SUGLI INTELLETTUALI
AI
TEMPI DELL’ILLUMINISmo
Il ruolo del “vate”
di Francesca Trapé
L’analisi dei caratteri principali
della figura dell’intellettuale
illuminista muove dall’urgenza di
riuscire a ridefinire i compiti e
l’essenza stessa di un ruolo che
sembra essere scomparso dalla
società attuale. Questa necessità
sorge con la consapevolezza che lo
studio e il raggiungimento di
qualsiasi forma di conoscenza siano
funzionali non solo al miglioramento
dell’esistenza dal punto di vista
materiale, ma che tali attività
siano espressioni ontologiche di ciò
che voglia dire essere uomo.
La storia, le concezioni del
passato, sembrano sempre inadeguate
al confronto con le sfide del
presente, e saper accettare i
principi dell’Illuminismo sembra
quasi voler rifiutare ciò che è
venuto dopo. In realtà, per ogni
fenomeno, bisogna saper cogliere con
spirito critico gli aspetti utili al
miglioramento delle condizioni
future. Solo così ciascuna epoca
diventerà risorsa sempre attuale, e
l’uomo potrà davvero imparare dai
propri sbagli.
Gli illuministi, con i loro limiti e
a volte peccando di superbia,
colsero il significato ultimo di
cosa volesse dire liberazione dalle
catene dell’ignoranza, e il loro
tempo rappresentò una delle tappe
fondamentali nel processo di
“umanizzazione” che è ancora in
atto. Pur non elevando l’Illuminismo
a nuovo credo religioso, occorre
saper adottare la prospettiva dei
lumi di fronte alle sfide della
contemporaneità, prima fra tutte la
ridefinizione del ruolo dello
studioso.
L’originalità e la peculiarità
dell’Illuminismo non sono dovute
primariamente all’elaborazione di
nuovi contenuti filosofici o
culturali,ma come afferma Robert
Darnton, ciò che contraddistingue il
movimento settecentesco è l’azione
sinergica dei philosophes
che, nel perseguire un progetto
comune di educazione e rinnovamento
della società, conservarono ciascuno
la propria autonomia. Si configurò
così l’ideale di una identità
collettiva, frutto di sentimenti,
passioni e interessi che animavano
l’agire di un vasto ed eterogeneo
gruppo di studiosi.
Ridimensionando a livello
spazio-temporale il fenomeno
dell’Illuminismo, Darnton lo
definisce in quanto evento storico
concreto e concluso, ma dal quale è
ancora possibile trarre un modello
di indagine e comprensione del
mondo. In apparenza egli sembra
ridurne significativamente anche la
portata scientifica, riconoscendo al
lavoro dei pensatori dell’epoca il
valore di una semplice
rielaborazione di temi già emersi
nei secoli precedenti. Eppure, come
egli stesso avverte, il compito che
investe la figura dell’intellettuale
illuminista si caricò di un
significato etico molto profondo e
molto vicino all’indirizzo
pedagogico che assumerà la cultura
qualche tempo dopo.
Il termine “intellettuale” compare
in Francia e poi in Italia negli
anni a cavallo tra Ottocento e
Novecento, proprio con riferimento a
una categoria o a un ceto sociale
costituito da individui che
svolgevano lavori generalmente
associati all’intelletto. La parola
si diffuse presto in ambito
politico, dal momento che queste
figure rivestivano spesso un ruolo
guida, di indirizzo dell’opinione
pubblica. In concreto, però, si
parlò di intellettuali solo alla
fine dell’Ottocento, in riferimento
al caso Dreyfus, dapprima con la
pubblicazione del J’accuse di
Zola e in seguito, sulla stesso
giornale, propriamente del
Manifesto degli intellettuali,
in favore della revisione del
processo.
Successivamente, la prima guerra
mondiale mise in crisi l’idea di un
ceto esclusivamente mosso dalla
forza della ragione, in quanto
vennero a scontrarsi diversi sistemi
di valori e concezioni della
cultura. Ancora più grandi si fecero
poi le fratture con i fatti della
seconda guerra mondiale e della
ulteriore Guerra Fredda. Già Sartre
mise in evidenza la mancanza della
necessaria assunzione di
responsabilità dell’uomo di cultura
nei confronti del mondo in cui vive.
Infine, la figura dell’intellettuale
perse definitivamente la centralità
a partire dagli anni ‘60 del
Novecento, in parte grazie
all’ampliamento della partecipazione
democratica e al miglioramento del
livello culturale medio, ma
purtroppo anche a causa della sempre
più logorante presenza dei mezzi di
comunicazione di massa, soprattutto
proprio in politica, allo scopo
dell’organizzazione del consenso.
