N. 28 - Settembre 2007
LA CAPACITA’ D’INTEGRAZIONE
DELLO STATO
ROMANO
Parte I
di
Bianca Misitano
Uno degli
interrogativi principali che ci si pone
quasi subito quando si ha a che fare con la
storia di Roma è come sia stato possibile
che un’unica città stato, inizialmente
simile alle tantissime altre che
costellavano l’Europa ed il Mediterraneo,
sia riuscita ad assumere, e soprattutto a
mantenere il controllo su gran parte dei
territori allora conosciuti per così lungo
tempo. Dal deserto africano alle selve
britanniche, dalla Spagna alla Macedonia ed
alla Grecia, le legioni romane arrivarono
praticamente dappertutto sbaragliando ogni
genere di nemici.
Sebbene prima
di quella latina si fossero sviluppate molte
altre grandi civiltà basate sul sistema
delle città-stato, essa fu la prima a
compiere un’impresa del genere: fondare un
impero in cui una sola città svolgesse non
solo il ruolo di capitale, ma di vero e
proprio centro predominante in tutto e per
tutto. Tutto partiva da Roma e a Roma
tornava, grazie ad uno sbalorditivo apparato
statale. Ciò che permise questo ai Romani è
anche ciò che differenziò quella latina da
tutte le altre grandi culture del passato:
la capacità di integrare i popoli
sottomessi. Per avere una visione più
precisa di quanto questa differenza giochi
un ruolo fondamentale possiamo prendere in
considerazione alcuni esempi. In Grecia,
anche prima che Roma divenisse qualcosa di
più di un semplice agglomerato di villaggi,
avevano prosperato molte città stato ricche
e potenti, come le eterne rivali Atene e
Sparta. Ma esse non giunsero mai a formare
una nazione intesa come unità di intenti e
di governo ed anche il senso patriottico dei
cittadini verso tutta la civiltà greca
sembrava venire fuori solo quando la
minaccia proveniva dall’esterno, come nel
caso delle guerre persiane. Per il resto,
pochi se non nulli furono i periodi di pace
fra le varie città, che non smettevano di
farsi la guerra fino all’estrema conseguenza
di causare addirittura il definitivo
collasso della grecità di epoca classica.
Anche le conquiste dei territori circostanti
che gli stati ellenici riuscivano ad
effettuare, erano difficilmente
controllabili poiché in molti casi la
popolazione assoggettata era trattata alla
stregua di schiavi, provocando così un
enorme e pericoloso malcontento.
Non meglio la
situazione procedette nel centro Europa,
dove le genti celtiche, nel periodo del loro
massimo splendore, erano riuscite a
diffondersi in un territorio vastissimo,
delimitato ad ovest dalla Spagna, a est dai
Balcani e dalla Turchia, a nord da Scozia e
Irlanda e a sud dall’Italia settentrionale.
Ma questa veramente smisurata porzione di
territorio, non divenne mai impero, per il
semplice fatto che i Celti rimasero per
sempre divisi in tribù, anch’esse, come le
città greche, in continuo conflitto tra loro
e non furono mai capaci di trovare unità
finchè anche la loro cultura si estinse.
L’abilità di
Roma, invece, fu proprio quella di evitare
di protrarre oltre il dovuto i conflitti con
i rivali con cui mano a mano veniva a
contatto, attraverso un elaborato sistema di
alleanze che le permetteva non solo di
esercitare il controllo sui nuovi territori,
ma anche di accattivarseli e di conquistarli
alla causa romana. Questa capacità di
inserire i nuovi elementi in maniera
profonda nello stato romano varrà anche
nelle questioni di politica interna, dove il
Senato all’epoca delle lotte fra patrizi e
plebei riuscì a scongiurare la guerra civile
proprio allargandosi ed aprendosi verso il
basso.
Questa
prerogativa degli antichi latini si può
riconoscere sin dalle origini della città ed
è forse quella che, per la sua efficacia, la
politica romana non abbandonerà mai, ma anzi
penserà sempre di più a perfezionare e
sviluppare. E’, insomma, uno di quei pochi
elementi che resisterà ai secoli e che sarà
presente quasi senza soluzione di continuità
dai tempi più remoti fino alla caduta
dell’Impero d’Occidente. Esso trova un posto
persino nella leggende.
E’ infatti
risaputo che, secondo la tradizione, il
primo re Romolo, per incrementare la
popolazione della città, diede accoglienza a
coloro i quali erano rimasti senza patria,
come esiliati, fuggitivi ed altra gente
simile. E’ il primo atto di integrazione di
elementi “esterni”, che, leggendario o no,
darà il via a tutti gli altri.
Volendo
partire dalle origini, bisogna dire che Roma
stessa nacque dalla fusione di più villaggi,
che probabilmente in precedenza erano tutti
membri di una confederazione, forma
organizzativa usuale fra le popolazioni
latine, e quindi dall’integrazione di più
nuclei abitativi. Se il nucleo iniziale
della città sorse, come indica la tradizione
e come l’archeologia ha confermato, sul
Palatino esso cominciò quasi subito ad
ampliarsi assorbendo vari villaggi vicini.
