.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
|
N. 24 - Dicembre 2009
(LV)
Tutto per un’insalatiera
La gloriosa epopea della Coppa Davis
di Simone Valtieri
Strano
a
dirsi,
ma
il
primo
campionato
del
mondo
per
nazioni
mai
disputato
nella
storia
dello
sport
è
quello
di
una
disciplina
individuale.
L’International Lawn
Tennis
Challenge,
questo
il
primo
nome
della
competizione
tennistica,
risale
all’anno
1900.
Ad
affrontarsi
sono
una
squadra
americana,
selezionata
tra
le
università
di
Boston
e
Harvard,
e
una
formazione
britannica.
L’idea
della
sfida
con
una
squadra
del
vecchio
continente
viene,
nel
1899,
a un
gruppo
di
studenti
iscritti
ai
circoli
tennistici
delle
due
università
bostoniane,
tra
cui
il
più
attivo
è
Dwight
Filley
Davis,
ottimo
giocatore,
che
a
fine
carriera
annovererà
nel
palmares
una
finale
di
singolare
e
tre
titoli
di
doppio
agli
US
Open.
Davis
propugna
una
sfida
tra
i
migliori
tennisti
americani
e
mondiali,
da
disputarsi
con
cadenza
annuale.
Il
premio
in
palio
è
un’insalatiera,
realizzata
con
217
once
d’argento
che,
secondo
la
leggenda,
Dwight
Davis
stesso
consegna
a un
gioielliere
di
Boston
affinché
realizzi,
su
suo
disegno,
il
trofeo.
Il 7
e
l’8
agosto
1900,
al
Longwood
Cricket
Club,
nella
città
del
Massachusetts
gli
Stati
Uniti
sfidano,
con
Davis
in
campo,
i
favoriti
britannici
che
schierano,
tra
gli
altri,
il
finalista
di
Wimbledon
Arthur
Gore.
Il
programma
prevede
già
allora,
in
una
formula
ancora
oggi
in
uso,
due
partite
di
singolare,
una
di
doppio
e
altre
due
di
singolare:
il
primo
team
a
conquistare
tre
incontri
su
cinque
porta
a
casa
il
trofeo.
Nel
primo
incontro
Davis
vince
per
tre
set
a
uno
contro
Ernest
Black,
mentre
nel
secondo
singolare
il
favorito
Gore
si
fa
però
sorprendere
da
Malcom
Whitman.
Gli
Stati
Uniti
sono
già
avanti
2-0,
basta
loro
portarsi
a
casa
il
doppio
per
vincere
in
anticipo
il
trofeo.
Così
avviene:
Davis
ed
il
suo
compagno
Holcombe
Ward,
si
sbarazzano
con
un
triplo
“6-4”
dei
due
britannici
e
conquistano
la
pregiata
insalatiera.
La
rivincita
tra
le
due
nazionali
ha
luogo
a
New
York
due
anni
dopo,
al
Crescent
Athletic
Club
di
Brookyln.
Il
numero
uno
americano
è
sempre
Malcom
Whitman
ma
stavolta
le
Isole
Britanniche
(così
chiamate
perché
rappresentative
anche
dell’Irlanda)
mandano
oltreoceano
la
stella
Reggie
Doherty.
Il
primo
singolare
viene
vinto
da
Whitham
per
3-1
contro
l’irlandese
Joshua
Pim,
ma
Doherty
riesce
a
sconfiggere
William
Larned
al
quinto
game
e a
riportare
in
parità
l’incontro.
Il
doppio,
con
Davis
in
campo,
è
appannaggio
della
fortissima
coppia
di
fratelli
Reg
e
Lawrence
Doherty,
già
cinque
volte
vincitori
a
Wimbledon,
che
ribalta
la
situazione
e
porta
in
vantaggio
gli
ospiti.
Nel
quarto
singolare
Larned
ha
la
meglio
su
Pim
in
tre
set,
così
fa
anche
Whitman
che
riesce
nell’impresa
di
sconfiggere
Doherty
con
lo
stesso
punteggio
e di
confermare
la
vittoria
di
due
anni
prima.
