N. 146 - Febbraio 2020
(CLXXVII)
Il moghul dara sikoh (1615-1659)
il
principe
“mistico”
di
Matteo
Alvino
Il
principe
Muhammad
Dārā
Šikōh,
primo
figlio
maschio
dell’imperatore
moghul
Shah
Jahān
(1592-1666)
e
della
principessa
Mumtaz
Mahal
(1593-1631),
nacque
il
20
marzo
del
1615
ad
Ajmer,
nell’attuale
stato
indiano
del
Rajasthan.
La
sua
formazione
fu
quella
tipicamente
riservata
ai
principi
Moghul
la
quale
prevedeva
oltre
che
allo
studio
del
Corano
e
delle
tradizioni
profetiche
islamiche
anche
l’apprendimento
della
lirica
persiana
e
della
storia
della
dinastia
timuride
dalla
quale
discendeva
la
sua
medesima
famiglia.
Fin
da
subito
il
principe
mostrò
molto
più
interesse
per
la
religione
e la
filosofia
rispetto
allo
studio
dell’arte
della
guerra
alla
quale
invece
i
suoi
tre
fratelli
dedicarono
tanto
impegno.
Due
eventi
furono
fondamentali
per
la
costruzione/definizione
della
spiritualità
di
Dārā:
il
primo
nel
1634,
fu
l’incontro
con
Miyan
Mir
(1550-1635),
importante
esponente
della
confraternita
sufi
della
Qādiriyya
nel
subcontinente
indiano;
il
secondo
nel
1640
fu
l’iniziazione
formale
del
principe
alla
Qādiriyya
grazie
al
Mullā
Shah
Badakhshi
(?-1661),
il
successore
di
Miyan
Mir,
che
precedentemente
Dārā
aveva
salvato
da
una
condanna
a
morte
per
blasfemia
invocata
e
richiesta
da
alcuni
religiosi
ortodossi.
Dārā
Šikōh
raggiunse
l’apice
della
sua
carriera
politica
intorno
alla
prima
meta
degli
anni
50’
del
Seicento.
Suo
padre
Shah
Jahān
gli
concesse
diversi
onori
e un
rango
senza
eguali
per
poter
facilitare
la
sua
successione
ed
evitare
un’ennesima
guerra
tra
fratelli
per
la
successione
al
trono,
tipica
del
periodo
moghul.
In
questo
frangente,
più
precisamente
nel
1653,
si
verificò
anche
un
cocente
insuccesso
militare
per
il
principe:
il
fallito
assedio
della
fortezza
di
Qandahar
che
rimase
in
mani
persiane.
A
partire
dall’aprile
del
1657
la
situazione
politica
precipitò
rapidamente
a
causa
di
un
grave
malore
che
colpì
l’imperatore
a
Delhi,
tanto
da
far
temere
per
una
sua
morte
imminente.
Dārā
era
l’unico
dei
figli
del
sovrano
presente
alla
corte
del
padre
(inizialmente
a
Delhi
poi
entrambi
si
spostarono
ad
Agra)
in
questo
momento
di
grande
difficoltà
poiché
i
suoi
fratelli
si
trovavano
in
aree
più
periferiche
dell’impero
che
stavano
governando
per
conto
dell’imperatore:
Shah
Shujah
in
Bengala,
Murad
Bakhsh
nel
Gujarat,
e
Aurangzeb
nel
Deccan
dove
stava
conducendo
delle
campagne
militari
contro
i
sultanati
di
Bijapur
e di
Golconda.
Alla
notizia
che
il
padre
avrebbe
nominato
formalmente
Dārā
come
suo
successore,
Shujah
e
Murad
decisero
di
agire
rapidamente
e
entrambi
dalle
loro
province
si
autoproclamarono
imperatori
accusando
il
loro
eterodosso
fratello
di
aver
usurpato
il
trono
di
loro
padre,
oramai
reso
inabile
dalla
malattia,
e di
eresia.
L’unico
che,
almeno
inizialmente,
rimase
fuori
dal
conflitto
fu
l’abile
Aurangzeb
che
alla
fine
però
decise
di
marciare
su
Agra
parallelamente
all’esercito
di
Murad.
Dārā
per
fronteggiare
la
minaccia
di
Shujah,
proveniente
dal
Bengala,
decise
di
inviarli
contro
un
esercito
condotto
da
suo
figlio
Sulaiman
Šikōh
(1635-1662).
Nel
febbraio
1658
Sulaiman
riuscì
a
mettere
in
rotta
l’esercito
bengalese
nell’area
di
Varanasi,
ma
decise
di
spingere
in
fondo
l’attacco
fino
a
Munger,
nel
Bihar,
decisione
che
in
seguito
non
gli
permise
di
prestare
soccorso
al
padre,
impegnato
in
guerra
contro
gli
altri
due
suoi
fratelli.