In particolare
si parla di una fase, detta Septimontium
(da septem, sette e mons,
monte?) in cui l’originale insediamento
arrivò ad inglobare in sè la vicina altura
della Velia e, successivamente, il gruppo
esquilino comprendente i rilievi dell’Oppio,
del Cispio e del Fagutale. Un frammento di
un autore di età augustea, Marco Antistio
Labeone, dice infatti: “Al Septimontium è
festa per questi monti: Palatino, Velia,
Fagutale, Subura, Germalo, Oppio, Celio
Cispio”.
Ma, il primo
episodio di assimilazione rilevante riguarda
il rapporto che la nascente Roma sviluppò
con i suoi vicini Sabini, assimilazione che,
oltre a passare alla leggenda, tramite il
mito del ratto delle Sabine, durerà anche
per molto tempo. In questa prima fase, degli
abitati sabini erano posti nell’area del
Campidoglio e del Quirinale. Ben presto si
creò un dualismo, probabilmente abbastanza
marcato, con il nucleo romano
palatino-esquilino. La pavimentazione
dell’area posta fra questi due centri, che
poi corrisponde a quella del Foro Romano,
dimostra come questo dualismo sfociò, ad un
certo punto, nell’integrazione dei due
centri, dando vita alla Roma delle Quattro
Regioni (Palatino, Esquilino, Celio,
Quirinale) e ad una monarchia bipartita,
quella del romano Romolo e del sabino Tito
Tazio, che governarono assieme la città.
Come si può
vedere, già la Roma delle origini cresce ed
assume le dimensioni di una città più che
attraverso il completo assoggettamento dei
suoi vicini, tramite l’accorpamento e
l’assimilazione e questo riguardo anche la
classe dirigente. Prova ne sia che il
Senato, corpo istituito dallo stesso Romolo,
inizialmente costituito da 100 componenti,
fu presto ingrandito da Tarquinio Prisco
raddoppiando il numero dei patres.
Con questo provvedimento si riuscì a
livellare una prima distinzione sociale che
vedeva la classe dei patrizi divisa in
maiores e minores gentes. Ai
minores, al momento dell’ampliamento del
Senato, vennero date le stesse possibilità
dei maiores, tanto che il patriziato
vide ben presto scomparire questa
differenza. E’ questa una prima
testimonianza della grande flessibilità
della classe dirigente che preferiva
assorbire nuovi membri piuttosto che
trincerarsi dietro un conservatorismo
assoluto che avrebbe potuto destabilizzare
gravemente le posizioni stesse dei senatori.
I patres, per fare ciò, potevano
contare sul fatto che la spinta innovativa
dei nuovi elementi riusciva a venire
incanalata nella
direzione voluta dagli aristocratici,
le cui tradizioni e la cui etica facevano
presto a conquistare le nuove leve. La
funzione di “custodi della tradizione” che
agli occhi dei romani rivestivano i patrizi
inducevano i parvenus al conformismo
piuttosto che al contrasto con quella che
potremmo chiamare la “vecchia guardia”. Ecco
perché il Senato nel corso di tutta la sua
storia potè permettersi sempre nuovi innesti
senza temere troppo per la propria
integrità.
L’assimilazione e l’integrazione avveniva
anche per i cittadini di più umile
condizione. Nell’ambito delle conquiste
iniziali, infatti, gli abitanti delle
comunità assoggettate venivano iscritti
nelle tribù di Roma, ossia assumevano gli
stessi diritti politici dei romani. Un
razionale ampliamento della cittadinanza fu
operato dal re Servio Tullio, nell’ambito
delle importantissimo corpus di riforme che
egli introdusse nello stato romano e che
passarono alla storia come riforme “serviane”.
Oggi si continua a discutere se esse siano
interamente da attribuire a questo
personaggio, ma tradizione vuole che sia
stato proprio questo re ad operarle. Egli
attuò un allargamento della cittadinanza
attraverso la sua nuova suddivisione delle
tribù. Ad esempio stabilì che uno schiavo
rimesso in libertà diveniva cittadino romano
e concesse la cittadinanza a tutta quella
gente che abitava a Roma ed a cui fino ad
allora non era stata accordata. Da tempo,
infatti, la città si stava molto ingrandendo
e sviluppando, con la nascita di nuovi ceti
sociali, come quello dei commercianti, ed il
grande affluire in città di persone
provenienti dalle campagne. Nel periodo
serviano un buon numero di essi vennero
annoverati fra i cittadini a tutti gli
effetti, compensando la crescente importanza
della città con l’aumento proporzionale dei
cittadini.
Ma la capacità
della repubblica di integrare ed assimilare
elementi estranei si rifletterà soprattutto
in politica estera. Dapprima Roma cerca di
affermare la sua supremazia sul Lazio
attraverso un sistema di alleanze regolate
da foedi, ossia patti, che
teoricamente mantenevano paritarie le
posizioni di tutti i contraenti.
Questa
politica per Roma inizia con il cercare una
posizione predominante nella lega Latina.
