattutto
tegami
e
piatti-coperchi;
le
pareti
sottili
che
rappresentano
la
novità,
fino
a
questo
momento,
infatti,
non
si
parlava
di
una
produzione
di
pareti
sottili
a
Cuma,
mentre
adesso
la
presenza
di
questi
scarti
ne
attesta
la
produzione.
Cuma,
quindi,
si
inserisce
tra
i
centri
produttori
di
ceramica
a
pareti
sottili
insieme
ad
altri
individuati
in
Campania
come
Benevento
con
il
sito
di
contrada
Cellarulo,
Pompei
e
Allifae.
Cosa
puoi
dirci
della
produzione
cumana?
Indubbiamente
è un
qualcosa
che
sta
emergendo
soltanto
di
recente.
La
pubblicazione
relativa
a
questa
produzione
è
del
2016.
Possiamo
dire
che
dovevano
esserci
dei
modelli
che
si
possono
definire
“campani”.
Ora
sull’entità
dei
quali
vanno
fatti
necessariamente
degli
studi.
Però
questo
ci
dà
la
misura
di
una
coerenza
regionale.
La
commercializzazione
dei
prodotti
realizzati
in
Campania
non
era
limitata
solo
a
quest’area.
Questi,
infatti,
avevano
larga
diffusione,
erano
esportati
soprattutto
verso
il
limes
germanico
e in
Spagna.
Così
come
per
i
prodotti
anforici
e
per
le
produzioni
di
ceramica
fine,
che
ebbero
una
discreta
diffusione
in
questi
ambiti,
accade
lo
stesso
anche
per
la
ceramica
comune
e
per
le
pareti
sottili.
Ovviamente
solo
procedendo
a
un’analisi
puntuale
di
quelle
che
sono
le
attestazioni
potremo
avere
un’idea
precisa
sia
dal
punto
di
vista
quantitativo
sia
qualitativo
di
questi
marker
commerciali.
È
accertata
anche
in
Campania
la
produzione
di
terra
sigillata.
Sono
state
individuate
officine
nella
stessa
Puteoli
(Pozzuoli).
In
particolare
l’officina
di
Naevius
Hilarus:
di
cui
una
è
sicuramente
da
localizzare
a
Puteoli,
un’altra
potrebbe
essere
localizzata
a
Cuma
sulla
base
del
ritrovamento
di
tre
frammenti
di
matrici.
Rimane
in
discussione
il
rapporto
cronologico
tra
le
due:
se
cioè
l’officina
cumana
abbia
preceduto
oppure
sia
stata
una
succursale
dell’impianto
puteolano.
Ti
chiedo:
fino
a
che
punto
è
possibile
parlare
di
sigillata
cumana?
Qual
era
il
rapporto
tra
Puteoli
e
Cuma?
Chiaramente
è
estremamente
difficile
riuscire
a
distinguere
i
due
gruppi
dal
punto
di
vista
qualitativo.
Le
produzioni
cumane
e le
produzioni
puteolane
quasi
certamente
facevano
riferimento
a
uno
stesso
bacino
di
approvvigionamento
per
quanto
riguarda
le
materie
prime.
Allo
stato
attuale
non
emergono,
a
parte
le
tre
matrici,
elementi
a
conferma
di
una
produzione
cumana.
Pertanto
rimane
in
dubbio
la
presenza
di
Nevio
in
ambito
cumano.
Tuttavia
non
è
improbabile,
in
virtù
di
quella
tradizione
produttiva
presente
a
Cuma,
immaginare
una
Cuma
quale
centro
produttivo
non
secondario
di
sigillata,
e
perché
no,
come
immagina
il
professore
Gianluca
Soricelli,
pensare
alla
creazione
di
un’officina
prima
a
Cuma
e
poi
successivamente
a
Puteoli.
Rimane
un’ipotesi
plausibile,
per
quanto
al
momento
non
verificabile.
Ciononostante
quello
che
si
evidenzia
è
che
nel
momento
in
cui,
in
epoca
romana,
Puteoli
diviene
un
centro
fondamentale
dal
punto
di
vista
commerciale,
Cuma
deve
aver
avuto
un
ruolo
determinante.
