N. 107 - Novembre 2016
(CXXXVIII)
insediamento
rupestre
di
santa
cecilia
Esplorando
i
suggestivi
resti
di
un
abitato
dell’Alto
Medioevo
di
Roberto
Giordano
Nella
provincia
di
Viterbo,
in
una
vasta
area
boscosa
situata
tra
i
comuni
di
Bomarzo,
Vitorchiano
e
Soriano
nel
Cimino,
sono
conservate
le
vestigia
di
un
passato
che
affonda
le
sue
radici
in
tempi
remoti.
Nel
folto
della
vegetazione
si
trovano
strade
realizzate
nel
tufo
e
profonde
vie
cave,
iscrizioni
ed
epigrafi,
colombari
e
monumenti
funerari
unici
nel
loro
genere,
altari
e
abitazioni
rupestri,
un
gran
numero
di
pestarole
(vasche
usate
per
la
pigiatura
dell’uva
o
altre
lavorazioni),
grandi
massi
di
origine
vulcanica
lavorati
in
maniera
particolare
e
dalla
funzione
ancora
da
chiarire,
aree
sacre,
dighe
sui
torrenti
e
altro
ancora.
Una
capillare
presenza
dell’uomo
in
antico
che
può
sembrare
addirittura
anomala,
osservandola
con
occhi
moderni,
poiché
in
questo
specifico
ambito
territoriale,
tale
presenza
è
circoscritta
in
un
orizzonte
temporale
che
inizia
con
la
preistoria,
prosegue
nel
periodo
etrusco-romano
e si
chiude
nel
primo
Medioevo.
Per
visitare
l’insediamento
di
Santa
Cecilia
si
deve
arrivare
in
prossimità
della
cittadina
Bomarzo,
conosciuta
nel
mondo
per
il
celebre
“Parco
dei
Mostri”,
realizzato
nel
XVI
secolo
dalla
famiglia
Orsini.
Dopo
aver
lasciato
la
Statale
675
si
percorre
la
provinciale
S.P.
20
Bomarzese
fino
a
poco
prima
del
cartello
stradale
“Bomarzo”,
dove
è
necessario
fermarsi
in
un
piccolo
spiazzo,
a
destra
della
strada,
dominato
da
un
moderno
serbatoio
per
l'acqua.
Da
questo
punto
in
poi
il
percorso
è
esclusivamente
pedonale
su
una
sterrata
che
conduce
fino
a un
campo
sportivo
di
calcio.
Alla
sinistra
di
questo
inizia
un
altro
sentiero
che
prosegue
in
progressiva
discesa
e
raggiunge,
dopo
circa
quindici
o
venti
minuti
di
cammino,
un’ampia
radura
situata
sul
margine
di
un
profondo
dirupo,
nel
quale
scorre
il
fosso
Castello
o
fosso
del
Rio.
Abbarbicato
dalla
parte
opposta
del
dirupo
si
trova
il
paese
di
Chia.
Il
percorso
continua
all’interno
di
una
“via
cava”,
una
tortuosa
strada
realizzata
in
epoca
etrusca,
che
conduce
a un
gigantesco
masso
isolato,
accuratamente
lavorato
dall’uomo
per
essere
utilizzato
come
abitazione
o
riparo
per
animali.
Percorsi
ancora
pochi
passi
si
giunge
nella
località
denominata
Santa
Cecilia,
localmente
conosciuta
come
Cimitero
Vecchio.
Nell’area,
quasi
interamente
coperta
dalla
vegetazione,
si
trovano
numerosi
manufatti
dispersi
su
un
terreno
in
forte
declivio;
sono
presenti
dei
massi
con
cavità
regolari,
pilastri
monolitici
e
materiale
pertinente
a
strutture
murarie.
Nel
mezzo
di
tale
area
emergono
i
resti
di
una
piccola
chiesa,
edificata
su
una
piattaforma
tufacea
spianata
artificialmente
e
circondata
da
una
serie
di
sarcofagi
disposti
tutto
intorno.
Sul
piano
si
distingue
la
pianta
dell’edificio
religioso
a
una
sola
navata,
con
l’ingresso
orientato
a
ovest.
Durante
gli
scavi
archeologici
effettuati
negli
anni
’70
furono
rinvenuti
vari
elementi
architettonici:
dei
frammenti
parietali
decorati
con
motivi
animali,
archi
dentellati,
pulvini
e
capitelli,
tipicamente
di
fattura
romanica,
ora
conservati
all’Antiquarium
di
Soriano
nel
Cimino.
In
seguito
alla
scoperta
di
tali
reperti,
la
datazione
della
chiesa
fu
fissata
intorno
al
XII
secolo.
Un’altra
conferma
di
questa
datazione
proviene
dal
ritrovamento
di
una
moneta
in
argento,
detta
Provisino,
databile
al
1184-1250.
