N. 83 - Novembre 2014
(CXIV)
l'indipendenza della slovenia
Parte I - la guerra dei dieci giorni
di Laura Ballerini
Alla
fine
degli
anni
`80
la
Jugoslavia
era
una
polveriera.
L’ascesa
al
potere
del
serbo
Milosévic
aveva
segnato
l’inizio
della
fine.
Egli,
infatti,
si
fece
promotore
delle
istanze
della
propria
etnia,
scatenando
il
risentimento
e le
proteste
di
tutte
le
atre
fazioni,
prime
tra
tutte
quella
croata
e
quella
slovena.
Ad
aggravare
una
situazione
già
così
tesa
fu
l’apertura
della
cortina
di
ferro:
il
crollo
del
muro
di
Berlino
nel
1989.
L’Unione
Sovietica
si
estinse
nel
1991
e
per
la
Jugoslavia
il
nemico
numero
uno
non
era
più
la
potenza
rossa
con
il
Patto
di
Varsavia,
bensì
i
paesi
occidentali
con
la
NATO.
Con
la
fine
della
guerra
fredda
a
favore
del
blocco
occidentale,
si
può
ben
comprendere
il
motivo
per
cui
la
Croazia
e la
Slovenia
sentissero
la
necessità
di
rimarcare
la
loro
componente
occidentale
ed
europea.
Entrambi
i
paesi,
infatti,
erano
stati
parte
dell’Impero
austro-ungarico
e
solo
a
partire
dal
1918
si
erano
unite
con
i
Serbi,
che
erano
stati
membri,
invece,
dell’impero
turco.
Dunque,
dopo
l’ascesa
di
Milosévic
e
dopo
il
crollo
del
muro,
nei
due
paesi
iniziarono
delle
proteste
che
si
conclusero
nella
guerra
per
l’indipendenza.
Mentre
nel
caso
croato
la
guerra
durò
circa
tre
anni,
in
quello
sloveno,
preso
ora
in
esame,
durò
10
giorni.
Nell’aprile
del
1990,
pochi
mesi
dopo
il
crollo
del
muro
di
Berlino,
in
Slovenia
si
tennero
libere
elezioni
che
portarono,
nel
dicembre
dello
stesso
anno,
al
referendum
che
approvò
la
propria
indipendenza.
Nei
mesi
che
seguirono,
il
governo
Sloveno
mise
in
atto
dei
provvedimenti
per
spianare
la
strada
alla
propria
indipendenza.
L’obbiettivo,
però,
non
era
quello
di
chiudere
definitivamente
con
la
Jugoslavia:
gli
sloveni,
infatti,
come
anche
i
croati,
erano
favorevoli
a
costituire
con
gli
altri
popoli
jugoslavi
una
comunità
di
Stati
sovrani,
a
patto
che
venissero
rispettate
la
democrazia,
l’economia
di
mercato
e i
diritti
dell’uomo
e
delle
minoranze.
Come
detto,
il
governo
sloveno
mise
in
atto
una
strategia
segreta
per
affrontare
la
ritorsione
jugoslava
alla
propria
indipendenza,
organizzandosi
autonomamente
sul
fronte
militare.
La
struttura
dell’Armata
Popolare
Jugoslava
(JNA),
braccio
armato
di
Belgrado,
prevedeva
che
ognuna
delle
sei
repubbliche
avesse
una
propria
organizzazione
militare
territoriale
(TO),
sotto
il
suo
comando.
Milosévic,
per
paura
delle
insurrezioni
diffuse
in
tutto
lo
Stato,
modificò
tale
struttura,
cambiandola
in
un
sistema
di
difesa
centralizzato:
le
sei
TO
venivano
disarmate
e
subordinate
ai
quartieri
generali
dell’Armata
popolare,
a
Belgrado.
Il
governo
sloveno,
allora,
allestì
una
struttura
militare
segreta
chiamata
“Struttura
di
manovra
per
la
protezione
nazionale”
(MSNZ),
e vi
trasferì
tutto
il
suo
contingente
militare
devoluto
all’Armata
popolare.