Magari
non
più
come
città
con
la
quale
direttamente
si
avevano
questi
rapporti
commerciali,
ma
quasi
come
una
sorta
di
fucina
di
Puteoli,
quindi
come
un
retrobottega
più
tranquillo
di
una
Puteoli
invasa
da
masse
enormi
di
merci,
persone,
scambi.
Affrontiamo
la
questione
delle
“cumanae
testae”.
Le
fonti
letterarie
(Varrone,
Marziale,
Tibullo,
Stazio,
Apicio)
fanno
menzione
di
vasellame
cumano
cioè
ivi
prodotto.
Ancora
incerta
è
l’identificazione
di
tali
produzioni.
Innanzitutto
capire
se
si
tratta
di
ceramica
comune
oppure
fine.
Il
problema
principale
è
che
nelle
fonti
non
è
chiara
la
destinazione
d’uso
della
ceramica
cumana.
Marziale
(XIV,114)
colloca
a
Cuma
una
produzione
di
colore
rosso
senza
specificarne
l’impiego.
Varrone
(Men.114),
invece,
cita
i
“cumanos
calices”
di
cui
si
presume
la
funzione
potoria.
Apicio
menziona
la
cumana
sempre
come
una
ceramica
da
porre
a
contatto
con
il
fuoco,
una
ceramica
comune
da
cucina.
Le
interpretazioni
moderne
divergono.
Per
il
Comfort
(1973)
le
“cumanae
testae”
sono
da
identificare
con
la
terra
sigillata
(ceramica
fine).
Per
cui
le
officine
di
terra
sigillata
puteolana
andrebbero
localizzate
a
Cuma
piuttosto
che
a
Puteoli.
Al
contrario
il
Pucci
(1975)
identifica
le
“cumanae
testae”
con
la
ceramica
a
vernice
rossa
interna
(ceramica
comune).
Soricelli
propone
una
lettura
diversa:
Apicio
e
forse
Stazio
provano
la
presenza
di
una
produzione
cumana
di
ceramica
comune
da
cucina;
Varrone
e
Tibullo
attestano
a
Cuma
una
produzione
più
fine
da
mensa,
nel
caso
di
Tibullo
può
ipotizzarsi
una
produzione
di
sigillata.
Con
quali
produzioni
ritieni
siano
da
identificare
le
“cumanae
testae”
menzionate
dalle
fonti
letterarie?
Il
termine
“cumanae
testae”
ricorre
in
una
serie
di
fonti
in
cui
il
rapporto
sembra
essere
sempre
con
una
ceramica
di
uso
comune,
di
uso
quotidiano
e
soprattutto
a
contatto
con
il
fuoco.
Quindi
ormai
diciamo
che
quando
si
parla
di
“cumanae
testae”
è da
intendersi
la
produzione
di
ceramica
a
vernice
rossa
interna,
di
cui
Cuma
doveva
rappresentare
il
centro
produttivo
principale.
Difficile,
poi,
comprendere
se
gli
altri
termini
riferibili
a
vasi
e
associati
all’aggettivo
cumano
abbiano
la
stessa
valenza.
Per
esempio
il
cumano
calice
citato
da
Varrone
potrebbe
eventualmente
rappresentare
una
produzione
alta,
una
ceramica
fine.
Anche
qui
si
discute
molto:
se
il
calice
sia
effettivamente
un
prodotto
potorio
o
possa,
invece,
indicare
anche
un
prodotto
da
fuoco.
Però
sembra
plausibile
l’ipotesi
che
il
vasellame
menzionato
da
Varrone
sia
da
riferire
ad
altra
tipologia
di
prodotti
cumani
e
perché
no,
a
questo
punto,
vista
la
nuova
scoperta,
pensare
anche
alle
pareti
sottili
che
erano
vasi
potori,
non
di
grandissima
qualità,
data
la
frequenza
e
l’estrema
rapidità
di
realizzazione.
Tante
campagne
di
scavo
cumane.
Tanti
ricordi.
Qualcuno
in
particolare?
Indubbiamente
è
difficile
focalizzarsi
su
un
singolo
ricordo.