Nel
frattempo
Dārā
aveva
inviato
un
esercito
con
il
compito
di
fermare
l’avanzata
congiunta
di
Murad
e
Aurangzeb:
la
battaglia
ebbe
luogo
il
26
aprile
a
Dharmat,
nei
pressi
di
Ujjain,
e si
concluse
con
la
fuga
delle
truppe
imperiali.
Dopo
questa
notizia,
Dārā
decise
di
prendere
personalmente
le
redini
della
situazione
e
approntò
un
esercito
per
contrastare
le
forze
nemiche.
La
battaglia
che
vide
contrapposti
i
tre
fratelli
fu
combattuta
il 9
giugno
a
Samogarh
vicino
ad
Agra.
Inizialmente
l’esito
dello
scontro
sembrò
incerto,
ma
successivamente
le
forze
di
Aurangzeb
e
Murad
riuscirono
a
imporsi
sui
loro
avversari
e
Dārā
fu
costretto
alla
fuga.
Murad
era
stato
gravemente
ferito
durante
la
battaglia
e
l’iniziativa
oramai
era
completamente
nelle
mani
di
Aurangzeb
che
dopo
essersi
impossessato
di
Agra,
fece
confinare
suo
padre
Shah
Jahān
nei
suoi
appartamenti
e
organizzò
l’inseguimento
di
suo
fratello
Dārā.
Aurangzeb
marciò
verso
Delhi
dove
ascese
al
trono
il
31
luglio
del
1658
e
subito
dopo
continuò
la
“caccia”
a
Dārā
che
nel
frattempo
aveva
intrapreso
una
lunga
marcia
verso
il
Punjab
e il
Gujarat
per
cercare
di
salvarsi
dalle
grinfie
del
fratello.
Approfittando
del
fatto
che
l’attenzione
del
neo
imperatore
fosse
rivolta
contro
Dārā,
Shujah
avanzò
da
est
contro
le
sue
forze.
Ma
Aurangzeb,
marciando
a
tappe
forzate
verso
oriente,
riuscì
a
fermarlo
e a
mettere
in
rotta
il
suo
esercito
il
14
gennaio
1659.
Inseguito
da
una
parte
dell’esercito
di
Aurangzeb,
Shujah
fu
spinto
fino
alle
foreste
dell’Arakan
in
Birmania,
mentre
il
Bengala
fu
infine
riportato
sotto
il
controllo
di
Delhi.
Grazie
all’azione
di
Shujah,
Dārā
riuscì
a
riorganizzarsi
e a
raccogliere
nuove
forze
per
riformare
un
esercito
prima
della
ricomparsa
di
Aurangzeb.
L’ultima
grande
battaglia
di
questa
guerra
fratricida
ebbe
luogo
presso
il
passo
di
Deorā’i
nella
quale,
pur
occupando
una
posizione
favorevole,
le
truppe
fedeli
a
Dārā
furono
travolte
dalla
brillante
strategia
militare
dell’avversario.
Dopo
la
disfatta
Dārā
tentò
nuovamente
la
fuga
(nella
quale
però
morì
sua
moglie
Nadira
Begum,
già
malata
da
tempo)
verso
il
passo
Bolan
per
cercare
rifugio
presso
la
corte
persiana.
Qui,
però,
venne
catturato
da
un
capo
tribù
afghano,
Malik
Jīwan,
che
lo
consegnò
ad
Aurangzeb.
Condotto
a
Delhi,
il
principe
sconfitto
venne
fatto
sfilare
in
catene
per
le
vie
della
città
sopra
a un
elefante.
La
fine
di
questa
vicenda
fu
la
decisione
di
Aurangzeb
di
far
processare
Dārā
per
eresia.
L’ortodosso
Aurangzeb
giocò
questa
carta
puntando
sul
fatto
che
se
Dārā
fosse
diventato
imperatore,
secondo
i
più
rigorosi
musulmani,
avrebbe
distrutto
l’ordine
sociale,
lo
stato
e la
stessa
fede
islamica
in
India.
Un
tribunale
di
ortodossi
ulema,
riconosciuta
l’accusa,
lo
condannò
a
morte
per
decapitazione:
la
sentenza
fu
eseguita
nel
settembre
dello
stesso
anno
e la
sua
salma
venne
sepolta
nel
mausoleo
di
Humayun
a
Delhi.
