[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

162 / GIUGNO 2021 (CXCIII)


moderna

L'INQUISIZIONE A MODENA
TRA NOBILI DECADUTI, BANDE DI DISPERATI E TESORI MAGICI

di Alessio Guglielmini

   

È una storia avventurosa, rustica e magica al contempo, quella che affiora dai fascicoli del Sant’Uffizio di Modena a carico di alcuni esponenti della famiglia Montecuccoli tra il 1623 e il 1624. Costellazione di nobili del limitrofo Frignano, esponenti decaduti e, verosimilmente, un po’ annoiati, attorno ai quali si riunì in quegli anni una banda improvvisata di curiosi e miserabili con il sogno di recuperare sperduti tesori protetti da maledizioni e demoni, come tipico dei racconti e delle fantasie popolari di montagna.

 

All’attenzione dell’Inquisitore di Modena, Giovanni Vincenzo Reghezza, giunse in particolare l’anziana Lucrezia Montecuccoli del “Sasso” (Sassostorno), referente dei membri di quella “Armata Brancaleone” lanciata alla disperata ricerca di fortuna. Tra di loro, il chierico Silvio Tommasi, il fabbro modenese Gaspare Abbati, il contadino Antonio Bellentani, il sarto itinerante Antonio Tezzi, detto “Il Romitto”, e l’oste Pietro Borlenghini.

 

Proprio le osterie, tra cui l’Adegagna del Borlenghini, erano i luoghi in cui confluivano le voci sui tesori della zona e che fungevano da quartier generale per organizzare i raid in cerca dei forzieri perduti. Inoltre, come in ogni banda che si rispetti, ciascuno aveva, almeno inizialmente, un suo ruolo specifico. Il modenese Abbati, trovato in possesso di libri suspesi, et secreti superstitiosi, si occupò ad esempio della realizzazione di un cerchio magico che occorreva a proteggere i cercatori di tesori dalle forze maligne mentre Tommasi e Bellentani, soprattutto il secondo, potevano vantare un filo diretto con i Montecuccoli del “Sasso”.

 

A quanto pare la signora Lucrezia Montecuccoli, nei primi mesi del 1623, aveva ricevuto la visita di Tommasi e Bellentani, ai quali aveva dato una scriptura in folio affumicato rimastale in dote dal defunto fratello Rodolfo, già autore in passato di numerose, e fallimentari, scorribande in cerca di tesori. Questa carta, come tipico dei materiali del repertorio superstizioso, era una miscellanea, storpiata e adattata, di passi biblici e magia cerimoniale.

 

Nella fattispecie, il foglio insegnava a preparare bacchette rabdomantiche di ulivo per cavar thesori; bacchette che si sarebbero dovute flettere “autonomamente” per indicare dove scavare in cerca del bottino mentre si recitavano le apposite orazioni. Quasi superfluo aggiungere che Abbati, Bellentani e soci non trovarono le ricchezze desiderate, sperimentando gli insuccessi già vissuti sulla propria pelle dall’avventuriero Rodolfo Montecuccoli, l’ispiratore di questa piccola saga appenninica.

 

Per quanto se ne sa, il Conte Rodolfo, durante la sua vita, riuscì sempre a scampare agli interrogatori del Sant’Uffizio, malgrado le testimonianze e gli incartamenti sul suo conto cominciassero ad accumularsi anche sotto i predecessori del Reghezza. Inoltre, Rodolfo moriva nel 1619, verosimilmente a causa degli acciacchi di una vita spericolata, tuttavia sospettando di aver subito un maleficio, sparendo comunque di scena qualche anno prima che il Reghezza ricevesse notizia della banda del Frignano.

 

La storia di Rodolfo, oltre a essere tratteggiata dagli inquisiti del 1623-1624, riemerge dagli assortiti documenti d’archivio rimasti su di lui. Si trattava a quanto pare di un signorotto intrepido, già accusato di battere monete false verso la fine del Cinquecento, il quale, grazie alle vanterie relative al suo armamentario magico, si faceva ospitare, dalla Romagna fino a Milano, da improvvisati committenti che gli offrivano vitto e alloggio dietro la promessa di localizzare fantomatici tesori.

 

Rodolfo doveva spesso scappare in fretta e furia, per evitare le “bastonate” o le “archibugiate” dei locali esasperati dai suoi traffici illeciti che provocavano strani fenomeni metereologici, tipo nevicate improvvise, come si suppone accadesse a Fontana Moneta nel 1618. Altre volte lo si vedeva operare a Pont’Ercole, luogo famigerato per trovarvi medaglie raffiguranti Marco Aurelio e Commodo, insieme ad altre preziosità. Stando alle deposizioni, Rodolfo recitava qui orazioni magiche che causavano tempeste, anche se la stessa Lucrezia avrebbe minimizzato parlando di “quattro gocciarelle”.

