N. 122 - Febbraio 2018
(CLIII)
SULL'incendio del reichstag
UN MISTERO ALQUANTO "CHIARO"
di Gaetano Cellura
Il Reichstag di Berlino bruciava ancora, i
pompieri
erano
impegnati
a
domarne
le
fiamme
e la
caccia
ai
comunisti
era
già
iniziata,
nottetempo.
In
capo
a un
paio
di
giorni
vennero
arrestati
circa
cinquemila
militanti
della
sinistra
tedesca.
Anche
tra
i
socialdemocratici
si
cercavano
i
complici
di
Marinus
Van
der
Lubbe,
giovane
comunista
con
passaporto
olandese
accusato
di
aver
dato
fuoco
al
parlamento.
Il
testimone
Hans
Flotter,
studente
di
teologia,
dà
l’allarme
e
dice
di
averlo
visto
saltare
da
una
finestra
all’altra
del
primo
piano
con
una
torcia
in
mano.
Poco
dopo
la
polizia
arresta
il
giovane,
seminudo
e
madido
di
sudore:
nella
sala
Bismarck,
secondo
alcune
versioni;
fuori,
dietro
l’edificio
in
fiamme,
secondo
altre.
Tutt’attorno
è
spavento
di
pareti
che
crollano
e di
vetri
infranti.
“Perché
l’hai
fatto?”
–
gli
viene
chiesto.
E
lui:
“Per
protesta”.
La
messinscena
è
perfetta.
Van
der
Lubbe
viene
mostrato
al
presidente
del
Reichstag
Hermann
Göring,
che
urla:
“È
un
delitto
dei
comunisti”.
Il
giovane
è
malato
di
mente.
Altri
testimoni
dicono
di
avergli
sentito
preannunciare
in
una
birreria
l’intenzione
di
incendiare
il
Reichstang.
È il
27
febbraio
del
1933.
E
sono
le
nove
e un
quarto
della
sera.
Mancano
pochi
giorni
alle
elezioni
che
avrebbero
dato
a
Hitler
e ai
nazionalsocialisti
il
44
per
cento
dei
suffragi,
non
abbastanza
per
avere
la
maggioranza
assoluta.
Cancelliere
da
quattro
settimane,
Hitler
mira
decisamente
a
diventare
fuhrer.
I
pompieri
sono
all’opera
con
gli
idranti
mentre
Göring
lo
informa
dell’incendio.
“Questo
è
l’inizio
della
rivolta
comunista
–
risponde.
–
Cerchiamoli
e
impicchiamoli
stanotte
stessa,
senza
misericordia”.
Tra
gli
arrestati,
come
fiancheggiatore,
c’è
il
comunista
bulgaro
Georgi
Dimitrov
(dirigente
del
Comintern
per
l’Europa
occidentale).
Che
al
processo
di
Lipsia,
del
dicembre
del
1933,
riesce
a
smontare
ogni
accusa
a
proprio
carico
e
viene
assolto
per
insufficienza
di
prove
insieme
a
due
suoi
collaboratori.
Nei
lunghi
mesi
trascorsi
in
carcere
non
gli
erano
state
tolte
le
manette
né
di
giorno
né
di
notte.
Van
der
Lubbe
fu
il
solo
a
pagare.
Condannato
a
morte
e
giustiziato
il
10
gennaio
del
1934.
Ma a
Hitler
(e a
Göring,
che
considerava
i
comunisti
dei
delinquenti)
poteva
bastare.
Lo
scopo
–
quello
di
ottenere
pieni
poteri
dopo
l’incendio
del
Reichstag
–
l’aveva
raggiunto.
Ora
gli
premeva
mettere
a
tacere
gli
attacchi
alla
Germania
da
parte
della
stampa
estera
per
il
trattamento,
fuori
dal
diritto
internazionale,
che
era
stato
riservato
agli
imputati.
La
Repubblica
di
Weimar
vive
le
sue
ultime
ore.