Dopo
aver
brevemente
esaminato
la
vita
di
Dārā
Šikōh
con
le
sue
travagliate
vicende
legate
alla
successione
al
trono
del
Pavone,
è
necessario
analizzare
la
figura
e le
opere
di
questo
principe
moghul
per
l’importanza
che
ebbero
nel
rapporto-confronto
delle
due
principali
religioni
presenti
nell’India
del
periodo:
l’Islam
con
la
cultura
induista.
Un’interessante
descrizione
del
principe
ci è
stata
fornita
dal
veneziano
Nicolò
Manucci
(1638-1707)
che
rimase
al
servizio
Dārā
come
artigliere
dal
1656
al
1659
e in
tal
modo
fu
testimone
diretto
della
guerra
da
esso
combattuta:
«Il
primogenito
del
re
Shah
Jahan,
il
principe
Dara,
fu
un
uomo
dai
modi
maestosi,
dal
volto
piacevole,
di
allegra
e
garbata
conversazione,
dal
discorso
pronto
e
rispettoso,
straordinariamente
liberale,
mite
e
caritatevole
[…]
Apprezzava
la
musica
e la
danza
[…]
Apprezzava
gli
europei.
Inoltre,
come
tutti
sapevano,
non
abbracciava
alcuna
religione.
Quando
era
con
i
maomettani
elogiava
i
principi
maomettani;
con
gli
ebrei,
la
religione
ebraica;
allo
stesso
modo,
quando
era
con
gli
hindu,
lodava
l’induismo
[…]»
(Manucci,
1981,
p.
47).
Questa
breve
descrizione
apre
uno
spiraglio
sulla
particolare
figura
e
sugli
interessi
del
principe:
persona
di
buona
compagnia,
dedito
a
diverse
arti
e
aperto
al
dialogo
anche
con
fedeli/maestri
di
altri
credi
religiosi:
tanto
da
non
essere
considerato
un
principe
islamico
da
un
europeo
a
lui
contemporaneo.
Dārā
nella
realtà
fu
un
uomo
con
una
grande
spiritualità,
che
nel
corso
del
tempo
fu
dedito
a
ricercare
i
più
contatti
possibili
tra
la
fede
islamica
e il
mondo
induista
e,
come
già
detto,
era
anche
stato
iniziato
formalmente
alla
confraternita
sufi
della
Qādiriyya.
Fin
da
giovane
al
posto
dell’arte
militare,
si
interessò
allo
studio
di
argomenti
esoterici
dell’Islam,
fu
attratto
dalla
vita
e
predicazione
dei
santi
e
dei
maestri
sufi
antichi
e a
lui
contemporanei
e si
interessò
allo
studio
del
Talmud
e
dei
Vangeli.
Il
1653
fu
l’anno
nel
quale
Dārā
iniziò
completamente
a
interessarsi
e a
indagare
la
tradizione
hindu.
Infatti
quell’anno
conobbe
l’asceta
e
yogin
Bābā
Lāl
Dās.
Nel
corso
dei
loro
incontri,
il
principe
pose
allo
yogin
una
serie
di
questioni
relative
al
pensiero
hindu:
sulla
mitologia,
sulla
ritualistica,
al
rapporto
tra
Dio,
l’anima
e il
mondo…
Queste
conversazioni
vennero
trascritte
dal
segretario
di
Dārā
Šikōh
e
infine
raccolte
col
titolo
di
Mukalama-yi
Baba
Lal
Das
wa
Dārā
Šikōh.
L’opera
originale
più
importante
del
principe
fu
senz’altro
la
Majma
‘al-Bahrayn
(La
congiunzione
dei
due
oceani).
In
questo
suo
scritto
venne
esposta
la
tesi
che
nonostante
le
differenze
esteriori,
vi
fosse
una
sostanziale
equivalenza
fra
le
concezioni
fondamentali
dell’Islam
e
quelle
dell’induismo.
Questo
trattato
comparativo
di
filosofia
e
religione,
completato
nel
1655,
non
deve
essere
scambiato
come
un
tentativo
di
fondere
insieme
le
due
religioni,
ma
aveva
lo
scopo
di
dimostrare
l’identità
essenziale
attraverso
la
comparazione
della
dottrina
sufica
e
del
Vedanta.
Pare
che
Dārā
volesse
con
il
suo
lavoro
rivolgersi
a
entrambe
le
comunità:
dopo
la
realizzazione
del
testo
persiano
ne
venne
fatta
anche
una
traduzione
in
sanscrito
fedele
al
testo
originario
con
però
la
sostituzione
di
alcuni
nomi
ed
esempi
della
tradizione
islamica
con
altri
ripresi
da
un
ambito
più
prettamente
induista.