Quello
che
posso
estrapolare
da
questi
undici
anni
di
esperienza
cumana
è
soprattutto
l’interazione
che
si
viene
a
creare
e
tra
i
collaboratori
e
tra
chi
si
sta
approcciando
per
la
prima
volta
allo
scavo.
Il
ricordo,
diciamo
così
generale,
non
specifico,
può
essere
l’emozione
leggibile
sui
volti
di
chi
per
la
prima
volta
mette
piede
su
uno
scavo,
quell’istante
in
cui
ci
si
rende
effettivamente
conto
di
cosa
rappresenta
l’archeologia,
nel
bene
e
nel
male,
si
cancella
la
propria
idea
di
archeologia
e la
si
vive
realmente.
Spesso
e
volentieri
hai
la
conferma
che,
anche
se
l’idea
che
ti
eri
fatto
è
diversa,
l’archeologia
reale
è
comunque
ugualmente
bella
se
non
di
più.
O la
ami
o la
odi.
Sto
parlando
di
Napoli.
Da
Cuma,
infatti,
ci
rovesciamo
a
Napoli.
Dal
2015
collabori
agli
scavi
della
Metro
in
Piazza
Municipio.
Durante
i
lavori
nella
Stazione
Municipio
è
stato
ritrovato l’antico
porto
di
Napoli.
Lo
scavo
è
stato
definito
un
vero
e
proprio
“pozzo
di
San
Patrizio”
per quantità
e
qualità
del
materiale
rinvenuto.
Sono
state
portate
alla
luce
cinque
navi
d’epoca
romana
(in
sostanza
battelli
lunghi
circa
15
metri).
Presumibilmente
queste
partivano
dall’antico
porto
di
Napoli
per
prelevare
i
carichi
dalle
grandi
navi
che,
a
causa
delle
loro
dimensioni,
non
potevano
attraccare
ai
moli
cittadini.
Cosa
è
accaduto
all’antico
porto?
Ricostruire
la
vita
del
porto
di
Napoli
non
è
cosa
facile.
Stiamo
parlando
di
una
fase
lunghissima
e
soprattutto
di
cambiamenti
economici,
commerciali,
geologici
che
l’area
ha
subito
nel
tempo,
chiaramente
non
illustrabili
in
breve
se
non
a
discapito
di
una
loro
generalizzazione.
Indubbiamente
il
ruolo
che
ebbe
il
porto
di
Napoli
deve
essere
rivalutato
rispetto
allo
scenario
prospettato
dalle
fonti
letterarie.
Dove,
diciamo,
l’antico
porto
sembra
essere
praticamente
assente.
È
possibile
usare
il
porto
di
Napoli
come
termine
di
confronto.
Se
quello
di
Napoli,
di
minor
importanza,
ha
restituito
tali
quantità
di
materiali
e in
generale
di
strutture,
allora
dobbiamo
immaginare
che
un
porto
più
grande
come
quello
di
Pozzuoli,
onnipresente
nelle
fonti,
doveva
essere
estremamente
complesso
e
come
struttura
e
come
possibilità
di
scambi.
Se
così
è
allora
stiamo
parlando
di
un
porto
di
Pozzuoli
di
grandissimo
livello.
Cosa
distingue
i
ritrovamenti
di
un
insediamento
come
quello
di
Cuma
rispetto
a
quelli
emersi
durante
gli
scavi
dell’antico
porto?
Tipo
di
reperti,
indice
di
frammentarietà,
stato
di
conservazione?
Sono
molto
diversi.
L’area
di
Cuma
è
uno
scavo
in
emerso,
è
stata
sottoposta
a
continui
rifacimenti.
Perché
appunto
abitata,
il
terreno
viene
continuamente
mosso,
turbato.
Ciò
ha
comportato
una
frammentazione
sempre
maggiore
delle
strutture
e
dei
materiali.
L’estrema
frammentarietà
dei
reperti
che
emergono
nella
realtà
cumana
così
come
nelle
altre
realtà
terrestri
è
sostanzialmente
dovuta
a
questi
continui
movimenti
di
terra
che
si
effettuano
sempre
sulla
stessa
area,
a
distanza
anche
di
secoli.