Essa era una coalizione, a carattere
essenzialmente militare, di cui conosciamo i
nomi dei centri membri grazie a Catone, che
nelle Origines scrive: “Egerio Bebio
di Tuscolo, come dittatore dei Latini,
dedicò il bosco sacro di Diana nella foresta
di Aricia, [come dedica] comune dei seguenti
popoli: Tusculani, Aricini, Lanuvini,
Laurenti (Lavinium), Corani, Tiburtini,
Pometini, Ardeati, Rutuli.” Queste città si
erano unite proprio per far fronte allo
strapotere romano in un momento in cui esso
mirava a limitare la loro autonomia e
indipendenza. Ovviamente fu inevitabile il
pervenire ad uno scontro fra queste due
potenze. La prima guerra latina appartiene
ad un passato ancora così remoto per Roma,
che la conoscenza del suo andamento reale è
stata dissolta dalla leggenda. Si sa per
certo, comunque, che i romani ne uscirono
vittoriosi e che regolamentarono i rapporti
con gli sconfitti attraverso un trattato,
detto foedus Cassianum, dal nome del
generale che lo stipulò, Spurio Cassio.
Questo fu il primo vero esperimento romano
volto a legare strettamente a sé i vinti,
senza, in teoria, ridurli al rango di meri
sudditi. L’accordo, fu infatti, posto in
termini di un’alleanza da pari a pari, in
cui fu fra le altre clausole, vi fu quella
che i cittadini romani e latini dovessero
avere uguali diritti privati, cosa che ne
favoriva l’intesa e l’associazione. Già
questo primo rilevante atto di politica
estera mostra come Roma intuì che molto di
più le conveniva porsi come un’alleata che
non come una padrona. Non dimentichiamo che
la città era appena uscita vittoriosa da una
guerra, ma ciò che davvero la portò a
guadagnarsi una posizione predominante sul
Lazio non fu la sottomissione dei nemici, ma
un progressivo aumentare della sua statura
politica all’interno della Lega, che, fino
al suo scioglimento, restò nominalmente un
patto fra comunità con uguali posizioni e
diritti.
Inoltre, in
quegli stessi anni Roma sottoscrisse un
accordo simile con la popolazione degli
Ernici, formando una “triplice alleanza” con
cui poteva premunirsi contro popolazioni
nemiche che erano sul piede di guerra.
Il V secolo
a.C., fu un secolo di intense conquiste
territoriali, sia per Roma che per i Latini.
Gli alleati ebbero la meglio su Sabini,
Volsci ed Equi e Roma da sola riuscì a
conquistare la grande roccaforte etrusca di
Veio, il cui territorio andò ad ingrandire
enormemente il suolo romano. Questi
movimenti aumentarono ancora di più
l’importanza dei romani all’interno del
foedus Cassianum, e alcune potenze
esterne bisognose di aiuto cominciarono a
rivolgersi a Roma piuttosto che all’insieme
dei Latini.
Questo processo di graduale
conquista della supremazia sugli alleati
sarebbe andato rapidamente avanti se
l’invasione gallica non avesse messo in
serissime difficoltà Roma. Di ciò decisero
di approfittare i suoi alleati, decisi a
sbarazzarsi di quell’ormai fin troppo
ingombrante presenza all’interno coalizione.
Passata la tempesta celtica, ebbe così luogo
un’altra guerra fra i romani ed i latini, da
cui questi ultimi uscirono per la seconda
volta sconfitti. Conseguenza di questo stato
di cose fu la ricreazione del foedus
Cassianum, questa volta però non in
forma di un accordo fra alleati, ma con la
netta predominanza romana. Ma una successiva
incursione gallica, fortunatamente minore e
molto meno pericolosa della precedente,
quasi portò nuovamente ad una perdita del
controllo sugli alleati. In questa maniera
il governo romano comprese che un’alleanza
regolata semplicemente da un foedus
all’ “antica” non bastava più.
Bisognava
rafforzare il proprio controllo sul
territorio laziale e razionalizzare la
gestione delle nuove conquiste. Dapprima si
provvide a questo fondando nuove colonie in
punti strategici ed inviando presidii nelle
città sottomesse. Ad alcune di esse si
concesse una forma speciale di cittadinanza,
la civitas sine suffragio, ossia la
condivisione dei doveri e dei diritti
privati, ma senza alcun diritto politico.
Ma un’altra
fase di grande espansione stava per
iniziare. Nel 343 scoppia la prima guerra
sannitica, che vede anche qui la vittoria di
Roma e l’ottenimento del dominio anche sulla
ricca regione della Campania. Adesso, la
necessità di dare una sistemazione al nuovo
piccolo impero che i romani si erano creati
nel centro Italia, diviene molto più
pressante. Roma non è una potenza orientale:
la logica del completo asservimento degli
sconfitti tramite soprattutto la coercizione
gli è estranea oltre che sconveniente. Ma,
al tempo stesso, l’epoca dei patti di
alleanza era ormai sorpassata. Per questo
Roma crea un sistema di gestione del tutto
nuovo, che combina le sue esigenze di
controllo con la volontà di lasciare
autonomia ai centri cittadini, ove questo
tornasse utile al governo, soprattutto
riguardo l’amministrazione delle questioni
interne ad ogni centro.
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