N. 29 - Ottobre 2007
LA CAPACITA’ D’INTEGRAZIONE
DELLO STATO
ROMANO
Parte II
di
Bianca Misitano
La soluzione
trovata per la gestione dei centri pervenuti
all’interno della sfera romana fu la nascita
di un nuovo tipo di confederazione, che
legasse strettamente ogni città a Roma e che
lo facesse singolarmente. In pratica il
termine “confederazione” non è da intendersi
come alleanza fra più città, ma come
alleanza di singole città alla potenza
dominante, ossia quella romana. A questo
scopo vennero creati diversi tipi di
accordi.
Quello più
diffuso fu la creazione di municipia,
consistente nel concedere ad alcune città la
civitas sine suffragio. Nello
specifico, in questo caso ai cittadini
spettava la doppia cittadinanza, quella del
loro luogo d’origine e quella romana ed i
municipia mantenevano virtualmente la
loro indipendenza, tranne che per gli affari
di politica estera, per i quali dovevano
fare capo a Roma.
Inoltre erano
tenuti a fornire truppe (il loro munus
“dovere”, da cui municipium) ed a
ricevere le ispezioni dei prefetti romani.
Un’altra innovazione fondamentale fu la
realizzazione di un nuovo tipo di colonie,
dette colonie latine. Queste colonie
venivano abitate principalmente da cittadini
romani, godevano di autonomia e, nei
confronti di Roma, dei privilegi di
connubium e commercium.
Dall’altra parte, però, i cittadini romani
che sceglievano di trasferirsi in queste
colonie, perdevano la cittadinanza romana,
cosicché per incentivare il popolamento di
queste comunità Roma assegnava parti di
terreno più ampie rispetto a quelle che si
potevano ricevere in patria.
Lo scopo
primario della fondazione di questi centri
era, ovviamente, quello di ottenere un
controllo del territorio più capillare e
penetrante, in modo da tenere d’occhio gli
alleati e da gestire meglio le vie
commerciali. In breve, si vennero a formare
tre tipi di cittadinanza diversificati e
così gerarchicamente ordinati: municipes
optimo iure (cittadini in possesso dei
pieni diritti), prisci Latini e
nomen Latinum (vecchi e nuovi Latini) e
municipes sine suffragio (cittadini
senza diritti politici). In questa maniera
la logica del divide et impera,
veniva per la prima volta applicata in
maniera sistematica. I membri della
confederazione non venivano in alcuna
maniera legati fra di loro, ma tutti
dipendevano da Roma.
Fu attraverso
la logica della confederazione che,
oltretutto, il sentimento degli alleati non
fu mai quello di sudditi asserviti ad una
padrona, ma essi si sentivano piuttosto
parte di uno stato, quello romano, che era
ormai diventato anche il loro stato. Gli
abitanti delle comunità sotto l’influenza di
Roma avevano, infatti, chi del tutto, chi in
parte, gli stessi diritti e doveri di Roma,
i loro soldati combattevano nell’esercito
romano ed era Roma che ne garantiva la
sicurezza dalle minacce esterne. Con questi
presupposti, quindi, non poteva non crescere
negli animi degli alleati un forte senso di
appartenenza, le progressive conquiste di
Roma divenivano anche le loro conquiste, per
le quali avevano combattuto ed erano morti i
soldati latini come e quanto quelli romani.
In questa
circostanza, dalla quale poi scaturirà tutta
la futura gestione delle conquiste, il
merito di Roma fu essenzialmente uno: quello
di concedere, in misure differenziate a
seconda delle situazioni, gli stessi diritti
di cui poteva godere un cittadino romano.
Facendo ciò anche gli sconfitti preferivano
finire nelle mani di Roma, piuttosto che di
un’altra potenza meno “generosa” e più
oppressiva.
