[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

174 / GIUGNO 2022 (CCV)


moderna

LA CRUZ DEL QUEMADERO

LA MEMORIA DELL’INQUISIZIONE A MADRID

di Valeria La Donna

 

Il 12 aprile del 1869, il Boletín Oficial del Ayuntamiento, quotidiano locale della città di Madrid, informava i propri lettori di un ritrovamento agghiacciante avvenuto nel nuovo Ensanche urbano. Era, questo, un terreno nella zona nord e nord-est del centro abitato che, all’epoca, era in pieno processo di espansione e i cui lavori febbrili di ampliamento miravano a un incremento della popolazione di circa 150.000 abitanti.

 

La straordinaria scoperta, effettuata durante lo scavo di un grosso appezzamento di terreno, venne preannunciata dal Boletín con un titolo in latino che i lettori dell’epoca erano ancora capaci di riconoscere alla perfezione, il vecchio lemma dell’Inquisizione spagnola: «EXURGE DOMINE ET JUDICA CAUSAM TUAM (“Alzati, Signore, e giudica la tua causa”). Il caso ha appena rivelato un’orribile impronta dell’oscuro tribunale che aveva questo terribile motto. Ai margini della calle Ancha de San Bernardo […], in un luogo conosciuto come la Cruz del Quemadero, ed indicato in antiche opere e scritture come il braciere degli Autodafé, nel creare delle radure per regolarizzare la pendenza e allineare la Ronda a quella che era la porta di Bilbao, sono apparsi grandi strati neri di terreno, orizzontali, irregolari, fino a 150 piedi di longitudine. […] È, in poche parole, l’archivio geologico delle fiamme dell’Inquisizione, sotto forma di strati sedimentari che dimostrano la crescita, l’apogeo e il decadimento dei roghi, a seconda delle loro dimensioni. Questi sono di carbone polverizzato, untuoso, e tra di essi vi si trovano anche ossa e pezzi di corda carbonizzata» [Boletín Oficial del Ayuntamiento, 1869].

 

Le ricerche effettuate nei giorni successivi portarono alla luce ulteriori resti di quello che era stato chiaramente un incendio di proporzioni considerevoli: pezzi di legno, anelli di ferro, un cranio, un bavaglio. Tutto più o meno carbonizzato. Vennero inoltre dissotterrati un lungo ciuffo di capelli, di appartenenza femminile, nonché piccole porzioni di materiale adiposo che cedevano al tatto come se fossero burro.

 

Quanto ipotizzato a prima vista, pertanto, trovò ben presto conferma certa: i macabri ritrovamenti tra gli scavi altro non erano che il frutto della combustione di decine di corpi carbonizzati dal fuoco dei roghi purificatori della Santa Inquisizione; e il campo de la Cruz del Quemadero, il luogo principale in cui essa ne dispose lo smaltimento.

 

A partire dal 1624, anno in cui venne realizzato il primo autodafé a Madrid, infatti, furono molte le persone consegnate alla giustizia secolare in città, per poi essere condannate a morte. Prima di quella data, le proclamazioni solenni delle sentenze dell’Inquisitore, seguite dalle condanne al rogo degli eretici, venivano eseguite nella vicina Toledo, l’unica tra le due a essere provvista di un Tribunale del Sant’Uffizio.

 

Il fatto che la Corte avesse stabilito la sua sede a Madrid fu una circostanza che risultò essenziale per la formazione di un nuovo Tribunale con giurisdizione sulla città e, ben presto, durante il regno di Filippo IV – in pieno Siglo de Oro – esso divenne il quartier generale del Sant’Uffizio, incaricato di riesaminare i casi e di dare istruzioni a tutti gli altri tribunali inquisitoriali della penisola.

 

Fu anche il momento in cui la capitale iberica entrò nel suo periodo più oscuro, diventando lo scenario di violenze, crimini e orrori che si sarebbero perpetrati per oltre 200 anni, fino alla scomparsa definitiva dell’Inquisizione nel 1834, durante la reggenza di Maria Cristina di Borbone. Ovvero, appena 30 anni prima dei macabri ritrovamenti presso la Cruz del Quemadero.

 

Tra i vari autodafé svolti a Madrid nel corso dei secoli, ve n’è uno in particolar modo a cui, secondo gli storici, si possono attribuire i resti recuperati nel 1869. Si tratta di una delle cerimonie più conosciute e più spettacolari mai eseguite, coram populo, nella Spagna dell’età moderna, durante la quale vennero condannati ben 120 rei provenienti da ogni angolo del paese: l’autodafé del 30 giugno 1680, sotto il regno di Carlo II.