Se
si
pensa
che
in
un
metro
si
può
avere
anche
un
millennio,
è
possibile
immaginare
di
che
tipologia
di
contesto
stiamo
parlando.
Tutt’altra
storia
è
quella
del
porto
di
Napoli,
così
come
di
tante
altre
realtà
di
scavo
marittimo.
In
questo
caso
ovviamente
non
si
va a
intervenire,
se
non
raramente,
su
fondali
marini
che
quindi
sono
lasciati
così,
non
disturbati,
come
i
reperti
che
per
varie
ragioni
ci
vanno
a
finire.
Le
anfore
cadute
in
acqua
durante
il
trasbordo,
ad
esempio,
si
sono
conservate
quasi
integre.
Ciò
comporta
comunque
una
stratificazione,
ma
una
conservazione
sostanzialmente
quasi
totale
di
quelli
che
sono
i
reperti.
Quindi
la
possibilità
di
leggere
e
ottenere
molte
più
informazioni
attraverso
l’analisi
degli
stessi.
Da
quasi
un
decennio
Gianni
collabora
con
il
Gruppo
Archeologico
Napoletano,
una
ONLUS
nata
nel
1971
attiva
nell’ambito
della
conoscenza,
della
tutela
e
della
valorizzazione
del
patrimonio
culturale.
Nel
1999
al
G.A.N.
è
stato
affidato
lo
scavo
dei
due
mausolei
funerari
di
Torre
San
Severino
nei
pressi
di
Licola,
nel
comune
di
Giugliano
(NA).
Le
attività
di
scavo
si
sono
svolte,
in
più
riprese,
fino
al
2004.
Condotte
dai
soci
del
G.A.N
sotto
la
supervisione
di
archeologi.
Gianni
si
sta
occupando
del
laboratorio
di
catalogazione
dei
reperti
rinvenuti
durante
lo
scavo.
Il
laboratorio
è
diventata
un’opportunità
per
avvicinare
i
non
addetti
ai
lavori,
un’occasione
pratica
per
gli
studenti
di
archeologia,
un
punto
aggregante.
Obiettivo
dichiarato
è il
catalogo,
la
didattica
e
non
ultimo
la
socializzazione.
Il
Gruppo
Archeologico
Napoletano:
opportunità
e
limiti
del
volontariato
in
archeologia?
L’archeologia
ha
un
forte
pregio:
affascina
molto.
Poi
tutt’altra
cosa
è
essere
un
archeologo,
tutt’altra
cosa
è
viverla
in
maniera
continuativa
e
quotidiana
con
quelli
che
sono
i
pregi
e i
difetti.
Il
G.A.N.
cerca
appunto
di
aprire
il
mondo
dell’archeologia
anche
a
chi
non
ne è
parte,
vuole
essere
coinvolto
e
contribuire.
L’esperienza
al
G.A.N.,
le
diverse
esperienze,
dall’apertura
di
un
sito
normalmente
chiuso
alla
presentazione
di
un
sito
durante
una
guida
o
l’attività
di
laboratorio
che
portiamo
avanti
da
quattro
anni,
rappresentano
tutte
facce
del
desiderio
sostanzialmente
di
dare
la
possibilità
di
avvicinarsi
o
quanto
meno
di
affacciarsi
a
questo
mondo.
Il
problema
più
grosso
dell’archeologia,
ma
di
tanti
ambiti
scientifici,
è la
difficoltà
di
comunicare
con
chi
non
ne è
parte.
Il
G.A.N.
è un
ottimo
tassello
per
raccordare
i
due
mondi:
da
un
lato
quello
dell’archeologia
tout
court e
dall’altro
quello
del
volontariato
archeologico.
I
limiti
restano
nella
mancata
formazione
di
chi
poi
oggettivamente
è
impegnato
nel
volontariato.
Si
dovrebbe
essere
molto
più
attenti
alla
formazione
del
volontario
al
fine
di
un
corretto
operare.
Dicono
di
te
che
sei
un
insegnante
pazzesco.
Insegnare:
cosa
significa
per
te?
(Al
pazzesco
scoppia
in
una
risata
assurda.
Coinvolge
anche
me.
Ci
vuole
un
po’
per
riguadagnare
la
serietà).
