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N. 62 - Febbraio 2013 (XCIII)

L'Impero Bizantino dall'apice alla sua caduta
Longobardi, arabi e normanni contro l'Impero - parte II
di Christian Vannozzi

 

Nella seconda metà del secolo VI, i Longobardi, guidati dal Re condottiero Alboino, si erano impadroniti di quasi tutta la penisola italiana, fiore all’occhiello delle riconquiste di Giustiniano. In mano all’impero rimanevano l’esarcato di Ravenna e il Ducato romano, più i territori costieri dell’Italia meridionale e le isole.

 

Sotto l’imperatore Maurizio i territori italiani passarono sotto l’amministrazione militare di un magister militum Italie e iniziarono i primi contrasti con il clero e gli aristocratici della penisola italiana.

 

Le cose non andavano meglio in Oriente dove la regione balcanica, era soggetta alla penetrazione degli slavi, che erano stanziati in un vasto territorio a nord dei Carpazi tra il fiume Vistola e il corso medio del Dnjepr. Le popolazioni slave erano sconfinate nell’Illiria e in Tracia a causa delle deboli difese delle legioni bizantine.

 

Nel 610 Eraclio, figlio dell’esarca di Cartagine, con l’appoggio di senato e aristocrazia provinciale fu proclamato imperatore con l’obiettivo di ristabilire l’ordine nell’Impero. A quel punto gli slavi avevano però già varcato il Danubio e con imbarcazioni di fortuna avevano iniziato a saccheggiare le coste adriatiche fino ad affacciarsi davanti le porte di Costantinopoli che si vide minacciata da slavi, bulgari e avari mentre le province del medio-oriente subivano la pressione dell’impero Sassanide.

Attaccata dai barbari e dai Sassanidi via mare, Costantinopoli riuscì a resistere grazie alla superiorità della flotta bizantina e, secondo la leggenda, grazie alla vergine Maria che il patriarca di Costantinopoli aveva invocato per proteggere la capitale.

 

L’imperatore Eraclio, nel frattempo, sottometteva in oriente l’impero Sassanide annientando uno dei più temibili nemici dell’impero mentre i bulgari e gli slavi, se pur sconfitti, si stanziarono nella zona a sud del Danubio.

 

Scomparsa la minaccia persiana l’impero dovette però iniziare a fronteggiare un più temibile nemico, l’Islam.

 

A partire dalla morte del Profeta Maometto, nel 633, gli islamici procedettero alla conquista dell’impero persiano, ormai in decadenza dopo la sconfitta infertagli da Eraclio, per poi volgersi verso le città costiere bizantine. Le truppe bizantine vennero infatti rovinosamente sconfitte a Yarmuk.

 

Gli islamici conquistarono Siria, Palestina ed Egitto per poi volgersi alla conquista dell’Africa mediterranea occidentale, alla penisola iberica e alla Sicilia.

 

L’invasione islamica distrusse l’unità del mediterraneo e sconvolse gli antichi stili di vita paralizzando i traffici tra Oriente ed Occidente e spostando verso nord i centri vitali della civiltà europea.

 

L’Europa occidentale infatti ripiegò su se stessa, poiché i traffici erano impossibili in un mare quasi totalmente dominato dalla flotte da guerra e dai pirati saraceni.

Gli islamici scelsero come capitale l’antica città di Damasco e la guida dell’Umma fu detenuta dalla famiglia omayyade della tribù di Maometto, i Quraish.

 

Al contrario di quanto si possa credere il califfato omayyade che si estendeva dalla città di Samarcanda alla penisola iberica fu contraddistinto da una brillante civiltà urbana e da una grande tolleranza religiosa quale nessuna società aveva mostrato fino a quel momento. Non vi erano infatti conversioni forzate, il califfato si limitava a chiedere tributi ai non musulmani e decretando una inferiorità giuridica dei non islamici rispetto ai fedeli, rispettando però i loro modelli di vita.