Diderot delinea proprio la figura
dell’eroe ideale in quanto filosofo,
in grado di pensare in autonomia e
non essendo influenzato da alcuna
forma di pregiudizio, tradizione o
autorità. Come riconosce Todorov,
l’autonomia a cui fa riferimento
Diderot non sta a significare
autosufficienza e rottura con il
passato, ma non è sufficiente a
rendere legittimi i principi che
regolano la vita comune. Così
l’Illuminismo si fa carico di un
doppio movimento: di critica e
ricostruzione assieme.
Nella voce dell’Encyclopédie,«philosophe»
l’esercizio della filosofia e quindi
della ragione non è una posa, non è
un atteggiamento: è una forma di
conoscenza abbastanza impegnata,
volta all’utile e al bene comune.
A
ogni modo si potrebbe controbattere
affermando che quella degli
illuministi costituiva una élite,
che mascherava l’ambizione del
controllo culturale attraverso
discorsi carichi di principi
egalitari.
Sicuramente le contraddizioni
interne al movimento sono numerose,
e nonostante Darnton provi a
confutarle una a una nel suo
pamphlet, alcuni dubbi restano
evidenti. Quel che forse è
possibile, però, è rileggere anche
questo ideale educativo alla luce
delle coordinate storiche in cui è
sorto, e non provare a indagarlo per
mezzo delle categorie che sono
proprie alla nostra epoca.
Forse queste contraddizioni sono
dovute al forte senso di concretezza
che accomunava la maggior parte dei
pensatori illuministi. Al contrario
di come viene percepita oggi la
figura dell’uomo di cultura, spesso
considerata in senso dispregiativo
per via dell’aria di superiorità che
sembra caratterizzarla, in
quell’epoca ciò che iniziava a
distinguere il semplice erudito dal
vero intellettuale era proprio l’engagement,
e quindi il contatto diretto con la
situazione socio-politica a lui
contemporanea.
La stessa teoria politica
rousseauiana non può essere
considerata utopica, perché propone
una visione fortemente etica e al
tempo stesso religiosa del patto
sociale, pur distinguendo nettamente
il concetto di legge umana da quello
di legge divina, e proponendo una
formulazione strettamente laica del
diritto politico. In questi termini
va letta la denuncia contro il
paradosso dell’uomo libero, ovunque
in catene: la sua condizione di
prigionia era legittimata dalle
teorie che fondavano il potere sulla
forza, sulla subordinazione dei
singoli che rinunciavano alla
propria libertà. Secondo Rousseau il
patto sociale così stipulato era
ingiusto e andava riformulato
attraverso la teoria e la pratica
dell’eguaglianza e della libertà
originarie. Egli, a differenza della
dottrina contrattualistica di
Hobbes, partiva dal rifiuto del male
in senso teologico, e dalla
conseguente convinzione che il
peccato originale fosse solo un
mito.
Su queste basi si fondava da un lato
la proposta di un nuovo patto
politico, e dall’altra si
configurava il progetto di
un’educazione altrettanto nuova, in
grado di formare cittadini e non più
sudditi assoggettati ai propri
governanti. Del resto anche Diderot
biasimava la società più che la
natura umana, ed era convinto del
fatto che l’uomo tendesse
istintivamente al bene. Di
conseguenza avvertiva con urgenza
profonda la missione del lavoro di
intellettuale: egli concepiva questo
impegno soprattutto nei confronti
della comunità, poiché la pratica
delle virtù illuministe da parte dei
filosofi doveva assurgere a modello
per la società futura. La sua
speranza non si limitava al
raggiungimento del benessere
materiale e alla liberazione
dall’ignoranza, ma era rivolta anche
al miglioramento personale.
Anche in ambito privato Diderot
espresse la necessità di
un’educazione virtuosa, tanto che si
dedicò egli stesso alla formazione
intellettiva e morale della figlia
Angélique. Eppure avvertiva il
pericolo di una mancata integrazione
che avrebbe comportato un’educazione
così all’avanguardia in un momento
in cui l’emancipazione femminile era
sinonimo di superficialità. Alla
fine questo timore si tradusse in
una ricerca del candidato sposo
perfetto, e una volta riuscito
nell’impresa poté assicurare a sua
figlia di vivere secondo le regole
non scritte dell’epoca, e al tempo
stesso di non scendere a patti con
la propria coscienza.
In generale quindi, Diderot rimase
coerente con i propri principi
perché aveva fiducia nel genere
umano, anche se non in maniera
disillusa. Pur condividendo le
teorie materialistiche, rifiutava la
visione semplicistica di Helvétius
per cui l’unica base della moralità
e della giustizia fosse il mondo
fisico. Non poteva accettare che
piacere e dolore fossero gli unici
moventi dell’agire umano come di
quello animale. Riconosceva che
l’uomo, pur essendo fatto di materia
ed essendo condizionato dai propri
istinti,aveva comunque bisogno di
una causa degna di lui.