Ti
ringrazio
per
il
complimento.
Quello
che
più
mi
preme
nel
fornire
una
spiegazione,
quando
mi
trovo
a
dover
presentare
uno
scavo
o un
reperto
e
quant’altro,
è
cercare
di
considerare
due
aspetti:
da
un
lato
l’aspetto
scientifico,
teorico
e
anche
accademico,
dall’altro
cercare
di
essere
quanto
più
semplice
e
chiaro
possibile.
Credo
sia
inutile
usare
parole
complesse
se
non
spiegate.
Usare
un
linguaggio
tecnico
è
necessario
per
consentire
a
chi
intende
approcciarsi
a un
determinato
mondo
di
acquisirne
il
linguaggio
specifico,
però,
allo
stesso
tempo
spiegando
i
concetti
in
modo
semplice.
Questo
vuol
dire
insegnare
secondo
me:
dare
la
possibilità
a
tutti
di
comprendere!
Insegnare
comporta
tutta
una
serie
di
responsabilità
che
una
persona
dovrebbe
avere
e
dovrebbe
sentire
nel
momento
in
cui
fornisce
delle
informazioni.
Soprattutto
quando
si
stanno
formando
persone
che
dovranno
lavorare
su
un
patrimonio
culturale
stimato
e
invidiato
da
tutto
il
mondo!
Non
hai
a
che
fare
solo
con
la
ceramica.
Sei
anche
un
collezionista
di
monete.
Quando
hai
cominciato?
Il
collezionismo
nella
storia
degli
studi
archeologici
ha
rappresentato
indubbiamente
un
punto
di
partenza
di
quello
che
poi
è
diventata
l’archeologia.
Nell’animo
del
collezionista
c’è
comunque
il
desiderio
di
conoscere,
di
comprendere,
di
diventare
un
esperto
di
quell’ambito.
Collezionare
monete
è
nato
così,
quasi
per
caso,
sempre
intorno
ai
cinque,
sei
anni.
Lì
c’era
un
altro
aspetto
a
cui
sono
da
sempre
legato:
la
geografia!
Quindi
sostanzialmente
collezionare
monete
che
provenissero
da
tutto
il
mondo.
Accanto
a
questo,
poi,
anche
gli
aspetti
storici
intrinsechi
nella
moneta.
Il
fatto
di
aggiungere
una
pluralità
di
elementi
a
quello
che
è un
semplicissimo
oggetto
dal
valore
elevatissimo
sia
in
termini
puramente
economici,
sia
soprattutto
di
informazioni
ricavabili.
È
una
situazione
complessa
quella
che
vive
il
patrimonio
culturale
in
Italia.
C’è
troppo
ed è
conservato
male.
Sei
stato
in
Germania.
Dei
Tedeschi
ti
ha
colpito
un
atteggiamento
differente
nei
confronti
del
patrimonio.
Quale?
Indubbiamente
ciò
che
condiziona
l’Italia
è il
quantitativo.
È
difficile
esporre
tutto
e
bene.
In
altre
realtà,
invece,
dove
il
patrimonio
magari
è
più
ridotto,
si
riescono
a
trovare
soluzioni
migliori.
La
differenza
l’ho
riscontrata
in
tutto
il
mondo
anglosassone.
Questo
approccio
estremamente
pratico.
Purtroppo
l’esposizione
dei
reperti
o
comunque
dei
contesti
di
scavo
in
Italia
è
fortemente
condizionata
dal
nostro
bagaglio
culturale
che
spesso
è
stato
troppo
attento
agli
aspetti
propriamente
storico-artistici
e
meno
alla
funzione
che
questi
oggetti
rappresentavano
e
svolgevano
in
passato.
Questo
è un
elemento
secondo
me
importantissimo
in
ambito
archeologico:
il
ricondurre
l’oggetto
al
suo
contesto
di
rinvenimento.
Perché
senza
la
comprensione
di
tutto
quello
che
è
intorno
all’oggetto
non
puoi
comprendere
l’oggetto.
Perveniamo
all’ultima
dea,
la
Spes.
Un
tempo
non
si
faceva
che
parlare
di
speranza
di
vita.