Il
copione
sarà
questo
per
altre
due
edizioni,
con
gli
sfidanti
britannici
sul
suolo
americano
in
cerca
di
gloria.
La
vittoria,
per
mano
dei
fratelli
Doherty,
arriva
nel
1904
e la
coppa
attraversa
per
la
prima
volta
l’oceano
per
finire
nel
Regno
Unito.
Nel
1905
gli
Stati
Uniti
rinunciano
alla
trasferta
e il
nuovo
avversario
per
i
campioni
in
carica
è il
Belgio.
Nella
tradizionale
formula
del
“Challenge”
che
prevede
tornei
di
qualificazione
tra
sfidanti
per
contendere
il
trofeo
ai
detentori,
è la
formazione
fiamminga
ad
avere
la
meglio
per
3-2
sulla
Francia
di
Max
Decugis
e
Paul
Aymé,
ed a
garantirsi
il
posto
in
finale.
La
Gran
Bretagna
però
conserverà
il
trofeo
con
un
netto
5-0,
così
come
l’anno
seguente,
stavolta
sui
tradizionali
rivali
statunitensi,
emersi
da
un
girone
di
qualificazione
di
cinque
nazionali.
Nel
1907
la
Davis
è
dell’Australasia,
rappresentativa
comprensiva
di
giocatori
australiani
e
neozelandesi,
specialisti
nel
gioco
sull’erba.
Da
lì
in
poi
e
per
venti
anni,
due
sole
squadre
(con
l’eccezione
della
Gran
Bretagna
nel
1912)
conteranno
le
vittorie
nel
torneo:
Australia
e
Stati
Uniti.
Nel
1923
si
registra
il
primo
grande
cambiamento
nella
formula
del
torneo
e il
tabellone
degli
sfidanti
viene
diviso
in
due
zone,
una
americana
e
una
europea,
le
nazioni
vincitrici
dei
due
tabelloni
giungevano
poi
ad
una
finale
“interzona”
che
qualificava
alla
partita
decisiva
contro
la
squadra
detentrice.
Il
duello
al
vertice
tra
americani
e
australiani
vivrà
una
pausa
di
dieci
anni
tra
il
1927
ed
il
1936.
È il
decennio
dei
quattro
moschettieri
francesi:
Jean
Borotra,
Henri
Cochet,
Jacques
Brugnon
e
René
Lacoste
vincono
il
trofeo
per
sei
anni
consecutivi,
cedendolo
poi
ai
britannici
guidati
da
Fred
Perry
per
i
quattro
successivi.
In
realtà
all’epoca
era
molto
meno
complicato
di
oggi
portare
a
termine
una
lunga
striscia
di
vittorie
nel
torneo,
grazie
alla
struttura
del
formato
“Challenge”.
La
squadra
detentrice
del
torneo
aveva,
oltre
al
vantaggio
di
giocare
in
casa,
anche
quello
non
indifferente
di
poter
scegliere
la
superficie
di
gioco
più
idonea
alle
caratteristiche
dei
propri
giocatori.
In
pratica
fino
al
1972,
anno
di
abolizione
della
formula,
era
una
vera
e
propria
impresa
strappare
la
coppa
ai
rivali.
Dal
1937
riprende
il
predominio
di
Australia
e
Stati
Uniti.
I
due
team
non
solo
si
divideranno
le
vittorie,
ma
giocheranno
tutte
le
finali
fino
al
1959.
Sono
gli
anni
più
fulgidi
del
torneo,
che
dal
1945,
dopo
la
morte
di
Dwight
Davis,
sarà
conosciuto
con
il
suo
nome.
I
trentacinquemila
spettatori
che
assiepano
gli
spalti
a
Sydney,
per
la
finale
del
1954,
stabiliscono
un
primato
ancora
oggi
non
superato.