Un episodio che per alcuni aspetti
anticipò la mobilitazione pubblica
che avvenne con il caso Dreyfus, e
che dimostra quanto la figura
dell’intellettuale stesse acquisendo
potere in ambito pubblico, fu la
vicenda giuridica del francese Jean
Calas nel 1761. Infatti, Voltaire
lanciò una campagna per annullare la
condanna e mortificare i
responsabili, nello sforzo di
combattere il fanatismo religioso e
la tortura. Egli riuscì perfino a
guadagnare l’appoggio della allora
granduchessa Caterina, e alla fine
il nome di Calas, che nel frattempo
era deceduto a causa delle sevizie
subite, venne riabilitato e la
famiglia poté tornare a casa.
Lo stesso progetto di realizzazione
dell’Encyclopédie venne
portato a termine con un profondo
atteggiamento di dovere nonostante
le censure, le defezioni e tutti gli
impedimenti pratici del caso.
Diderot rifiutò perfino la proposta
di Federico il Grande di trasferire
la produzione dell’opera in Prussia,
avanzando la motivazione di non
voler assecondare il desiderio dei
propri nemici, che lo avrebbero
voluto in esilio in un paese
straniero.
Inoltre, basta pensare alla
concezione kantiana della
liberazione grazie all’uso critico
della ragione e la conseguente
uscita dallo stato di minorità. Kant
invitava gli uomini a costruire una
propria visione del mondo, a non
dipendere dagli altri per compiere
le proprie scelte. Egli riconosceva
che assumere questa consapevolezza
avrebbe richiesto coraggio e spirito
di sacrificio, oltre che dedizione
allo studio. La libertà era vista
secondo la logica del dovere,
specialmente in ambito pubblico, e
non era possibile accettare chi,
avendo le possibilità materiali, per
mancanza di vigore, preferiva
rimanere succube del sistema di
potere e controllo contro cui Kant
stesso si scagliava. Assolvere alla
funzione di studioso (Gelehrten),
quindi, comportava un impegno
sociale al quale nessun illuminista
avrebbe potuto sottrarsi, e stava a
significare un interesse puro e
profondo che andava al di là di ogni
contingenza umana.
Appare logico che fosse più naturale
il sorgere di un movimento di
educazione che cogliesse con vigore
l’importanza dei nuovi modi di fare
informazione, a cominciare dalla
stampa e dai luoghi di incontro come
i salons. Infatti, la
diffusione delle idee al di fuori
del sistema istituzionale permetteva
una circolazione più libera riguardo
alle nuove conquiste culturali.
I
salotti letterari divennero ben
presto, oltre che luoghi in cui
misurare il proprio prestigio
sociale, veri e propri centri
propulsori del rinnovamento tanto
sperato. Non è un caso se questo è
stato definito il secolo della
conversazione, come ricorda anche
Zaretsky. Nell’articolo dell’Encyclopédie
viene ribadita la funzione di svago
della pratica della discussione,
grazie alla concessione di piena
libertà offerta al proprio spirito.
Eppure, conversazione e raziocinio
non potevano essere separati: si
trattava di un impegno condiviso nel
cercare di raggiungere la verità,
superando i limiti delle concessioni
offerte agli intellettuali fino a
quel momento nel contesto dell’Ancien
Régime.
Alcuni salotti letterari erano
gestiti da donne, le cosiddette
salonnières, più spesso di
origine aristocratica ma anche
borghesi, le quali mettevano a
disposizione le proprie dimore e
offrivano ospitalità agli esponenti
della cultura europea. Il loro ruolo
veniva avvertito come una grande
risorsa utile alla società, erano
figure stimate, ed esse stesse si
consideravano persone dallo spiccato
senso pratico perché impegnate nel
concreto.
Non basta di certo questo fenomeno
per far svanire le ombre di
misoginia che oscurano il movimento
illuminista, ma esso rappresenta
comunque un forte segnale di come in
quel preciso momento prendesse
vigore il più ampio processo di
emancipazione femminile, ed è
evidente che tale forza avesse
origine dai più profondi principi
dell’Illuminismo stesso.
Una delle antinomie attribuibili
all’Illuminismo si verificò con la
nascita dell’idea di “dispotismo
illuminato”, che già nei termini
suona come un ossimoro e una
forzatura. Eppure, anche da parte
dei filosofi più rivoluzionari
esisteva la concezione per cui il
miglioramento sociale, culturale e
politico sarebbe potuto avvenire
proprio attraverso l’azione
riformistica dei governanti, senza
per forza dover ribaltare lo stato
delle cose. Come espresso nella voce
«Autorità politica» dell’Encyclopédie,
Diderot individua il fondamento del
potere nella natura e nella ragione,
ma non nega che l’esercizio del
governo, per volontà dei sudditi,
possa essere esercitato da un
sovrano che garantisca l’ordine e il
rispetto dei diritti.