L’elastico
dell’esistenza
umana è
ormai
stato
teso.
Le
speranze
attuali
sono
altre.
La
speranza
di
lavoro
è
ciò
che
calcoliamo
instancabilmente.
Ho
una
domanda
orrenda
da
farti.
Il
mestiere
dell’archeologo
è
una
professione
impegnativa.
Malgrado
l’elevato
livello
di
formazione,
gli
archeologi
italiani
hanno
difficoltà
a
trovare
un
impiego
stabile
e
adeguatamente
remunerato.
Per
molti
l’archeologia
non
costituisce
la
fonte
principale
di
reddito.
Tu
riesci
a
fare
ricerca
grazie
al
dottorato
con
borsa
di
studio.
Una
volta
terminato
il
dottorato,
cosa
accadrà?
Quali
sono
i
tuoi
sogni
a
trent’anni?
Quali,
invece,
le
probabilità?
L’archeologia
vive
una
realtà
molto
complessa.
Laddove
c’è
una
forte
necessità
di
archeologi
che
ormai
compaiono
come
figure
in
molti
cantieri
e in
tutte
le
aree
dove
c’è
esigenza.
A
questo
non
corrisponde
una
continuità
lavorativa:
questo
è il
grosso
problema
di
chi
è
legato
dal
punto
di
vista
personale,
affettivo
e
lavorativo
a
questo
mondo.
Da
parte
mia
la
speranza
ovviamente
è di
rimanervi
in
un
modo
o
nell’altro,
proseguendo
quella
che
è la
carriera
accademica,
anche
lì
affrontiamo
un
discorso
fortemente
complesso
visto
le
riduzioni,
e
dall’altro
collaborando
con
le
Sovrintendenze.
Ciò
che
mi
preme
personalmente
è
poter
comunque
avere
una
relazione
con
questo
mondo.
Anche
se
dovessi
allontanarmi
per
necessità
lavorative,
rimarrei
comunque
legato,
cercherei
un
contatto
con
l’archeologia,
se
non
come
archeologo,
magari
lavorando
nel
volontariato
archeologico.
Così,
almeno,
in
qualche
modo,
continuare
con
questo
sogno.
Gli
è
andata
proprio
di
traverso
quella
parola.
Sogno!
In
Italia
un
laureato
in
Archeologia
e
Storia
dell’Arte
non
può
insegnare
storia
dell’arte
nelle
scuole.
C’è
un
problema
di
fondo.
Quale?
Ritieni
sia
necessario
ridefinire
il
profilo
professionale
dell’archeologo?
Trovo
sia
ingiusto
non
dare
la
possibilità
a
persone
che
hanno
speso
anni
della
propria
vita,
enorme
passione,
perché
scegliere
un
ambito
del
genere
vuol
dire
mettere
tutta
la
passione
che
si
ha,
e
non
dare
la
possibilità
a
queste
di
poter
condividere
ciò
che
hanno
imparato,
formare
chi
magari
vuole
intraprendere
il
loro
stesso
percorso.
Penso
che
sia
una
grossa
perdita.
Per
un
Paese
che
potrebbe
fondare
buona
parte
di
quella
che
è la
sua
economia
sul
patrimonio
culturale,
se
ne
hanno
tutte
le
possibilità,
credo
che
questo
sia
un
forte
limite.
Il
precariato
degli
archeologi
da
un
lato
riflette
la
grave
crisi
del
Paese,
dall’altro
evidenzia
anche
un
pregiudizio.
L’archeologia
è
considerata
ostacolo
allo
sviluppo
della
modernità.
È
davvero
una
scienza
inutile
e
inattuale?
C’è
il
pericolo
che
l’archeologia
diventi
autoreferenziale,
trascurando
o
perdendo
ogni
rapporto
con
la
realtà?
Il
problema,
da
un
lato,
è
proprio
quello
di
sveltire
alcune
pratiche
perché
chiaramente
l’archeologo
è
visto
come
una
figura
di
intralcio
ai
lavori.