Di contro, i
romani ottenevano in primis aiuti militari,
di cui avevano una necessità abbastanza
impellente ed una catena di città socie per
le quali non si dovevano preoccupare di
mantenere i favori tramite la coercizione od
un controllo eccessivamente stretto, che,
d’altronde, non si sarebbero nemmeno potuti
permettere. Insomma, Roma riuscì a creare,
con perfetta razionalità e concretezza, una
situazione a suo tutto vantaggio, adottando
un complesso sistema di concessioni e
limitazioni, facendo delle città conquistate
non delle schiave ma parte integrante del
suo stato. Un ultimo passo adesso mancava
per portare a termine questa prima fase di
evoluzione del processo di inclusione degli
sconfitti e sarà il passo che porterà alla
nascita del concetto di provincia.
Questa nuova
tappa verrà raggiunta sotto l’impulso della
conquista della Sicilia e della Sardegna. La
gestione e la sistemazione di questi
territori risultò dopo poco tempo un po’ più
complessa rispetto alle altre zone del suolo
italico. La situazione della Sicilia, in
particolare, si presentava piuttosto
problematica. I suoi abitanti differivano
per origini etniche, costumi, tradizioni.
Una parte dell’isola infatti, era stata fino
ad allora dominata dai Cartaginesi, mentre
un’altra parte era greca.
Roma, al
momento della sua sottomissione tentò in un
primo tempo di attuare la stessa politica
che aveva utilizzato fino ad allora, ossia
stipulare una serie di alleanze con le
principali città. Così fece ad esempio con
il tiranno di Siracusa, Ierone e con
Messina. Ma, nonostante questo, rimaneva
metà del territorio siciliano a cui
provvedere. Cosa farne?
La risposta a
questa domanda dipese da valutazioni di
carattere militare, politico ed economico.
Innanzitutto andava contro il modo di
procedere dei Romani quello di imporre nuovi
sistemi di dominio che sarebbero potuti
risultare troppo coercitivi.
Dopotutto fino
ad allora Roma aveva proceduto “rivisitando”
un sistema che era da lungo tempo familiare
ai Latini ed ai popoli italici in generale:
quello dei foedi. In Sicilia i Romani
trovarono un’amministrazione già di per sé
molto efficiente ed efficace creata dai
Cartaginesi e da Ierone ed a cui la
popolazione siciliana era abituata. Al
contrario della soluzione romana, quella
siciliana non si basava principalmente sulla
richiesta di contributi militari, ossia di
truppe per l’esercito, ma sulla riscossione
di tributi.
Ad essere
incaricati di riscuotere la decima, ossia la
quota dovuta allo stato, non furono inviati
di Roma, ma la classe dirigente locale, che
così non venne declassata ma, anzi, potè
aprire un interessante canale di
comunicazione con le classi politiche dello
stato romano. Anche qui, quindi, un’acuta
gestione della situazione da parte di Roma,
apriva la strada all’integrazione sociale
soprattutto agli alti livelli, determinando
vantaggi per entrambi le parti.
Le novità
dell’imposizione di tributi e della delega
della gestione di questi ad esponenti
locali, non potevano però bastare in un
momento storico in cui l’allarme militare,
nonostante la recente vittoria nella prima
guerra punica, non si era affatto placato,
ma anzi era adesso in corso fra Roma e
Cartagine una vera e propria “guerra
fredda”. La Sicilia, per l’importanza della
sua posizione, che poteva rappresentare una
testa di ponte verso i territori
nordafricani, necessitava di una protezione
solida e sicura. Fu probabilmente
soprattutto a questo scopo che nel 227 a.C.
il Senato romano innalzò il numero dei
pretori eleggibili.
Fino ad allora
erano stati eletti due pretori all’anno, un
praetor urbanus, che si occupava di
controversie fra cittadini romani ed un
praetor peregrinus che invece aveva
competenza se uno o entrambi i contendenti
erano stranieri. Per riorganizzare le
neoconquiste sarde e siciliane si stabilì,
quindi, di inviare un magistrato romano
dotato di imperium in entrambe le
regioni, ossia, per l’appunto, un pretore.