Ormai
da
qualche
decennio
in
mano
alla
federazione
internazionale
(ITF),
la
Coppa
Davis
vede
in
campo
per
ogni
edizione
i
migliori
giocatori
del
mondo:
Don
Budge,
Jack
Cramer,
Ted
Schroeder,
Pancho
Gonzales,
Vic
Seixas
da
una
parte
e
Adrian
Quist,
John
Bromwich,
Frank
Sedgman,
Ken
Rosewall
e
Lewis
Hoad
dall’altra,
si
contenderanno
l’insalatiera
d’argento
per
tre
lustri,
prima
che,
con
la
lenta
ma
inesorabile
ascesa
del
professionismo
e il
sempre
maggiore
interesse
nei
tornei
dello
slam,
la
Davis
Cup
perderà
gradatamente
lo
status
di
più
ricco
torneo
tennistico.
Nel
1960
a
spezzare
la
serie
interminabile
di
finali
austro-americane
sarà
l’Italia
di
Nicola
Pietrangeli
ed
Orlando
Sirola
che
si
qualifica
per
il
cosiddetto
“Challenge
round”
superando
per
3-2
proprio
gli
Stati
Uniti
nella
finale
“interzona”.
Nulla
potrà
però
la
formazione
azzurra
in
quel
di
Sydney
contro
i
fortissimi
canguri
“erbivori”
Rod
Laver,
Roy
Emerson
e
Neale
Fraser
che
lasceranno
ai
rivali
un
solo
punto,
nell’ultimo
ininfluente
singolare
tra
Pietrangeli
e
Fraser.
L’Italia
non
è un
fuoco
di
paglia
e
l’anno
seguente
si
qualifica
nuovamente
per
la
finale
australiana,
rimediando
però
una
batosta
ancora
maggiore:
5-0
a
Melbourne
per
gli
erbaioli
padroni
di
casa
e
nessuno
scampo
per
Pietrangeli
e
Sirola
che
pur
si
erano
ben
comportati
nelle
qualificazioni
sconfiggendo
per
4-1
gli
statunitensi.
Gli
anni
Sessanta
sono
un
decennio
di
apertura
al
mondo
per
il
trofeo,
che
vede
affacciarsi
nuove
realtà
come
la
Spagna
di
Manolo
Santana
e
Manuel
Orantes,
il
Messico
di
Rafael
Osuna,
l’India
e la
Romania
di
Ilie
Nastase
e
Ion
Tiriac.
La
coppa
però
arride
sempre
ai
soliti
noti:
Australia
e
Stati
Uniti.
Il
1972
rappresenta
un
anno
di
cambiamenti
nella
formula,
il
“Challenge”
viene
meno
e i
campioni
in
carica
saranno
costretti
ad
un
turno
di
semifinale
prima
di
poter
difendere
il
trofeo.
Alla
finale
arrivano
Stati
Uniti
e
Romania,
di
fronte
per
la
terza
volta
in
quattro
anni,
stavolta
però
in
casa
dei
rumeni.
Tutto
è
pronto
a
Bucarest
per
la
trappola
tesa
agli
statunitensi,
messi
in
difficoltà
più
dagli
arbitri
e
dal
pubblico
che
dai
giocatori
in
campo.
Stan
Smith,
il
giocatore
americano
più
rappresentativo,
supera
in
tre
set
nel
primo
incontro
l’idolo
di
casa
Ilie
Nastase.
Tiriac
riporterà
in
parità
l’incontro
ma
il
doppio
e la
seconda
vittoria
di
Smith
contro
lo
stesso
Tiriac,
consegneranno
il
trofeo
agli
Stati
Uniti.
A
nulla
serve
l’ultimo
punto
di
Nastase
contro
Tom
Gorman,
che
fissa
il
risultato
finale
sul
3-2.
Da
quel
match
in
poi
il
fuoriclasse
rumeno
sarà
accusato
in
patria
di
aver
venduto
la
coppa
ai
“capitalisti”
americani,
avendo
dato
l’impressione
di
non
giocare
al
meglio
delle
sue
capacità.
