moderna
L'INQUISIZIONE A MODENA
TRA NOBILI DECADUTI, BANDE DI DISPERATI
E TESORI MAGICI
di Alessio Guglielmini
È una storia avventurosa, rustica e
magica al contempo, quella che affiora
dai fascicoli del Sant’Uffizio di Modena
a carico di alcuni esponenti della
famiglia Montecuccoli tra il 1623 e il
1624. Costellazione di nobili del
limitrofo Frignano, esponenti decaduti
e, verosimilmente, un po’ annoiati,
attorno ai quali si riunì in quegli anni
una banda improvvisata di curiosi e
miserabili con il sogno di recuperare
sperduti tesori protetti da maledizioni
e demoni, come tipico dei racconti e
delle fantasie popolari di montagna.
All’attenzione dell’Inquisitore di
Modena, Giovanni Vincenzo Reghezza,
giunse in particolare l’anziana Lucrezia
Montecuccoli del “Sasso” (Sassostorno),
referente dei membri di quella “Armata
Brancaleone” lanciata alla disperata
ricerca di fortuna. Tra di loro, il
chierico Silvio Tommasi, il fabbro
modenese Gaspare Abbati, il contadino
Antonio Bellentani, il sarto itinerante
Antonio Tezzi, detto “Il Romitto”, e
l’oste Pietro Borlenghini.
Proprio le osterie, tra cui l’Adegagna
del Borlenghini, erano i luoghi in cui
confluivano le voci sui tesori della
zona e che fungevano da quartier
generale per organizzare i raid in cerca
dei forzieri perduti. Inoltre, come in
ogni banda che si rispetti, ciascuno
aveva, almeno inizialmente, un suo ruolo
specifico. Il modenese Abbati, trovato
in possesso di libri suspesi, et
secreti superstitiosi, si occupò ad
esempio della realizzazione di un
cerchio magico che occorreva a
proteggere i cercatori di tesori dalle
forze maligne mentre Tommasi e
Bellentani, soprattutto il secondo,
potevano vantare un filo diretto con i
Montecuccoli del “Sasso”.
A quanto pare la signora Lucrezia
Montecuccoli, nei primi mesi del 1623,
aveva ricevuto la visita di Tommasi e
Bellentani, ai quali aveva dato una
scriptura in folio affumicato
rimastale in dote dal defunto fratello
Rodolfo, già autore in passato di
numerose, e fallimentari, scorribande in
cerca di tesori. Questa carta, come
tipico dei materiali del repertorio
superstizioso, era una miscellanea,
storpiata e adattata, di passi biblici e
magia cerimoniale.
Nella fattispecie, il foglio insegnava a
preparare bacchette rabdomantiche di
ulivo per cavar thesori;
bacchette che si sarebbero dovute
flettere “autonomamente” per indicare
dove scavare in cerca del bottino mentre
si recitavano le apposite orazioni.
Quasi superfluo aggiungere che Abbati,
Bellentani e soci non trovarono le
ricchezze desiderate, sperimentando gli
insuccessi già vissuti sulla propria
pelle dall’avventuriero Rodolfo
Montecuccoli, l’ispiratore di questa
piccola saga appenninica.
Per quanto se ne sa, il Conte Rodolfo,
durante la sua vita, riuscì sempre a
scampare agli interrogatori del
Sant’Uffizio, malgrado le testimonianze
e gli incartamenti sul suo conto
cominciassero ad accumularsi anche sotto
i predecessori del Reghezza. Inoltre,
Rodolfo moriva nel 1619, verosimilmente
a causa degli acciacchi di una vita
spericolata, tuttavia sospettando di
aver subito un maleficio, sparendo
comunque di scena qualche anno prima che
il Reghezza ricevesse notizia della
banda del Frignano.
La storia di Rodolfo, oltre a essere
tratteggiata dagli inquisiti del
1623-1624, riemerge dagli assortiti
documenti d’archivio rimasti su di lui.
Si trattava a quanto pare di un
signorotto intrepido, già accusato di
battere monete false verso la fine del
Cinquecento, il quale, grazie alle
vanterie relative al suo armamentario
magico, si faceva ospitare, dalla
Romagna fino a Milano, da improvvisati
committenti che gli offrivano vitto e
alloggio dietro la promessa di
localizzare fantomatici tesori.
Rodolfo doveva spesso scappare in fretta
e furia, per evitare le “bastonate” o le
“archibugiate” dei locali esasperati dai
suoi traffici illeciti che provocavano
strani fenomeni metereologici, tipo
nevicate improvvise, come si suppone
accadesse a Fontana Moneta nel 1618.
Altre volte lo si vedeva operare a Pont’Ercole,
luogo famigerato per trovarvi medaglie
raffiguranti Marco Aurelio e Commodo,
insieme ad altre preziosità. Stando alle
deposizioni, Rodolfo recitava qui
orazioni magiche che causavano tempeste,
anche se la stessa Lucrezia avrebbe
minimizzato parlando di “quattro
gocciarelle”.