Nel
corso
degli
scavi,
però,
furono
rinvenuti
altri
importanti
elementi
che,
per
la
loro
tipologia,
retrodatano
anche
di
diversi
secoli
questo
insediamento.
Le
indagini
archeologiche
misero
in
luce
un
edificio
più
antico,
anch’esso
ad
aula
unica,
inglobato
in
quello
romanico,
scavato
direttamente
nel
banco
di
tufo
e
composto
da
una
piattaforma
leggermente
rialzata
che
coincide,
all’incirca,
con
l’area
absidale
dell’edificio
più
recente.
Anche
i
numerosi
sarcofagi
(figura1)
sono
cronologicamente
pertinenti
alla
prima
chiesa.
.
Figura
1.
Sepolture
a
Santa
Cecilia
Tali
sepolture
sono
di
due
tipologie:
la
prima
è
rappresentata
dai
cosiddetti
sarcofagi
“a
vasca”,
realizzati
lavorando
l’interno
di
un
blocco
monolitico
di
pietra,
mentre
la
seconda
consiste
nello
scavo
di
una
fossa
direttamente
nel
terreno.
Entrambe
sono
realizzate
con
una
poco
diffusa
morfologia
antropomorfa,
che
segue
la
sagoma
del
defunto,
una
caratteristica
definita
“a
logette”.
Nel
Lazio,
una
tale
tipologia
funeraria
si
ritrova
nel
sito
di
Corviano,
a
Palazzolo
(presso
Vasanello),
a
Nepi
all’interno
della
chiesa
di
San
Biagio,
a
Norchia
in
prossimità
della
chiesa
di
San
Pietro
e
Viterbo
nella
chiesa
di
San
Giovanni
in
Zoccoli.
Le
sepolture
“a
logette”
sono
diffuse
anche
in
Africa
settentrionale,
nel
meridione
della
Francia
e in
Spagna,
e
coprono
un
arco
temporale
che
va
dal
VII
al
IX
secolo.
Durante
gli
scavi
archeologici,
inoltre,
furono
ritrovati
diversi
mattoni
provenienti
da
costruzioni
del
periodo
romano,
come
dimostrano
i
bolli
riferibili
al
II
secolo
d.C.
e
numerosi
frammenti
di
tegole.
Nell’area
sono
anche
presenti
dei
manufatti
la
cui
funzione
è
difficilmente
riconducibile
a
qualcosa
di
conosciuto;
troviamo,
infatti,
un
enorme
masso
lavorato,
(figura
2)
variamente
definito
come
tempio
megalitico,
luogo
sacro
o
altare
rupestre.
Questa
imponente
costruzione
è
realizzata
su
vari
livelli:
si
distingue
una
rampa
che
parte
dal
terreno
e
arriva
a un
livello
superiore
situato
a
poco
meno
di
due
metri
di
altezza.
Questo
spazio
è
delimitato
da
una
parete
di
fondo
di
forma
triangolare,
dai
resti
di
una
parete
laterale
e
sulla
parte
frontale
da
un
pilastro
monolitico,
a
sezione
quadrilatera,
alto
circa
tre
metri.
In
un
altro
masso,
posto
in
alto,
la
sommità
è
stata
spianata
in
modo
da
lasciare
una
sorta
di
parapetto
roccioso
tutt’intorno,
in
modo
da
costituire
la
base
d’appoggio
al
muro
perimetrale
di
un’abitazione.
.
Figura
2.
Costruzione
megalitica
dell'insediamento
di
Santa
Cecilia
Vi
sono,
poi,
altri
massi
con
vasche
e
pestarole,
nicchie,
loculi
e
solchi
per
la
canalizzazione
delle
acque.
Sono
presenti
diversi
pilastri
monolitici
frammentari,
in
maggioranza
riuniti
in
un
unico
complesso
dalla
funzione
ancora
da
chiarire.
L’assenza
di
documentazione
storica
su
questa
località,
inoltre,
rende
difficoltosa,
per
non
dire
impossibile,
la
ricostruzione
delle
sue
vicende
nel
corso
dei
secoli,
di
certo
sappiamo
che,
dopo
il
Medioevo,
questo
insediamento
fu
progressivamente
abbandonato.
Non
potendo
consultare,
pertanto,
delle
fonti
documentarie,
cercheremo
di
ricostruire
le
sue
vicende
dallo
studio
degli
eventi
storici
avvenuti
in
Italia,
tra
il V
e il
IX
secolo.
Nell’Italia
centrale,
dopo
la
disgregazione
dell’Impero
e
fino
all’età
carolingia,
gran
parte
della
popolazione
era
occupata
nella
coltivazione
della
terra
e
nel
pascolo
degli
animali.