 

Fu, questo, un doppio catechismo politico e religioso che permise alla monarchia ispanica, da un lato, di recuperare l’antico splendore dopo un periodo di ineluttabile decadenza e al cattolicesimo, dall’altro, di presentarsi come nemico del protestantesimo, dell’islamismo e dell’ebraismo, personificati nei 120 imputati condannati.

 

L’autodafé doveva diffondere l’insegnamento religioso e propagare gli ideali della Controriforma elaborati durante il Concilio di Trento nella seconda metà del XVI secolo, diventando così luogo di protezione e difesa dei contenuti della fede e delle forme di culto attaccate dai seguaci del luteranesimo. E Carlo II, investito di una missione provvidenziale, doveva essere un nuovo Cesare, forte e valoroso, cui spettava addomesticare i mostri dell’infedeltà e riparare i torti fatti a Dio e alla Chiesa cattolica.

 

Attraverso questo atto solenne, l’Inquisizione contava quindi di esaltare la missione provvidenziale del Sant’Uffizio all’interno dell’apparato statale. Ma non solo. Con il tempo aveva finito per perseguire anche altri tipi di condotte, come i delitti contro la morale sessuale, la stregoneria, la sodomia, le arti magiche e divinatorie.

 

Oltre a essere un discorso politico e religioso, però, l’autodafé era anche una questione culturale. Formava parte delle grandi feste classiche spagnole, così come le cerimonie di ingresso dei principi, le sfilate del Corpus Domini, le processioni votive, ecc. Era spettacolo, rappresentazione, teatro, divertimento, un misto di festa liturgica e festa civile che creava grandi aspettative tra la popolazione. Motivi per cui era necessario organizzare qualcosa di grandioso, eclatante, memorabile.

 

Lo spettacolo, di cui si conoscono tutti i particolari grazie al resoconto dettagliato che José de Olmo scrisse nella sua Relación histórica del auto general de fe que se celebró en Madrid este año de 1680, venne preannunciato già un mese prima attraverso la pubblicazione di un bando e del vessillo del Sant’Uffizio che rimase appeso al balcone dell’inquisitore generale fino al giorno dell’esecuzione.

 

Tre anni più tardi, il pittore Francisco Rizi volle darci ulteriore testimonianza dell’evento dipingendo il famoso quadro Auto de fe del 30 de junio de 1680, en la plaza Mayor de Madrid, conservato oggi al Museo del Prado, che riproduce, fedelmente e con precisione storica, la disposizione di autorità, assistenti e detenuti durante la luttuosa commemorazione.

 

 

È proprio grazie al racconto di de Olmo se siamo venuti a conoscenza dell’ubicazione del brasero che, 200 anni dopo, avrebbe rivisto la luce durante gli scavi del nuovo Ensanche urbano. Ed è sempre grazie al racconto di de Olmo, e alla sua grande dovizia di dettagli, se ci è possibile ricostruire tutti gli accadimenti di quel giorno funereo come se fossimo stati testimoni attivi dell’evento.

 

30 giugno 1680. Non un giorno qualsiasi a Madrid. La città e la Corte erano in agitazione perché quel giorno si sarebbe celebrato uno dei più grandi autodafé mai realizzati prima in Spagna. A presiederlo, il sovrano Carlo II, che avrebbe assistito alla cerimonia dalla tribuna appositamente costruita per l’occasione in Plaza Mayor. Lo spettacolo che stava per svolgersi suscitava in parti uguali rifiuto ed esaltazione tra gli abitanti della Villa che, in trepidante attesa, urlavano “Viva la fede di Cristo!” per le strade affollate della città.

 

Tutto era pronto. Il giorno prima, al crepuscolo, seguendo il rigoroso protocollo che vigeva per l’occasione, si erano svolte le processioni della Cruz Verde (simbolo di misericordia) e della Cruz Blanca (simbolo di giustizia e castigo), la prima diretta a Plaza Mayor, la seconda verso il quemadero di San Bernardo.

 

I condannati si trovavano da giorni nelle carceri del Tribunale, presidiati dalla Compagnia dei Soldati della Fede: 250 uomini appartenenti ai diversi ordini militari, con il compito di accompagnare i detenuti al loro processo e consegnarli al braccio secolare per l’esecuzione delle sentenze. Ad assisterli spiritualmente, due religiosi con l’obiettivo primario di raggiungere il loro pentimento e farli abiurare.

 

Dei 120 condannati, 86 erano presenti in carne e ossa. I restanti 34, invece, erano raffigurati in effigie, sotto forma di fantocci dalle fattezze umane che avrebbero sostituito i colpevoli fuggiti o morti prima del processo affinché le loro anime potessero ricevere il castigo del Sant’Uffizio. Tra i rei presenti, uomini, donne, bambini e famiglie intere con età comprese tra i 13 e i 76 anni, che avrebbero affrontato il processo con l’accusa di ebraismo e, in percentuali minori, di frode, stregoneria, bigamia e altre colpe più leggere.