Le
ombre
della
dittatura
e
del
Terzo
Reich
si
addensano
sulla
Germania
e
sull’Europa.
L’emergenza
è
tale
agli
occhi
dell’opinione
pubblica,
tanta
la
tensione
che
il
vecchio
presidente
Paul
von
Hindenburg
non
può
fare
a
meno
di
conferire
a
Hitler
quei
poteri
che
ancora
non
detiene.
I
banchi
vuoti
dell’opposizione,
i
cui
capi
sono
stati
arrestati,
gli
spianano
ancora
meglio
il
terreno
del
potere
assoluto.
Otto
mesi
dopo
viene
celebrato
il
processo
al
giovane
incendiario
e ai
suoi
“complici”.
E
Georgi
Dimitrov
rilascia
questa
dichiarazione:
“Secondo
la
mia
opinione,
Van
der
Lubbe
è in
questo
processo,
per
così
dire,
il
Faust
dell’incendio
doloso
del
Reichstag.
Questo
misero
Faust
sta
davanti
al
tribunale,
mentre
il
Mefistofele
dell’incendio
doloso
del
Reichstag
non
c’è”.
Il
dirigente
del
Comintern
lascia
intendere
che
il
Mefistofele
deve
essere
cercato
tra
i
nazisti.
Il
mutismo
del
giovane
olandese
per
tutta
la
durata
del
processo,
d’altra
parte,
rende
concreto
il
sospetto
di
un
suo
stordimento
con
droghe.
Ma,
al
di
là
di
tutto,
è
credibile
che
questo
giovane,
unico
condannato,
e
ritenuto
mezzo
scemo,
abbia
potuto
agire
da
solo?
Gli
storici
tedeschi
sono
ancora
divisi
sulle
responsabilità
dirette.
Benché
la
testimonianza
di
Franz
Halder
al
processo
di
Norimberga
abbia
in
qualche
modo
chiarito
le
cose.
Il
capo
dello
stato
maggiore
tedesco
riferì
di
aver
sentito
nel
1942
Göring
(che
smentirà
tutto)
pronunciare
queste
parole:
“
L’unica
persona
che
sa
come
sono
andate
le
cose
al
Reichstag
sono
io,
perché
sono
io
che
l’ho
incendiato”.
Questa
versione
confermerebbe
quella
del
giornalista
americano
William
Shirer.
Secondo
cui
attraverso
una
galleria
sotterranea,
costruita
per
le
condutture
del
riscaldamento,
che
dal
palazzo
di
Göring
conduceva
all’edificio
del
Reichstag,
Karl
Ernst
(ex
cameriere
d’albergo
diventato
capo
delle
SA
di
Berlino)
vi
avrebbe
guidato
alcuni
uomini
dei
reparti
d’assalto.
Per
spargervi
benzina
e
sostanze
chimiche.
Altre
testimonianze
rese
sotto
giuramento
a
Norimberga
inchioderebbero
Göring
alle
sue
responsabilità.
Quella
di
Hans
Gisevius,
funzionario
al
ministero
dell’interno,
che
attribuisce
a
lui
e a
Goebbels
l’organizzazione
dell’incendio.
E
quella
di
Rudolf
Diels,
ex
capo
della
Gestapo,
il
quale
dichiarò
che
il
presidente
del
Reichstag
aveva
pronta
una
lista
di
persone
da
arrestare
già
prima
del
suo
incendio.
Settant’anni
dopo
la
condanna
a
morte
di
Marinus
Van
der
Lubbe
la
Procura
generale
ha
annullato
la
sentenza
ritenendola
illegittima.
C’è
da
credere
dunque
che
quella
sera
del
27
febbraio
del
1933
i
nazisti
perseguivano
l’obiettivo
di
destabilizzare
il
paese
creando
disordine
e
insicurezza
sociale
per
favorire
e
giustificare
la
venuta
dell’uomo
forte.