Fino
al
1973
l’insalatiera
più
famosa
del
mondo
era
stata
vinta
solamente
da
quattro
Paesi,
gli
stessi
che
non
a
caso
ospitano
gli
“slam”,
ossia
i
quattro
tornei
più
prestigiosi
del
mondo.
Dal
1974
però
la
coppa
inizia
a
viaggiare
verso
altri
lidi.
Il
trofeo
di
quell’anno
è il
solo
nella
storia
di
tutta
la
manifestazione
a
essere
stato
assegnato
a
tavolino,
vista
la
rinuncia
dell’India
a
recarsi
in
Sud
Africa,
dove
vigeva
il
regime
di
apartheid.
Se
il
Sud
Africa
vince
paradossalmente
a
causa
del
razzismo,
nel
1975
la
Svezia
vince
grazie
a
Björn
Borg.
Il
trionfo
della
nazionale
scandinava
(3-2
in
finale
contro
la
Cecoslovacchia)
denuncia
i
limiti
di
una
manifestazione
forse
troppo
ferma
nei
suoi
schemi
tradizionali.
In
taluni
casi
,infatti,
la
storia
dimostra
che
a
vincere
la
Coppa
Davis
non
è la
nazione
che
esprime
il
movimento
tennistico
più
forte,
ma
quella
col
giocatore
migliore.
Alla
Svezia
basta
avere
un
fuoriclasse,
Borg
appunto,
che
porta
a
casa
i
due
singolari
e il
doppio
con
il
modesto
Ove
Bengtson,
per
vincere
il
trofeo.
Nella
seconda
metà
dei
Settanta
inizia
la
piccola
epopea
azzurra.
Sono
quattro
le
finali
raggiunte
dagli
italiani
in
cinque
anni,
anche
se
l’unica
vinta
rimane
quella
del
1976
contro
il
Cile.
In
Sud
America
l’Italia
neanche
ci
sarebbe
dovuta
andare,
vista
la
contrarietà
espressa
dal
governo
a
giocare
contro
la
nazione
del
dittatore
Pinochet.
Grazie
però
all’opera
di
convincimento
nei
confronti
dell’opinione
pubblica
e
soprattutto
del
governo,
portata
avanti
dalla
federazione
e in
prima
persona
da
Nicola
Pietrangeli,
capitano
non
giocatore
dell’Italia,
alla
fine
in
Cile
si
andò.
Sarebbe
stato
un
peccato
non
cogliere
un’occasione
tanto
ghiotta,
a
cui
si
era
arrivati
sconfiggendo
gli
australiani
sulla
terra
rossa
del
Foro
Italico.
La
vittoria
di
Adriano
Panatta,
Corrado
Barazzutti,
Paolo
Bertolucci
ed
Antonio
Zugarelli
per
4-1
sul
Cile
di
Jaime
Fillol
e
Patricio
Cornejo,
rimarrà
ad
oggi
l’unica
ottenuta
dagli
azzurri.
La
Coppa
Davis
diventa
in
quegli
anni
l’appuntamento
tennistico
preferito
dagli
italiani,
più
avvezzi
agli
sport
di
squadra
che
a
quelli
individuali.
Gli
anni
seguenti,
infatti,
l’Italia
sarà
protagonista
di
tre
finali
perse,
la
più
sfortunata
delle
quali
è
sicuramente
quella
del
1980
a
Praga
contro
la
Cecoslovacchia.
Oltre
a
dover
giocare
contro
un
campione
del
calibro
di
Ivan
Lendl,
gli
azzurri
se
la
dovettero
vedere
contro
l’arbitro,
tale
Bubenik,
che
già
dal
primo
match
tra
Panatta
e
Smid
influì
pesantemente
sul
risultato
prendendo
decisioni
ai
limiti
del
ridicolo.
La
finale
finirà
4-1
per
la
Cecoslovacchia
e
l’Italia,
dopo
aver
perso
anche
le
finali
del
1977
con
l’Australia
e
del
1979
con
gli
imbattibili
Stati
Uniti
di
John
McEnroe
e
Vitas
Gerulaitis,
dovranno
aspettare
altri
diciannove
anni
prima
di
poterci
riprovare.