Tutto
ciò,
ovviamente,
all’oscuro
del
comando
di
Belgrado.
Dopo
aver
preso
accordi
segreti
con
la
Croazia,
il
governo
sloveno
comunicò
che
avrebbe
dichiarato
la
sua
indipendenza
il
26
giugno
1991.
Per
prendere
alla
sprovvista
il
governo
Jugoslavo,
Croazia
e
Slovenia
anticiparono
la
propria
indipendenza
al
25
giugno
e in
quel
giorno
le
strade
dei
due
paesi
si
separarono.
Il
governo
sloveno,
infatti,
a
differenza
di
quello
croato,
passò
ai
fatti.
In
quelle
24
ore
di
vantaggio,
l’esecutivo
di
Lubiana
prese
possesso,
senza
spargimento
di
sangue,
di
tutti
e
trentasette
i
passaggi
di
frontiera
con
l’Italia,
l’Austria
e
l’Ungheria,
istituì
posti
di
blocchi
con
la
Croazia
e
sostituì
i
simboli
federali
con
quelli
nazionali.
Schierò
i
militari
della
MSNZ,
segretamente
sottratti
all’Armata
popolare,
sulle
frontiere,
per
accogliere
la
possibile
reazione
della
Jugoslavia.
Il
governo
di
Belgrado
dichiarò
illegittima
l’indipendenza
slovena
e si
mobilitò
per
impedirne
l’attuazione,
dando
il
via
alla
guerra
dei
dieci
giorni.
L’esecutivo
jugoslavo
scelse
di
cominciare
con
un
approccio
morbido
per
riportare
la
Slovenia
tra
le
proprie
braccia.
Il
26
giugno,
pertanto,
vennero
mobilitati
i
corpi
d’armata
della
JNA
che
ripresero
tutti
i
passi
di
frontiera
con
l’Italia.
Il
giorno
dopo
invece,
una
colonna
di
carri
armati
jugoslavi
entrò
nel
territorio
nordorientale
sloveno,
mentre
un
battaglione
occupò
l’aeroporto
di
Brnik
e un
altro
si
avvicinò
a
Lubiana.
Nel
pomeriggio
dello
stesso
giorno
l’Armata
popolare
cercò
di
recuperare
i
posti
di
blocco,
prendendone,
però,
solo
14
su
30.
Verso
sera,
i
militari
sloveni
abbatterono
due
elicotteri
che
portavano
rifornimenti
ai
soldati
della
JNA,
bloccati
nel
centro
di
Lubiana.
La
notizia
ebbe
un
forte
impatto
e
venne
definita
dal
ministro
della
difesa
sloveno,
Jansa,
come
il
rovesciamento
della
clessidra.
Iniziarono
da
allora
le
prime
diserzioni
e
molti
soldati
si
aggiunsero
alle
file
slovene.
Il
28
giugno,
le
truppe
jugoslave
cercarono
di
riprendere
i
passi
di
frontiera
con
l’Austria,
ancora
in
mano
agli
sloveni,
recuperandone
solo
due.
Gli
sloveni
adottarono
una
strategia
di
guerriglia
che
mise
in
seria
difficoltà
i
contingenti
jugoslavi:
i
battaglioni
nemici
venivano
attirati
in
passaggi
molto
stretti,
così
da
consentire
agli
sloveni
di
affrontarli
poco
per
volta,
per
poi
impossessarsi
delle
armi
e
dei
carri
armati
jugoslavi.
Verso
sera
riuscirono
anche
prendere
un
deposito
d’armi
con
diverse
tonnellate
di
esplosivo.
Gli
avvenimenti
di
questa
giornata,
accompagnati
da
un
numero
sempre
crescente
di
disertori
(il
bilancio
finale
fu
di
8mila
disertori
sui
25mila
di
stanza
in
Slovenia,
di
cui
mille
erano
ufficiali),
fecero
entrare
in
crisi
i
vertici
dell’Armata
popolare,
che
diedero
un
ultimatum,
chiedendo
la
fine
delle
ostilità
per
le
9:00
del
30
giugno.