 

L’impero, circondato dal potente vicino, rimaneva però pur sempre una potenza regionale e la sua flotta, concentrata ormai solo nell’Egeo, teneva testa alla flotta islamica.

 

La flotta islamica subì infatti una disastrosa sconfitta contro quella bizantina nel 678, che costrinse il Califfo a chiedere la pace all’imperatore. La grande vittoria navale fece si che i Bulgari mandassero doni a Costantinopoli, riconoscendone la supremazia e il ruolo di potenza regionale.

 

L’impero che all’inizio del VII secolo comprendeva ancora l’Africa settentrionale, la Siria, la Palestina, l’Asia minore e parte dell’Italia, nel secolo VIII, in seguito all’invasione araba e slava, sposta il suo centro sull’Anatolia, ponendo fine alle sue ambizione universalistiche.

 

L’età dei Basilici era stata contraddistinta da grande stabilità. Durante la loro dinastia l’impero aveva conosciuto una nuova fase di espansione verso oriente a danno del califfato di Baghdad che attraversava un periodo i decadenza. L’impero si era così imposto come potenza egemone del Mediterraneo orientale.

 

Sul confine orientale i turchi invasero il califfato di Baghdad ottenendo per i loro comandanti il titolo di Sultano e relegando il Califfo alla sola sfera di competenza religiosa.

 

Il sistema difensivo ideato dai basilici, quello dei Thema, unità territoriali di difesa sotto il diretto controllo di un generale, Strategos, gravava troppo finanziariamente sulla popolazione che non riusciva più a sostenere una simile pressione fiscale.

L’imperatore Costantino Ducas decise quindi di rinunciare ai Thema per diminuire le spese pubbliche. In tale contesto i turchi riuscirono senza troppe difficoltà ad invadere l’Anatolia bizantina.

 

Nel 1071, a Mantzikert, l’impero bizantino fu rovinosamente sconfitto dai turchi selgiuchidi. A causa della disfatta in Asia la situazione internazionale si era fatta molto critica per l’impero che vedeva i propri confini minacciati da più aggressori.

 

La battaglia di Mantzikert chiude la grande campagna militare intrapresa contro i turchi dall’imperatore Romano IV Diogene, il quale sin dal momento della salita al trono nel 1068 era apparso intenzionato a capovolgere la politica estera dei predecessori. Sostenuto dai soldati cappadoci e desideroso di riformare l’esercito sull’ordinamento tematico, egli riteneva che invece di continuare una politica militare difensiva fosse giunto il momento di sferrare un’offensiva verso gli avamposti turchi.

 

La sconfitta non rappresentava di per se un disastro irreparabile, in quanto il sultano appariva interessato ad affermare la propria superiorità nei confronti dei Fatimidi d’Egitto e non verso l’impero bizantino.

 

Il trattato di pace concedeva ai turchi le roccaforti a nord del lago Van, con la rinuncia agli altopiani armeni e alle terra racchiusa nel bacino dell’Eufrate.

 

La sconfitta fu però tramutata in disfatta dal contemporaneo crollo dei domini Bizantini in Italia e a causa di una guerra civile che investì la capitale in seguito alle disfatte militari.

 

Nell’Italia meridionale, i normanni avevano proceduto velocemente alla conquista del territorio. Brindisi, Taranto, Otranto e Bari furono occupate facilmente sfruttando l’impegno militare dell’impero in Oriente.

 

Nel triste periodo che va dalla morte di Basilio II all’ascesa al trono di Alessio Comneno, la politica estera dell’impero registrava il crollo completo della potenza bizantina in Asia, la perdita definitiva dei possedimenti italiani e un notevole indebolimento dell’autorità bizantina nella penisola balcanica. La situazione interna era inoltre caratterizzata da una grave paralisi del potere centrale, da serie difficoltà economiche e dalla disgregazione del sistema economico-sociale del periodo precedente.