Negli
anni
Ottanta
il
trofeo
diventa
meno
esclusivo,
con
nuove
nazioni
che
si
affacciano
alla
ribalta.
Inizia
inoltre,
dal
1981,
l’era
contemporanea
della
Davis,
con
l’istituzione
del
“World
Group”,
formato
dalle
migliori
16
nazioni
del
ranking
che
si
affrontano
in
quattro
turni
ad
eliminazione
diretta.
I
primi
a
vincere
sono
gli
Stati
Uniti
di
John
McEnroe,
stella
di
prima
grandezza
che
contribuisce
ai
successi
del
1978,
1979,
1981
e
1982.
Poi
la
“pallina”
passerà
all’Europa,
con
la
Svezia
di
Mats
Wilander
presente
in
sette
finali
consecutive
dal
1983
al
1989,
due
delle
quali
perse
contro
la
Germania
Ovest
del
giovanissimo
Boris
“bum
bum”
Becker.
E’
del
1984
il
risultato
più
sorprendente
portato
a
casa
dai
nordici,
quando
si
trovano
a
dover
fronteggiare
la
coppia,
sulla
carta
imbattibile,
formata
da
McEnroe
e da
Jimmy
Connors.
Sulla
terra
rossa
di
Goteborg
però
la
storia
è
ancora
tutta
da
scrivere
e a
prendersi
la
briga
di
farlo
sono,
prima
Wilander,
3-0
su
Connors,
poi
il
sorprendente
Henrik
Sundström,
che
fa
fuori
in
tre
set
il
numero
uno
del
mondo
John
McEnroe.
A
completare
l’opera
ci
pensa
poi
il
doppio
composto
da
Edberg
e
Järryd,
anch’esso
vincitore
a
sorpresa
contro
i
più
quotati
Fleming
e
McEnroe.
In
quel
decennio
va
segnalata
anche
la
presenza
dell’Australia,
che,
seppur
priva
di
fuoriclasse,
riesce
ad
aggiudicarsi
il
trofeo
in
due
occasioni
e
sempre
sulla
Svezia,
nel
1983
e
nel
1986,
grazie
soprattutto
a
Pat
Cash
e
John
Fitzgerald.
Gli
anni
Novanta
invece
si
aprono
con
quella
che
viene
ricordata
da
tutti
come
la
più
grande
sorpresa
della
Storia
della
Davis.
In
finale,
a
Lione,
nel
1991
ci
sono
i
campioni
in
carica
degli
Stati
Uniti
con
i
giovani
fenomeni
André
Agassi
e
Pete
Sampras.
Se
il
tennis
fosse
matematica
i
due
francesi
Guy
Forget,
tra
l’altro
non
al
meglio
per
via
di
problemi
alla
schiena,
ed
Henri
Leconte
non
avrebbero
speranze.
Nella
realtà
però
le
motivazioni
fornite
loro
dal
coach
Yannick
Noah,
la
spinta
calorosa
del
pubblico
e la
superficie
in
terra
battuta,
poco
gradita
ai
due
yankees,
faranno
il
miracolo.
Agassi
batte
Forget
nel
primo
singolare.
Subito
dopo
però
Sampras
stecca
e
Leconte
porta
in
parità
il
risultato.
Il
doppio
americano
è
poca
cosa
di
fronte
alle
motivazioni
dei
due
francesi
e
nel
primo
singolare
della
giornata
finale,
Sampras
non
riesce
ad
avere
la
meglio
su
un
fantastico
Guy
Forget
che
porta
a
casa
in
quattro
set
il
punto
decisivo.
La
Francia
è
campione
del
mondo
contro
ogni
pronostico.
Gli
Stati
Uniti
si
rifanno
l’anno
successivo
con
André
Agassi
e
Jim
Courier
e
dopo
un
intervallo
di
due
anni,
in
cui
nell’albo
d’oro
si
iscriveranno
Germania
e
Svezia,
vinceranno
a
Mosca
contro
la
Russia.
