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N. 85 - Gennaio 2015 (CXVI)

L'INDIPENDENZA DELLA SLOVENIA
PARTE II - LA fine della guerra e GLI accordi di Brioni

di Laura Ballerini

 

Il governo di Lubiana non cedette alle pressioni jugoslave e gli scontri ricominciarono. Nel pomeriggio del 30, gli sloveni si impossessarono di nove carri armati di Belgrado e di numerose altre armi che vennero ridistribuite tra le armate, continuando con la vincente strategia della guerriglia.

 

Le schermaglie continuarono anche il giorno seguente, volgendo a favore del popolo sloveno, che prese possesso di diversi altri depositi di esplosivi. Il 2 luglio fu la giornata più violenta: un intera colonna di carri armati venne distrutta dagli attacchi sloveni, il cui presidente, alle 21:00, annunciò un cessate il fuoco unilaterale, respinto dalle forze jugoslave.

 

Quel che gli sloveni compresero più di Milosévic, era che questa guerra non veniva combattuta solo sui fronti armati, ma anche nei media e nei televisori a migliaia di chilometri di distanza. Agli occhi delle potenze occidentali questo scontro venne presentato come un “Davide contro Golia”, un piccolo Stato che chiedeva democrazia, contro un autoritario Stato comunista. Tuttavia, né l’Unione Sovietica, prossima al declino, né gli Stati Uniti, privi di particolari interessi nell’area e stanchi di fare “i poliziotti del mondo”, intervennero significativamente.

 

Visti gli insuccessi strategici dell’Armata popolare e l’irruzione nel Parlamento serbo di 300 genitori che chiedevano il ritorno dei propri figli dalla Slovenia, Milosévic pensò alla cosiddetta “amputazione”. Divenuto ormai chiaro che la Slovenia non avrebbe mai capitolato, sembrò più producente cambiare tattica e liberarsi di Slovenia e Croazia occidentale, per mantenere uno Stato jugoslavo più compatto etnicamente.

 

L’opinione ormai diffusa a Belgrado era che se gli sloveni volevano fare da soli, potevano fare a meno della Serbia, che li aveva sostenuti per trent’anni. La sera del 3 luglio, i vertici dell’Armata popolare si accordarono per un cessate il fuoco e il ritiro nelle proprie caserme. Nei giorni che seguirono, le forze slovene ripresero il controllo di tutti i passaggi di frontiera. Secondo i dati del governo di Lubiana, questa guerra provocò un danno all’economia del paese per 3 miliardi di dollari, con un bilancio di 74 morti e 280 feriti.

 

Il 7 luglio 1991 vennero firmati gli accordi di Brioni sull’omonima isola croata, ai quali parteciparono delegati sloveni, croati e jugoslavi, sotto l’egida della Comunità Economica Europea. L’esito di questi accordi, durati due giorni, fu, per la Slovenia, il controllo delle frontiere, promettendo di ripristinare la situazione precedente allo scoppio della guerra in un periodo di tre mesi, dove si sarebbero concordate le competenze dell’Armata popolare. Sia la Slovenia che la Croazia si impegnavano a partecipare a colloqui sul futuro della Jugoslavia, condotti sotto la supervisione internazionale.

 

Questi accordi non furono accettati in maniera omogenea dalla popolazione slovena, tant’è che, il giorno successivo agli accordi, uno dei più importanti quotidiani sloveni, il “Delo”, titolò “Compromesso o sconfitta?”. Si rese da subito evidente, però, come la Jugoslavia non avesse più alcun interesse a riprendersi la Slovenia.

 

In un intervista televisiva del 6 luglio, infatti, Milosévic affermava che la Slovenia aveva diritto alla secessione pacifica, mentre il generale Kadijevic, in una dichiarazione per la stampa, affermò che l’Armata popolare avrebbe potuto mettere in ginocchio la Slovenia, ma non aveva senso che ufficiali e soldati jugoslavi morissero per una Slovenia che li considerava stranieri e occupatori.

 

L’opinione pubblica slovena concordò così sui buoni esiti degli accordi di Brioni: il raggiungimento dell’indipendenza, il disinteresse della Jugoslavia a ulteriori ostilità e la moratoria di tre mesi per regolare i rapporti tra le Repubbliche jugoslave; il controllo sulle frontiere e il monitoraggio europeo.

 

L’Europa, infatti, aveva avuto un suo ruolo nel processo per l’indipendenza slovena. In quegli anni, misuravano le proprie forze la NATO, sotto l’egida degli USA, e la UEO, braccio armato della Comunità Europea per la risoluzione delle crisi. La Francia, in particolare, uscita tempo addietro dalla NATO, sentiva il bisogno di rendere la politica estera europea più indipendente da quella americana.

 

Così, dopo iniziali disaccordi sul riconoscimento dello Stato sloveno, la Comunità Europea organizzò una “troika”, ossia tre ministri degli Esteri (l’italiano Gianni De Michelis, l’olandese Hans Van den Broek e il lussemburghese Jacques Poos) che si adoperassero per aiutare i paesi coinvolti a risolvere la crisi. Venne proposto di congelare la situazione per tre mesi: la Slovenia e la Croazia avrebbero sospeso per tre mesi le loro dichiarazioni di indipendenza e la Jugoslavia avrebbe cessato il fuoco.

 

In questo modo si prendeva tempo per permettere ai tre paesi di uscire dalla guerra. Mentre in Croazia la situazione si evolse in maniera diversa (per la presenza di una forte componente serba sul territorio, rivendicata da Milosévic), in Slovenia, come visto sopra, si arrivò al compromesso. Pochi mesi dopo, nel gennaio del 1992, lo Stato di Slovenia venne riconosciuto da tutti i membri della Comunità Europea e nel maggio dello stesso anno entrò a far parte delle Nazioni Unite.

 

Più di dieci anni dopo, invece, nel 2004, la Slovenia è entrata a far parte dell’Unione Europea.



 

 

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