 

L’intera Asia minore era stata invasa dai selgiuchidi e, in occidente, i normanni di Roberto il Guiscardo, occupata l’Italia meridionale, indirizzarono i loro interessi verso la sponda orientale dell’adriatico.

 

Dopo le sconfitte militari l’aristocrazia di Costantinopoli indicò come imperatore Alessio Comneno, rappresentante dell’aristocrazia militare.

 

L’imperatore procedette ad una distribuzione delle risorse finanziarie tramite la moltiplicazione delle esenzioni fiscali. Tali esenzioni attuate in concomitanza con l’espansione del patrimonio fondiario furono un elemento non trascurabile delle riforme amministrative dei Comneni.

 

Le esenzioni fiscali, chiamate logisima, consistevano nel cedere al beneficiario il gettito fiscale di un determinato bene. Se questi già ne era il titolare si trattava di una semplice rimessa di imposta sui propri averi. Più complesso era quando questo richiedeva la riscossione di un imposta altrui. In tale eventualità infatti una simile concessione non si configurava solo come l’assegnazione di un reddito tributario ma come un espediente per semplificare il sistema amministrativo in quanto eliminava l’esigenza di riscuotere le imposte nelle province.

 

E’ doveroso ricordare che tali sistemi non minavano assolutamente il potere politico centrale, in quanto questi non erano trasmissibili per testamento o alienabili in alcun modo. Non solo decadevano alla scomparsa del loro titolare ma potevano essere revocati dal sovrano ed assegnati ad altri in qualsiasi momento. Inoltre quando l’imperatore concedeva a un potente di riscuotere proventi fiscali su beni di terzi la nozione di imposta continuava a sussistere sia pure attraverso tale tipo di delega, così che il logisismo di per se non presupponeva alcuna subordinazione giuridica ne sottraeva all’autorità pubblica la popolazione ad esso costretta.

 

Un'altra istituzione dell’epoca comnena fu la pronoia. Questa consiste nella cessione di una rendita fiscale in cambio di una prestazione perlopiù di carattere militare. Tale istituzione non è da confondere con il feudo occidentale, in quanto essa ne differisce notevolmente. Il termine pronoia, comunemente usato per indicare l’attitudine cristiana alla sollecitudine, nei confronti di persone o istituzioni e per traduzione passato a significare “amministrazione” di un dato bene. Cominciò ad acquisire un più preciso connotato tecnico soltanto a partire dal regno di Manuele Comneno. Fu da allora che il termine passò a significare un’attività amministrativa predisposta a retribuire i beneficiari senza intaccare direttamente le finanze dello stato.

 

Si provvide così a remunerare un certo numero di ufficiali, bizantini e stranieri, assegnando loro dei lotti di terra statale in cambio di prestazioni militari. Le fonti di reddito della pronoia erano due, derivanti entrambe dalla terra, vale a dire le rendite fondiarie e le corvè a vario titolo dovute dai coltivatori per lo sfruttamento del suolo e dei gettiti fiscali prodotti da quel fondo medesimo.

 

I beneficiari della pronoia, non vanno confusi con i proprietari terrieri. Questi infatti non coltivavano direttamente la terra dei fondi a loro assegnati, e vanno quindi distinti dai proprietari, che sono inseriti a pieno titolo nella comunità rurale di cui sono parte integrante. La pronoia è un’attribuzione da parte dell’imperatore di redditi accordati a titolo vitalizio e facilmente revocabili, provenienti da un dato bene, sul quale lo stato manteneva le prerogative giuridiche, vietando al beneficiario di alienarlo o di trasmetterlo per testamento. La sostanza della pronoia è essenzialmente di carattere pubblico, non presupponeva la giurisdizione sul fondo concesso e non conferiva al beneficiario alcun rango particolare, o potere pubblico, se non quello che il beneficiario deteneva dal ruolo occupato nell’esercito o nell’amministrazione.



 

 

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