 

Depositaria di queste avventure rimase per l’appunto la sorella, forse sorellastra, Lucrezia Montecuccoli che riattivò di fatto l’interesse per la tradizione magica di famiglia e ne pagò in prima persona le conseguenze nel momento in cui fu chiamata a risponderne presso il tribunale coordinato dal Reghezza. L’argomento più scabroso non fu tanto la carta dedicata alla fabbricazione delle bacchette da rabdomante, quanto un misterioso aneddoto riguardante sempre il fratello Rodolfo che era titolare di un cristallo, pressappoco grosso come un bottone, dentro il quale era imprigionato uno “spirito familiare”.

 

Lo spirito familiare veniva chiamato tramite apposita invocazione e, spesso con la complicità di un “putto” o di una “putta”, doveva rivelare dove si trovavano le cose rubate o i tesori sepolti. Secondo l’imputato Antonio Bellentani lo spirito era solito “uccellare” Rodolfo Montecuccoli sui tesori misteriosi, mentre sui furti diceva la verità.

 

Fatto sta, dietro l’insistenza degli interrogatori condotti dal Reghezza, lo spirito familiare finì presto per confondersi con il demonio, motivo per cui l’indagine si spostò dagli episodi illeciti, ma meno gravi, delle bacchette al sospetto che gli inquisiti avessero stipulato patti diabolici; si procedette con la tortura ma gli indiziati negarono l’accusa.

 

Lo spirito familiare era peraltro passato di mano dopo la morte di Rodolfo a un altro Montecuccoli del Frignano, il prepotente e “manzoniano” Alessandro di Renno, più influente dei fratelli di Sassostorno. Il giovane conte Alessandro, che aveva fama di rissoso, si era fatto dare lo spirito per il tramite del Bellentani, poco dopo la morte di Rodolfo. Lucrezia, stando alle ricostruzioni, voleva però indietro lo spirito per mandarlo “ad una gentildona a Mantoa” a cui erano state rubate delle argenterie, a testimonianza di come spiriti e materiali magici alimentassero un giro di clientele e presunte relazioni sociali.

 

Altro Montecuccoli coinvolto negli approfondimenti del Sant’Uffizio modenese di quegli anni fu Francesco di Cognento, proprietario di uno dei feudi in cui la banda andò a scavare in cerca di tesori, ma che nel 1624 dovette rispondere all’Inquisitore Reghezza anche delle sue attività di “guaritore dilettante”.

 

Lucrezia e i membri della banda furono generalmente giudicati “vehementer sospetti d’eresia e apostasia” e, benché lo spirito familiare fosse chiaramente equivocato con il demonio, subirono pene che non andarono oltre l’incarcerazione e le penitenze salutari. Di tutti questi verbali, resta a conti fatti un vivace affresco della vita appenninica tra miseria, folklore, racconti di osteria e faciloneria nel credere alle numerose leggende di montagna, una ingenuità rurale a cui si sovrapponevano evidentemente tecniche magiche raffazzonate e improvvisate. Ma soprattutto emerge la spontaneità di alcuni meccanismi sociali che portarono alla formazione di alleanze tra miserabili e nobili decaduti desiderosi di svoltare grazie alla provvidenziale fortuna regalata da un tesoro abbandonato. Nel caso di Lucrezia Montecuccoli affiora anche l’alone della signora di rango minore, emarginata in circoscrizioni remote, che cercava forse attenzione e una qualche popolarità per il tramite del bagaglio magico ereditato dal fratello.

 

Per la cronaca, la storia dei Montecuccoli del Seicento non è soltanto questa. Decisamente più gloriosa è l’epopea di Raimondo, proveniente sì dal Frignano, ma protagonista di ben altra carriera nelle stanze degli Asburgo, presso i quali fu, tra gli altri, Luogotenente generale e Feldmaresciallo, Gran Maresciallo dell’Artiglieria e Fortificazioni. Un genio militare, insomma, che brillò in particolare in occasione della vittoria contro i turchi il 1°agosto 1664, nella celebre battaglia di San Gottardo, quando lo stesso Raimondo guidò la coalizione cristiana. Fermare l’esercito turco in quell’occasione permise di guadagnare tempo e di consentire a Vienna di organizzare quell’assetto difensivo che l’avrebbe fatta resistere all’assedio ottomano del 1683.  

 

Gli alterni destini dei vari rami dei Montecuccoli illustrano altresì la friabilità delle casate nobiliari nel solco dell’Età Moderna, famiglie sempre più composite, costituite da nuclei “maggiori” che potevano ambire a prestigiose carriere militari/politiche e nuclei “minori”, costretti appunto a reinventarsi nelle inospitali aree appenniniche, destino che le vicende di Rodolfo e di Lucrezia restituiscono con un misto di fascino e di nostalgia.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

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Frignano: dalle origini all’autonomia politica
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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]