Dall’altro,
come
dicevo
in
precedenza,
solo
cercando
di
spiegare,
di
far
comprendere
a
quante
più
persone
possibili
ciò
che
si
sta
facendo
e
l’importanza
di
ciò
che
si
sta
facendo,
si
può
avere
la
possibilità
di
non
essere
di
intralcio
e,
anzi,
di
essere
un
punto
a
favore
di
un
Paese
che
vuole
crescere.
Come
ti
ha
cambiato
l’archeologia?
Come
ha
influenzato
il
tuo
modo
di
vedere,
le
tue
abitudini?
Quali
i
pregiudizi
che
ti
ha
consentito
di
superare?
Approcciarsi
al
mondo
dell’archeologia,
in
realtà,
non
è né
più
né
meno
che
occuparsi
della
società.
Essere
un
sociologo
dell’antico:
di
culture
passate,
di
gruppi
culturali
vissuti
decine,
centinaia,
migliaia
di
anni
fa.
L’archeologia
ti
dà
la
possibilità
di
aprirti,
di
“metterti
nei
panni”
degli
altri.
La
cosa
che
frequentemente
un
archeologo
fa è
cercare
di
interpretare.
Puoi
interpretare
qualcosa
soltanto
se
cerchi
di
leggerla
integralmente,
osservandola
da
tutti
i
punti
di
vista.
Ciò
ti
offre
la
possibilità
di
confrontare
tipi
di
realtà
diverse
e
possibili.
Gianni
ha
la
passione
per
i
luoghi
e i
paesaggi.
Il
suo
pittore
preferito
è
Canaletto.
Di
cui
apprezza
l’estrema
precisione,
realismo
e
tecnica
esecutiva.
Gli
piace
molto
la
pittura
fiamminga.
Soprattutto
Jan van
Eyck.
Dopo
averlo
visto
alla
National
Gallery
di
Londra
va
alla
ricerca
di
sue
opere.
Ama
viaggiare.
Un
po’
è
colpa
di
mamma
e
papà.
Viaggi
e
vacanze
sono
cominciati
da
bambino
in
famiglia.
Nessun
posto
al
mondo,
dice,
non
è
meritevole
di
una
visita.
Si
deve
fare
il
massimo
per
vedere
il
più
possibile.
C’è
uno
slogan
a
cui
sei
legato:
Sii
turista
nella
tua
città
e
cittadino
nelle
altre.
Cosa
vuol
dire
per
te?
Alle
volte
la
situazione
più
bella
è
vivere
la
propria
città
come
se
non
la
si
conoscesse.
Napoli
ti
dà
questa
possibilità
di
conoscere
nuove
cose
anche
dopo
trent’anni.
Mentre
dall’altro
c’è
il
poter
girare
in
una
città,
di
cui
sai
ben
poco,
però,
iniziando
a
viverla
in
maniera
più
quotidiana.
Anche
un’enorme
città,
come
può
essere
una
Parigi
o
una
Londra,
poi,
dopo
qualche
tempo,
si
riduce
a
delle
aree
più
piccole,
dei
quartieri.
Anche
riuscire
a
vivere
quel
piccolo
spazio,
come
parte
della
propria
quotidianità,
è
l’altra
faccia
della
medaglia
che
trovo
estremamente
interessante.
Quindi
da
un
lato
scoprire
la
propria
città
come
se
non
la
si
conoscesse
minimamente,
dall’altro
sentirsi
parte
di
una
città
che
ti
ospita,
con
la
quale
magari
hai
pochissime
relazioni,
ma
in
cui
ti
senti
a
proprio
agio
e
inizi
a
creare
delle
relazioni
che
poi
sono
quelle
che
normalmente
hai
a
casa
tua.
Ti
faccio
la
stessa
domanda
che
la
Parodi
ha
posto
ad
Alberto
Angela.
Cleopatra,
Lucrezia
Borgia
e
l’australopiteco
Lucy:
chi
avresti
corteggiato?
Forse
Lucy.
(Al
che
ride).
Ho
il
sospetto
che
tu
mi
abbia
involontariamente
mentito.
Le
avresti
corteggiate
tutte!
(Ride.
Ma
non
risponde).
Quegli
occhi:
buoni
cattivi,
astuti
prudenti,
introversi
audaci,
timidi
incoraggianti,
tristi
allegri.
Pieni
delle
cose
che
non
dice,
delle
confessioni
che
non
concede.