 

La notte fu lunga e tutti rimasero svegli, tra singhiozzi e preghiere. Alle tre del mattino furono distribuiti gli abiti penitenziali – principalmente corozas e sanbenitos – che erano differenziati a seconda della sentenza emessa. Il sanbenito era una tunica di tela gialla lunga fino alle ginocchia, sulla quale era dipinto il ritratto del condannato che la indossava in mezzo a fiamme, draghi e diavoli. Questo costume – destinato ai cosiddetti pertinaces – indicava che chi lo portava sarebbe stato bruciato vivo, poiché eretico incorreggibile. Diverso era invece il sanbenito per i penitenti convertiti, con fiamme rivolte verso il basso, e quello dei condannati a una semplice penitenza, su cui era raffigurata una croce. La coroza era infine un cappello di cartone a forma conica, lungo quasi un metro, su cui, analogamente al sanbenito, erano rappresentati croci, fiamme o draghi, in base al verdetto emanato.

 

Alle sette del mattino ebbe inizio la processione che dalle carceri condusse i condannati lungo le vie principali della città per fare pubblica ammenda. Con le loro vesti penitenziali indosso e con in mano delle candele gialle spente, a simboleggiare la loro anima impura, ricorsero le strade tra lanci di pietre e offese, per giungere infine a Plaza Mayor:

 

«I primi trentaquattro rei sotto forma di fantocci, perché già morti o fuggitivi, dei quali trentadue erano relajados (cioè consegnati al braccio secolare, ovvero alla giustizia civile, per l’esecuzione delle sentenze pronunciate dagli inquisitori), indossavano corozas con fiamme […]. Tra i colpevoli che uscirono a piedi, undici erano stati incarcerati con abiura de levi, alcuni per essersi sposati due volte, altri per superstizione, altri per essere ipocriti imbroglioni, e tutti con candele gialle spente in mano. Gli imbroglioni e i bigami portavano corozas, qualcuno tra di loro anche una corda alla gola, con tanti nodi quante erano le frustate a cui erano stati condannati […]. C’erano poi cinquantaquattro rei giudaizzanti, tutti con sanbenitos con croce a metà o intera, e con candele come i precedenti. Infine uscirono i ventuno rei condannati al rogo, tutti con coroza e sanbenito con le fiamme, con draghi tra di esse per i pertinaces, e dodici tra di loro con i bavagli alla bocca e le mani legate (per evitare che, durante la loro marcia pubblica, diventassero violenti, proferissero blasfemie o insultassero il tribunale)» [De Olmo 55-56].

 

Una volta a Plaza Mayor, i condannati furono condotti in fila fino all’imponente pedana su cui svettava la monumentale Croce Verde, emblema dell’Inquisizione spagnola. A presiedere il processo dal balcone reale, il sovrano Carlo II, la consorte Maria Luisa d’Orléans e la regina madre, attorniati da gentiluomini e dame della corte, nobili ed ecclesiastici che trovarono sistemazione sui balconi vicini. Il rumore era assordante. La piazza era gremita di gente comune che, eccitata, non smetteva di insultare gli imputati e invocare giustizia.

 

Una volta cominciata la messa e pronunciato il sermone, il silenzio calò tra la folla. Il Sovrano fece il suo giuramento, promettendo sulla sua parola reale che avrebbe difeso strenuamente la fede cattolica, perseguitando gli eretici e castigando, conformemente ai diritti e ai sacri canoni, chiunque le si fosse opposto.

 

A questo punto, l’Inquisitore generale, Don Diego Sarmiento de Valladares, diede inizio alla parte più lunga della cerimonia: la lettura delle cause e delle pene. Uno alla volta, i detenuti, o la loro effigie, vennero condotti nelle gabbie poste al centro del palco dove, dopo un’accurata disamina delle colpe, sarebbero stati poi consegnati alle autorità civili per l’applicazione delle punizioni.

 

Alle quattro del pomeriggio, dopo otto ore di processo, si conclusero le sentenze dei condannati a morte che vennero quindi condotti al quemadero, nella periferia nord della città. Le facce sconvolte dei prigionieri mentre scendevano dalla tribuna riflettevano l’inevitabilità del loro destino; con una differenziazione, secondo de Olmo, molto marcata tra pentiti e non: «E veramente, se si fa attenzione ai segni esteriori, a cui lì tutti fecero caso, [...] si può notare la profonda differenza riscontrata tra reducidos e pertinaces, come quella che vi è tra prescelti e reprobi. Questi ultimi avevano un colorito orribile, con occhi sconvolti dai quali sembrava sgorgassero fiamme, e la fisionomia dei volti stravolta, come se fossero posseduti dal demonio. I convertiti, invece, camminavano con umiltà, conforto, obbedienza e gioia spirituale tali da sembrare benedetti dalla grazia di Dio. Si può credere che siano già in cielo per le tante preghiere e suffragi che i devoti hanno fatto per le loro anime» [De Olmo 75-76].