Dal 227 in
poi, quindi, i pretori in carica divennero
quattro, di cui due esercitavano
regolarmente in Sicilia e Sardegna. Su
questa decisione incise sicuramente il fatto
che un pretore aveva l’autorità per
mantenere un esercito sotto il suo comando,
risolvendo così il problema della protezione
delle due isole, entrambe ex-domini
cartaginesi. Da quel momento in poi si
cominciò a parlare di provincia in
riferimento a delle zone ben precise. Prima
d’allora la parola provincia aveva
indicato la sfera di competenza di un
magistrato e non era necessariamente legata
ad un ambito territoriale.
Le nuove
funzioni dei pretori, oltre a permettere a
Roma di mantenere dei contingenti importanti
nelle province, erano molteplici e quasi
indipendenti dal Senato. I secoli successivi
dimostreranno come questa “indipendenza”
potesse dimostrarsi controproducente e
dannosa sotto l’influenza di qualche
governatore egoista ed ambizioso, ma per i
primi tempi l’amministrazione fu equilibrata
e tranquilla.
Si conclude
così la prima fase dell’allargamento della
città-stato Roma che, mentre i confini delle
sue conquiste si allargheranno ben oltre
quelli della città, i suoi caratteri di
“stato” rimarranno permanenti. E’ questa
infatti la peculiarità più importante ed
interessante del suo sviluppo. Con essa il
modello degli imperi orientali imbocca
definitivamente la via del tramonto,
sostituito da un sistema politico più
aperto, flessibile ed adattabile.
I territori
assoggettati non diventano romani solo
politicamente parlando, ma nel senso più
ampio del termine. Man mano che Roma si
allarga, si allarga anche il senso di
appartenenza ad uno stato ed il patriottismo
coinvolge anche chi, in quello stato, si
ritrova a farci parte non dall’inizio, ma in
un secondo momento. Questo effetto, sebbene
da una parte ottenuto grazie ad un’abile
politica di propaganda, dall’altra scaturì
da una reale lungimiranza politica e da una
gestione equilibrata delle conquiste da
parte dell’Urbe. Roma non chiamò mai i
popoli vinti “sudditi” né mai li fece
sentire tali, anche se di fatto da lei
dipendevano.
Dalla loro
parte gli italici, grazie al grande mezzo di
coesione dell’esercito e della
partecipazione militare ed anche grazie al
fatto che, nominalmente, conservavano
l’indipendenza, accettavano di buon grado
l’ingerenza di Roma se ciò voleva dire
condividere tutti i vantaggi che derivavano
dallo stare dalla parte di una grande
potenza in ascesa.
Come già detto
anche a livelli più alti avvenne un processo
di coesione ed integrazione che si compirà
in maniera pressoché totale, visto che non
molto più tardi cominceranno a fare la loro
comparsa nella Curia i primi senatori
provenienti dai territori italici.
E’ così che
una sola città potè permettersi di mantenere
il controllo su territori così vasti,
coinvolgendo e cooptando, piuttosto che
imponendo con la forza. Moltissima gente
arrivò ad ambire più che all’indipendenza
della propria regione, alla cittadinanza
romana per i vantaggi che essa comportava e
che Roma concedeva con una studiatissima via
di mezzo fra la prodigalità e la severità.
Ottenerla nella prima parte della vita della
città non risultò né troppo facile, così da
evitare al governo di dover gestire enormi
masse di cittadini senza averne la capacità,
né troppo difficile da poter scoraggiare
qualcuno a rendere servigi alla comunità pur
di impossessarsene. Solo quando Roma sarà
cresciuta abbastanza la cittadinanza sarà
concesso alla stessa maniera a tutti gli
italici, prima essa rimase distinta nei vari
modi che andavano dall’optimo iure al
sine suffragio e che permettevano di
concedere i giusti privilegi a tutti i
centri in mano a Roma.
La capacità,
quasi camaleontica, del governo romano di
adattarsi a tutte le situazioni per volgerle
in proprio favore fu la grande arma di
conquista, importante quanto quella più
concreta delle legioni. Per mantenere e
consolidare il proprio dominio, la città fu
disposta ad adattare i propri stili e forme
di governo, imparando dagli altri ciò che le
serviva: ecco uno dei più importanti motivi
della stupefacente stabilità del suo impero.
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