Ero
pronta
a
intervistare
un
archeologo.
Tuttavia
l’archeologia
è un
mestiere,
un’attitudine,
un’inclinazione.
Ogni
archeologo
è un
uomo.
Ogni
uomo
è
una
memoria
pluristratificata.
Racconta
una
congerie
di
accidenti
reali
e
non.
Esprime
a un
tempo
autenticità
e
finzione.
Va
smontato
strato
per
strato
fino
a
ciò
che
non
è
più
personaggio,
ma
uomo.
Ecco
il
mio
rammarico!
Avrei
dovuto
portare
una
trowel
per
riuscire
a
scavare
più
a
fondo!
Avresti
dovuto
procurarti
un
Bobcat
allora!
(Lui
tira
in
ballo
l’escavatore
per
scherzare
sul
fatto
che
quest’inverno
ha
messo
su
qualche
chilo.
Così
è
venuta
fuori
l’autoironia).
Se
vuoi
sapere
chi
è
Giovanni
Borriello
hai
bisogno
di
molto
più
tempo!
(Poi
ride.
Di
nuovo.
Per
evitare
la
serietà.
Lo
accompagno
nella
risata.
Anche
se
ho
come
la
sensazione
che
ci
sia
poco
da
scherzare).
“Napule
è na’
camminata”.
Ci
conduce,
il
più
delle
volte,
in
luoghi
imprevisti,
verso
persone
inattese.
Dove
ogni
uomo
è un
percorso
da
affrontare.
Gianni
è
indubbiamente
un
cammino
interessante.
Come
andare
da
via
Toledo
a
via
Chiaia
fino
all’antico
porto
a
Piazza
Municipio.
Intanto
come
uno
strato
sottile
si è
depositato
su
di
noi.
Un’altra
giornata
è
trascorsa.
Qui
è
pieno
di
gente
che
attende
di
sparire
dalla
vita.
Allora
mi
viene
in
mente.
Gianni
e se
fossi
un
archeologo
per
solitudine?
Perché
hai
trascorso
l’adolescenza
in
maniera
riservata
e
introversa
e
hai
deciso
che
non
ti
piaceva.
Ami
i
paesaggi
perché
significa
uscire
di
casa,
trovare
qualcuno,
non
essere
escluso.
Subisci
il
fascino
degli
interscambi
perché
per
instaurare
delle
relazioni
(commerciali,
culturali)
bisogna
essere
per
lo
meno
in
coppia,
mai
uno.
L’archeologia
potrebbe
essere
il
tuo
tentativo
di
rispondere
alla
solitudine.
Disseppellire
“uomini
e le
loro
civiltà”
per
non
rassegnarti
alla
riduzione
dell’umanità,
alla
paura
della
desolazione,
al
dispiacere
di
sentirti
solo.
Un’ipotesi.
Nient’altro.
Gli
archeologi
tentano
di
ricostruire
l’umanità,
ricomponendo
le
memorie
del
mondo
materiale.
Eppure
ci
sono
profondità
a
cui
non
si
potrà
arrivare.
Non
basteranno
le
trowel,
i
Bobcat,
le
antologie
di
Spoon
River,
i
Freud
del
mondo
a
ricostruire
le
memorie
interiori.
Ogni
uomo
è
suolo
e
sottosuolo.
Nessuno
capisce
esattamente
qualcun
altro.
Ciononostante
è
importante
coltivare
il
ricordo
dell’umanità
come
forma
di
sopravvivenza
per
non
essere
digeriti
dal
tempo,
come
testimonianza,
come
eredità
per
andare
avanti
ricordando
che
certe
strade
sono
preferibilmente
perseguibili.
Da
dove
veniamo
e
dove
stiamo
andando:
a
ciò
tenta
di
rispondere
l’archeologia.
È un
procedere
all’indietro
per
capire
dove
sia
possibile
arrivare.
Perché,
anche
se
fosse
stata
la
circostanza
casuale
il
nostro
Padre
Eterno,
saremo
nati
per
caso,
ma
non
dal
nulla.
Se
non
veniamo
dal
nulla,
probabilmente
non
finiremo
nel
nulla.