Depositaria di queste avventure rimase
per l’appunto la sorella, forse
sorellastra, Lucrezia Montecuccoli che
riattivò di fatto l’interesse per la
tradizione magica di famiglia e ne pagò
in prima persona le conseguenze nel
momento in cui fu chiamata a risponderne
presso il tribunale coordinato dal
Reghezza. L’argomento più scabroso non
fu tanto la carta dedicata alla
fabbricazione delle bacchette da
rabdomante, quanto un misterioso
aneddoto riguardante sempre il fratello
Rodolfo che era titolare di un
cristallo, pressappoco grosso come un
bottone, dentro il quale era
imprigionato uno “spirito familiare”.
Lo spirito familiare veniva chiamato
tramite apposita invocazione e, spesso
con la complicità di un “putto” o di una
“putta”, doveva rivelare dove si
trovavano le cose rubate o i tesori
sepolti. Secondo l’imputato Antonio
Bellentani lo spirito era solito
“uccellare” Rodolfo Montecuccoli sui
tesori misteriosi, mentre sui furti
diceva la verità.
Fatto sta, dietro l’insistenza degli
interrogatori condotti dal Reghezza, lo
spirito familiare finì presto per
confondersi con il demonio, motivo per
cui l’indagine si spostò dagli episodi
illeciti, ma meno gravi, delle bacchette
al sospetto che gli inquisiti avessero
stipulato patti diabolici; si procedette
con la tortura ma gli indiziati negarono
l’accusa.
Lo spirito familiare era peraltro
passato di mano dopo la morte di Rodolfo
a un altro Montecuccoli del Frignano, il
prepotente e “manzoniano” Alessandro di
Renno, più influente dei fratelli di
Sassostorno. Il giovane conte
Alessandro, che aveva fama di rissoso,
si era fatto dare lo spirito per il
tramite del Bellentani, poco dopo la
morte di Rodolfo. Lucrezia, stando alle
ricostruzioni, voleva però indietro lo
spirito per mandarlo “ad una gentildona
a Mantoa” a cui erano state rubate delle
argenterie, a testimonianza di come
spiriti e materiali magici alimentassero
un giro di clientele e presunte
relazioni sociali.
Altro Montecuccoli coinvolto negli
approfondimenti del Sant’Uffizio
modenese di quegli anni fu Francesco di
Cognento, proprietario di uno dei feudi
in cui la banda andò a scavare in cerca
di tesori, ma che nel 1624 dovette
rispondere all’Inquisitore Reghezza
anche delle sue attività di “guaritore
dilettante”.
Lucrezia e i membri della banda furono
generalmente giudicati “vehementer
sospetti d’eresia e apostasia” e, benché
lo spirito familiare fosse chiaramente
equivocato con il demonio, subirono pene
che non andarono oltre l’incarcerazione
e le penitenze salutari. Di tutti questi
verbali, resta a conti fatti un vivace
affresco della vita appenninica tra
miseria, folklore, racconti di osteria e
faciloneria nel credere alle numerose
leggende di montagna, una ingenuità
rurale a cui si sovrapponevano
evidentemente tecniche magiche
raffazzonate e improvvisate. Ma
soprattutto emerge la spontaneità di
alcuni meccanismi sociali che portarono
alla formazione di alleanze tra
miserabili e nobili decaduti desiderosi
di svoltare grazie alla provvidenziale
fortuna regalata da un tesoro
abbandonato. Nel caso di Lucrezia
Montecuccoli affiora anche l’alone della
signora di rango minore, emarginata in
circoscrizioni remote, che cercava forse
attenzione e una qualche popolarità per
il tramite del bagaglio magico ereditato
dal fratello.
Per la cronaca, la storia dei
Montecuccoli del Seicento non è soltanto
questa. Decisamente più gloriosa è
l’epopea di Raimondo, proveniente sì dal
Frignano, ma protagonista di ben altra
carriera nelle stanze degli Asburgo,
presso i quali fu, tra gli altri,
Luogotenente generale e Feldmaresciallo,
Gran Maresciallo dell’Artiglieria e
Fortificazioni. Un genio militare,
insomma, che brillò in particolare in
occasione della vittoria contro i turchi
il 1°agosto 1664, nella celebre
battaglia di San Gottardo, quando lo
stesso Raimondo guidò la coalizione
cristiana. Fermare l’esercito turco in
quell’occasione permise di guadagnare
tempo e di consentire a Vienna di
organizzare quell’assetto difensivo che
l’avrebbe fatta resistere all’assedio
ottomano del 1683.
Gli alterni destini dei vari rami dei
Montecuccoli illustrano altresì la
friabilità delle casate nobiliari nel
solco dell’Età Moderna, famiglie sempre
più composite, costituite da nuclei
“maggiori” che potevano ambire a
prestigiose carriere militari/politiche
e nuclei “minori”, costretti appunto a
reinventarsi nelle inospitali aree
appenniniche, destino che le vicende di
Rodolfo e di Lucrezia restituiscono con
un misto di fascino e di nostalgia.
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