Dopo
quel
successo
del
1995,
contro
una
squadra
completa
composta
da
Evgeny
Kafelnikov,
Andrej
Chesnokov
e
Andrej
Olhovskiy,
Pete
Sampras,
l’artefice
della
vittoria,
resterà
deluso
e
parteciperà
solo
saltuariamente
alle
edizioni
future
della
Coppa.
Il
motivo
è
spiegato
da
una
sua
dichiarazione:
“Sono
tornato
negli
Stati
Uniti
ma
nessuno
si
era
accorto
che
avevo
vinto
la
Coppa
Davis”.
La
frase
è
rivelatrice:
se
gli
Stati
Uniti
non
avessero
snobbato
l’insalatiera
d’argento
negli
anni
Novanta,
ne
avrebbero
probabilmente
conquistate,
visti
i
valori
di
cui
disponevano,
dieci
consecutive.
Nel
1998
a
Milano,
al
Forum
di
Assago
dove
per
l’occasione
viene
allestito
il
campo
di
terra
rossa,
si
presentano
i
campioni
in
carica
della
Svezia
contro
l’Italia.
E’
la
prima
volta
che
l’Italia
ospita
una
finale
di
Coppa
Davis
e il
clima
è di
assoluta
festa.
Negli
anni
Novanta
la
nazionale
di
tennis
azzurra
aveva
rialzato
la
testa
dopo
un
decennio
buio,
e
già
nel
1990
si
era
concessa
il
lusso
di
eliminare
al
primo
turno,
sulla
terra
rossa
di
Cagliari,
la
Svezia
campione
in
carica
di
Mats
Wilander,
grazie
ad
un
incontenibile
Paolo
Cané.
Quindi,
nel
1996
e
nel
1997,
l’Italia
aveva
raggiunto
per
due
volte
la
semifinale,
perdendo,
sempre
in
trasferta,
rispettivamente
contro
la
Francia
e la
Svezia,
in
entrambi
i
casi
le
formazioni
che
si
sarebbero
poi
aggiudicate
la
coppa.
Nel
1998
l’Italia
era
reduce
dal
trionfo
di
Milwaukee
per
4-1
sugli
Stati
Uniti
di
Todd
Martin
e si
apprestava
al
sogno
di
vincere
la
sua
seconda
insalatiera.
Ma
un
sogno,
si
sa,
può
repentinamente
trasformarsi
in
un
incubo
ed è
quello
che
accade
sul
al
quinto
set
del
primo
singolare,
sul
punteggio
di
6-6
tra
Andrea
Gaudenzi
e lo
svedese
Magnus
Norman.
La
spalla
del
faentino
Gaudenzi
fa
crack,
e
proprio
a
due
passi
dall’impresa
l’Italiano
è
costretto
a
gettare
la
spugna.
Andrea
torna
in
campo
eroicamente
per
farsi
prendere
a
“pallate”
nel
“tie
break”,
con
una
mano
fuori
uso,
ma
non
serve
a
nulla.
Nel
Forum
cala
il
gelo
e il
primo
a
consolare
l’italiano
è
l’avversario
Norman,
sinceramente
deluso
di
concludere
in
tal
modo
un
match
entusiasmante.
La
finale
finisce
4-1
per
la
Svezia
e
l’Italia
inizia
un
rapido
declino
che
la
porterà
ad
uscire
nel
2000
dal
“World
Group”
ed a
vagare
fino
ai
giorni
nostri
nel
limbo
della
“serie
B”
della
Davis,
senza
più
riuscire
a
qualificarsi
nel
tabellone
principale.
Il
nuovo
millennio
è
foriero
di
cambiamenti
nella
geografia
del
tennis
mondiale.
Pato
Alvarez,
coach
spagnolo,
è
tra
i
maggiori
artefici
della
crescita
di
un
movimento,
quello
iberico,
e
della
sua
uscita
dal
provincialismo
al
quale
era
condannato
perché
dedito
unicamente
alla
terra
rossa.
La
Spagna,
con
la
regolarità
di
un
orologio
svizzero,
si
aggiudica
un
titolo
ogni
quattro
anni.