Il
sufi
Dārā
considerava
i
Veda
come
un
“libro”
rivelato
e
per
dare
fondamento
a
questa
sua
affermazione
si
basava
su
alcuni
versetti
coranici
nei
quali
si
affermava
che
Dio
avesse
inviato
profeti
in
tutte
le
nazioni
e
che
quindi
anche
in
India
fosse
avvenuta
una
rivelazione
divina
in
tempi
remoti.
Dārā
rifiutò
completamente
l’idea
che
gli
induisti
fossero
dei
politeisti:
infatti
per
identificarli
nei
suoi
scritti
utilizzò
il
termine
di
“monoteisti
indiani”,
e
molte
divinità
del
pantheon
hindu
furono
da
lui
assimilate
a
figure
profetiche/angeliche
semitiche.
Come
traspare
da
questo
scritto
Dara
ritenne
di
aver
trovato
la
forma
più
pura
della
“dottrina
dell’unicità”
nel
pensiero
religioso
hindu,
più
precisamente
nel
monismo
di
alcune
scuole
vedantiche
secondo
le
quali
esiste
un’unica
Realtà
(brahman)
della
quale
tutti
gli
enti
non
sono
che
manifestazioni
illusorie.
Inoltre
Dārā
fu
un
grande
mecenate
delle
traduzioni
di
opere
sanscrite
in
persiano,
come
a
suo
tempo
lo
era
stato
il
suo
bisnonno
Akbar
(1542-1605).
Nel
1657
fu
completata
l’impresa
più
importante
patrocinata
dal
principe:
la
traduzione
di
cinquanta
Upaniṣad
raccolte
sotto
il
titolo
Sirr-i
akbar
(Il
Grande
Segreto).
Questa
raccolta
venne
tradotta
dal
persiano
al
latino,
dall’orientalista
francese
A.H.A.
Duperron
(1731-1805)
tra
la
fine
del
XVIII
e
gli
inizi
del
XIX
secolo:
fu
così
possibile
agli
occidentali
(anche
se
in
maniera
doppiamente
mediata)
accedere
per
la
prima
volta
alla
conoscenza
delle
Upaniṣad.
La
Sirr-i
akbar
e la
sua
traduzione
in
latino
rappresentarono
il
culmine
e
allo
stesso
tempo
l’inizio
della
fine
della
mediazione
islamica
tra
l’India
e
l’Occidente:
infatti
personalità
come
il
magistrato-orientalista,
funzionario
della
compagnia
inglese
delle
Indie
Orientali,
W.
Jones
(1746-1794),
che
conosceva
la
lingua
persiana,
iniziarono
a
studiare
direttamente
la
lingua
sanscrita
e a
tradurre
testi
senza
utilizzare
alcuna
mediazione
linguistica.
Il
principe
“mistico”
fu
un
organizzatore
culturale,
sul
modello
di
Akbar:
promosse
la
collaborazione
tra
i
dotti
e
mistici
delle
diverse
religioni,
fu
protettore
di
studiosi
e
poeti,
cercando
di
attuare
le
sue
ingenti
risorse
per
finanziare
grandi
progetti
culturali
come
l’importantissima
traduzione
in
persiano
delle
Upaniṣad.
Bisogna
però
sottolineare
che
questo
atteggiamento
di
apertura
religiosa
di
Dārā
ebbe
una
differenza
sostanziale
con
quello
attuato
in
precedenza
dal
suo
avo:
Akbar
fu
un
imperatore
che
si
interessò
anche
di
questioni
religiose,
invece
Dārā
fu
prima
di
tutto
un
mistico,
iniziato
a
una
confraternita
sufi,
e
poi
“secondariamente”
un
principe
imperiale.
Questo
comportò
l’appoggio
da
parte
del
settore
più
tradizionalista
della
società
islamica
all’ortodosso
e
pragmatico
Aurganzeb
contro
l’eterodosso
Dārā
nella
guerra
per
la
successione
al
trono.
In
conclusione,
la
vita
e
gli
scritti
di
Dārā
Šikōh
furono
senz’altro
importanti
per
una
riflessione
del
contatto
tra
la
cultura
e
religione
islamica
con
quella
induista;
non
bisogna
però
scordare
che
questo
incontro
nel
corso
della
storia
rimase
comunque
limitato
ad
alcune
correnti
mistiche,
agli
scritti
del
mistico
medievale
Kabīr
e
alla
concezione
religiosa
di
Guru
Nanak
(fondatore
del
sikhismo):
difatti
non
avvenne
mai
una
fusione
totale
tra
la
fede
islamica
con
le
antiche
tradizioni
religiose/culturali
indiane.
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