 

Da anni i roghi si tenevano nella zona nord della Villa, al di là delle nuove mura fatte costruire nel 1625 da Filippo IV, con il fine di evitare che l’odore insopportabile si propagasse per il centro cittadino. La pira, una catasta di legna di 16 metri di lunghezza e due di altezza su cui si ergevano i pali a cui sarebbero stati legati i condannati, era già pronta dalla sera prima. Intorno a essa, i soldati della fede cercavano di assicurarsi che tutto si svolgesse senza problemi e senza scontri, seppure invano. Tanta era infatti la calca formatasi, da non riuscire a impedire il lancio ripetuto di sassi e verdure marce ai prigionieri, che rischiarono in più occasioni di soccombere a tanta ferocia.

 

I reducidos, in quanto pentiti delle loro colpe, e pertanto meritevoli di ricevere un alleggerimento della pena, vennero previamente strangolati tramite garrota e soltanto in seguito lanciati sul rogo. Diversa fu la sorte dei pertinaces – gli impenitenti – poiché affrontarono le fiamme del Sant’Uffizio da vivi.

 

Il coraggio dei ventuno, uomini e donne, nel sopportare questa morte orrenda fu ammirabile; tutti si abbandonarono al proprio destino con una tale determinazione che alcuni degli spettatori, sorpresi, si rammaricarono del fatto che simili anime eroiche non fossero più illuminate. Le strazianti grida di dolore che si udirono non appena le lingue di fuoco cominciano a lambire le loro membra, cessarono in pochi minuti, al sopraggiungere della morte per collasso o asfissia: «Si eseguirono i supplizi, dapprima strangolando i reducidos con una garrota, poi appiccando il fuoco ai pertinaces, che furono arsi vivi con non pochi segni di dolore, angoscia e disperazione. E gettati tutti i cadaveri nel fuoco, i boia continuarono ad alimentarlo durante tutta la notte fino a che non li ebbe ridotti in cenere, all’incirca verso le nove del mattino» [De Olmo 76].

 

Fu così che volse al termine una delle cerimonie più violente ed efferate di tutti i tempi. Nei giorni successivi vennero effettuate le punizioni per i rei rimasti, che furono tolti nuovamente dalle carceri per essere fustigati e condannati alla pubblica vergogna, salvo poi ritornarvi, a Madrid o dislocati a Toledo, per scontare la propria pena.

 

Ciò che rimaneva invece delle ventuno vite umane arse sul rogo era soltanto un mucchio di cenere calda che qualcuno, da lì a poco, avrebbe raccolto per farne poi liscivia da utilizzare nei lavaderos presso il fiume Manzanarre. Il loro ricordo cadde nell’oblio.

 

I ritrovamenti del 1869, che tanto sconvolsero i madrileni dell’epoca, si risolsero alla fine in un nulla di fatto. I resti, umani e non, vennero dimenticati e la costruzione del nuovo Ensanche urbano riprese il suo corso.

 

Ciò che si può osservare oggigiorno, in quella che è attualmente la glorieta de Ruiz Jiménez, è soltanto una moltitudine di persone che passeggiano distratte, bambini che corrono in bici e coppiette di adolescenti che si scambiano effusioni sulle panchine. Nessuno di loro è consapevole che, sotto i loro piedi, si nascondono le fiamme di una delle più spaventose e raccapriccianti storie della città di Madrid; il luogo in cui, durante secoli, centinaia di innocenti persero la vita, inutilmente, nel nome del Signore.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Bernat G., El Auto de Fe en la Plaza Mayor de Madrid (1680).

Del Olmo J. V., Relación histórica del Auto general de Fe que se celebró en Madrid en el año de 1680 con asistencia del Rey don Carlos II, Imprenta de Cano, Madrid 1820.

Exurge domine et judica causam tuam, in Boletín Oficial del Ayuntamiento, año I, n° 6, 1869, p. 4.

La Cruz del Quemadero y la memoria de la inquisición en Madrid, Centros de estudio sobre el Madrid islámico.

Parello V., Una fiesta barroca en tiempos de Carlos II: el auto de fe madrileño de 1680, in OpenEdition Journals, 8, 2011.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]