Queste
genti
erano
dislocate
nel
territorio
in
maniera
non
omogenea,
riunite
in
piccoli
nuclei
vicini
a
risorse
idriche
(fiumi
o
torrenti).
In
molti
casi
le
famiglie
contadine
erano
rimaste
legate
ai
resti
di
ville
rustiche
di
età
romana;
in
altri
casi
si
aggregarono
in
prossimità
di
chiesette
rurali
o
eremi
isolati.
Il
villaggio
e la
comunità
contadina
saranno
delle
creazioni
successive.
Non
vi
sono
ancora
strutture
fortificate
destinate
a
difendere
la
popolazione.
È
necessario
arrivare
alle
soglie
dell’anno
Mille
per
assistere
alla
trasformazione
del
paesaggio
rurale,
quando
iniziò
la
costruzione
dei
castelli
e il
conseguente
fenomeno
dell’incastellamento,
in
pratica
la
concentrazione
delle
popolazioni,
prima
disperse
nelle
campagne,
in
un
unico
insediamento
fortificato.
Le
vicende
del
piccolo
abitato
in
località
Santa
Cecilia
possono
essere
ricostruite,
in
gran
parte,
partendo
da
quanto
appena
descritto.
L’insediamento
si
trovava
in
un’importante
zona
di
confine,
posta
tra
il
territorio
di
Volsinii,
sul
lago
di
Bolsena,
l’agro
falisco
e la
valle
tiberina,
e
attraversata
dalla
via
Ferentana,
un
itinerario
etrusco
-
romano
che
transitava
dalla
città
di
Ferentum
fino
ad
arrivare
al
Tevere,
la
grande
“autostrada”
dell’antichità;
una
regione,
quindi,
intensamente
frequentata
fin
dal
periodo
etrusco
da
viandanti,
pellegrini
e
commercianti.
In
quest’epoca
l’insediamento
di
Santa
Cecilia,
probabilmente,
era
un
luogo
dove
si
svolgevano
riti
religiosi,
un
santuario
dedicato
alle
divinità
delle
acque
e
delle
foreste.
In
età
romana
ospitò
un
abitato
stabile
a
vocazione
artigianale.
Dopo
il
declino
dell’autorità
centrale
di
Roma
e il
conseguente
periodo
d’incertezza
sociale,
divenne
un
luogo
sicuro
nel
quale
rifugiarsi
per
le
famiglie
del
contado
circostante.
L’isolamento
di
Santa
Cecilia,
però,
non
sarà
stato
assoluto;
i
suoi
abitanti
avranno
avuto
dei
contatti
con
i
vari
gruppi
etnici,
Goti,
Longobardi,
Bizantini
e
Saraceni,
che
periodicamente
invasero
questo
territorio.
Non
saranno
mancati
di
sicuro
degli
episodi
violenti
ma,
probabilmente,
la
maggior
parte
degli
incontri
furono
pacifici.
Le
stesse
sepolture
a
logette,
ritenute
dagli
studiosi,
in
un
primo
tempo,
opera
di
mercenari
Mauri
al
soldo
dei
Bizantini,
sono
la
testimonianza
di
una
pacifica
convivenza
tra
le
varie
etnie.
Per
realizzare
tali
deposizioni,
tra
le
quali
si
notano
quelle
destinate
a
bambini,
infatti,
è
necessaria
una
lavorazione
accurata
e
non
approssimativa,
come
accade
durante
periodi
storici
caratterizzati
da
guerre
e
saccheggi,
ed
anche
la
loro
disposizione,
in
prossimità
e
all’interno
di
un
edificio
sacro,
è la
dimostrazione
di
una
vita
sociale
relativamente
tranquilla.
Questi
popoli
invasori
si
adattarono
agli
usi
e ai
costumi
delle
popolazioni
locali
e
trasmisero,
a
loro
volta,
i
propri.
Questo
reciproco
trasferimento
di
conoscenze
consentì
la
produzione
di
manufatti
specifici
e
caratteristici
(figura
3),
che
si
innestarono
in
un
processo
di
adattamento
all’ambiente
rupestre
circostante.
In
seguito,
tra
X e
XI
secolo,
anche
in
questa
zona
si
assiste
al
fenomeno,
prima
citato,
dell’incastellamento
con
lo
spostamento
delle
genti
verso
le
più
sicure
roccaforti
di
Bomarzo
e
Soriano
e
l’insediamento
di
Santa
Cecilia
fu
abbandonato.
Per
qualche
tempo
ancora
la
piccola
chiesa
continuò
a
essere
frequentata,
come
dimostrano
le
strutture
del
periodo
romanico,
ma
alla
fine
anch’essa
finì
per
essere
avvolta
dal
bosco
che
ne
nascose
il
ricordo
e ne
serbò
il
segreto
fino
ai
giorni
nostri.
.
Figura
3