Infatti, il Rousseau del
Contratto sociale, ruppe con il
gruppo dell’Encyclopédie sia
sul piano teorico che personale, e
si vide attribuire la fama di
dissidente interno, proprio perché
la sua interpretazione sembrava non
contemplare alcun compromesso, ma
anzi si radicava su un fondamento
fortemente democratico.
Inoltre, occorre anche far presente
quanto la polemica contro forme di
mecenatismo fosse moderata nel caso
in cui tali condizioni di supporto
non risultassero lesive di libertà e
indipendenza.
Le due forme di compromesso
mecenatesco e rivendicazione
libertaria convivevano alternando
momenti di opposizione a momenti di
conciliazione, senza mai risolversi
in qualcosa di definitivo. Ancora
non era tempo per richieste di norme
liberali, basti pensare che la
battaglia per i diritti d’autore era
ancora in atto, o che ancora non
esisteva una proposta organica di
libertà di stampa. La dichiarazione
di indipendenza e di libertà era
piuttosto un invito a non rimanere
incatenati a una vita mediocre, al
riuscire con determinazione nel
proprio impegno.
In generale, perciò, la vicinanza
tra principe e filosofo avvenne con
lo scopo di prevenire iniquità e
abusi, e quasi ingenuamente sorgeva
la speranza che fosse possibile
istruire i governanti alla giustizia
e al bene comune. Al tempo stesso,
alcuni sovrani iniziarono a cogliere
l’importanza di essere circondati
non solo da fidati consiglieri, ma
che fossero anche fonte di stimoli
per il rinnovamento istituzionale e
legislativo. Si venne a costituire
una nuova classe dirigente, capace
di offrire strumenti concreti per
l’attuazione del buon governo. Oltre
a Federico II di Prussia e al
Granduca di Toscana, lo aveva
intuito fin da subito Caterina di
Russia che, nel tentativo di
guadagnarsi la fiducia delle corti
europee e provare a sconfiggere
l’arretratezza in cui riversava il
proprio paese, aveva provato ad
avvicinare San Pietroburgo a Parigi
attraverso una fitta corrispondenza
con i maggiori esponenti della
cultura francese.
Il primo che rimase sedotto dalle
lusinghe della non ancora sovrana
russa fu proprio Voltaire, eben
presto divenne uno dei confidenti
più preziosi dell’imperatrice. I due
intrattennero un rapporto epistolare
consapevoli del fatto che le lettere
non servivano tanto per influenzarsi
vicendevolmente, quanto per
guadagnare il rispetto dei posteri.
Alla fine anche Diderot, che non era
mai uscito dal proprio paese, si
fece convincere dalle aspirazioni
benevole di rinnovamento che
circondavano la figura di Caterina,
e accettò la proposta della stessa
di raggiungerla in Russia. Questo
perché, a differenza di ciò che
pensava di Federico II di Prussia,
era convinto davvero che Caterina si
sarebbe dimostrata una sovrana
diversa, legittimato dal fatto che
nella sua formazione si era dedicata
alla lettura di autori e opere
illuministe e di tradizione
classica.
A
oggi sembra quasi impossibile
comprendere fino in fondo cosa
voglia dire realmente per noi la
parola “intellettuale”. Essa è quasi
scomparsa dall’uso comune. O
comunque è più probabile vederla
utilizzata in ambito accademico, non
in relazione ad argomenti che
riguardino la comunità, il bene
pubblico. Sembra quindi esser
regredita a quei contesti di dominio
elitari propri delle civiltà non
ancora democratiche e liberali, in
funzione spesso di ideologie, giochi
di potere e interessi particolari.
Le ragioni sono attribuibili, come
per qualsiasi fenomeno umano, in
parte alla semplice evoluzione dei
tempi e della società, ma
probabilmente la degenerazione
semantica è dovuta anche alla
corruzione etico-politica di chi non
ne rappresentava più i principi, di
chi per scarso vigore o in virtù di
un interesse maligno ne ha svuotato
completamente il significato.
Sarebbe opportuno dunque, recuperare
il senso profondo di questa figura,
prendendo esempio anche
dall’elaborazione concettuale
fornita dal fenomeno
dell’Illuminismo, e integrarla con
le conquiste raggiunte nei secoli
successivi da esponenti di spicco
della cultura mondiale, in un’ottica
davvero globale e multidimensionale.
Solo recuperando il senso, il
contenuto di questa figura allora
probabilmente verrà spontaneo
ricominciare a utilizzare il termine
“intellettuale”, o più
verosimilmente sarà naturale creare
un nuovo termine, che non generi più
distacco sociale, ma che sia simbolo
di mediazione e tolleranza, una
parola sola che racchiuda tutte le
sfaccettature proprie a questa
potentissima figura umana.