L’ultimo,
quello
del
2008,
è il
più
importante,
perché
se
nel
2000
era
stato
il
“terraiolo”
Juan
Carlos
Ferrero
a
portare
gli
iberici
al
trionfo
e
nel
2004
il
bis
era
arrivato
grazie
ai
due
campioni
Carlos
Moya
e al
giovanissimo
Rafael
Nadal,
nel
2008
la
vittoria
è
frutto
della
crescita
di
un
movimento.
Si
gioca
nella
tana
dell’Argentina,
a
Mar
del
Plata,
su
una
superficie
veloce
e
con
un
clima
da
corrida.
Forse
per
questo
gli
ispanici
si
esaltano
e
con
gli
ottimi
Feliciano
Lopez
e
Fernando
Verdasco
ribaltano
una
situazione
messasi
male
al
primo
incontro
con
la
sconfitta
di
David
Ferrer
da
parte
di
David
Nalbandian.
In
un
clima
analogo
arriva
anche
il
primo
successo
russo,
dopo
due
finali
casalinghe
perse.
Nel
2002
infatti,
nella
bolgia
di
Parigi,
Marat
Safin
e
compagni
conquisteranno
la
coppa
al
quinto
gioco
del
quinto
match,
grazie
alla
vittoria
del
giovane
Mikhail
Youzhny
su
Paul
Henri
Mathieu.
Il
guascone
Safin,
che
definirà
“animalesco”
il
pubblico
di
Parigi,
farà
parte
anche
del
secondo
successo
russo,
nel
2006,
per
3-2
sull’Argentina,
ma
non
della
débacle
in
finale
l’anno
successivo
contro
i
non
irresistibili
americani.
La
Coppa
Davis
è
ancora
oggi
la
massima
competizione
a
squadre
del
tennis
mondiale,
affiancata
nel
1963
dalla
Federation
Cup,
una
versione
al
femminile,
e
nel
1989
dalla
Hopman
Cup,
che
vede
la
partecipazione
di
squadre
miste.
In
tutta
la
sua
storia,
il
mitico
trofeo
ha
visitato
le
bacheche
di
dodici
nazioni
diverse,
l’ultima
delle
quali,
la
Croazia
del
bombardiere
Ljubicic
e
dello
spilungone
Ancic,
nel
2005.
In
finale
quell’anno
ci
arrivò
la
Slovacchia,
altra
nazione
emergente
in
un
panorama
oggi
molto
vasto
e
che
comprende,
tra
categorie
e
raggruppamenti,
oltre
130
Paesi.
Oggi
la
coppa,
che
per
quasi
75
anni
è
stata
oggetto
di
una
disputa
privata
tra
le
quattro
nazioni
storiche
della
racchetta,
è
ambita
da
un
numero
sempre
maggiore
di
nazionali
che
possono
sperare,
se
il
dio
del
tennis
li
benedice
con
la
nascita
di
almeno
un
campione,
di
conquistarla.
Questa
sua
caratteristica
di
rimanere
aperta
alla
vittoria
anche
per
una
selezione
che
non
necessariamente
è
espressione
della
migliore
scuola,
resta
figlia
di
una
storia
ultrasecolare
e di
una
tipologia
di
confronto,
quella
sui
quattro
singolari
e un
doppio,
mai
evolutosi
in
109
anni.
È
probabilmente
per
questo
motivo
che
ancora
oggi
centinaia
di
tennisti
si
danno
battaglia
nei
quattro
weekend
dedicati
alla
Davis
ogni
anno,
con
la
speranza
di
poter
un
giorno
sollevare
al
cielo
un’insalatiera
d’argento
e
rendere
per
questo
fiero
un
intero
popolo.
|
|
|
GBe
edita e pubblica:
.
-
Archeologia e Storia
.
-
Architettura
.
-
Edizioni d’Arte
.
- Libri
fotografici
.
- Poesia
.
-
Ristampe Anastatiche
.
-
Saggi inediti
.
.
InStoria.it
|