N. 46 - Ottobre 2011
(LXXVII)
Imperialismo e globalizzazione
La società romana e il mondo mediterraneo
di Miro Gabriele
Il problema dell’imperialismo di Roma è un problema antico, risale all’epoca stessa in cui la repubblica stava assumendo il controllo del Mediterraneo, cioè al II secolo a.C. Se ne occupò lo storico greco Polibio, contemporaneo degli avvenimenti, che nella sua opera analizza genesi e ascesa del potere romano. Figlio di uno dei capi della lega Achea, venne condotto a Roma nel 168 a.C., insieme ad un migliaio di altri ostaggi, accusati di aver favorito i macedoni.
Vi rimase alcuni anni
legandosi
a
Scipione
Emiliano,
di
cui
fu
precettore
e
che
poi
seguì
nelle
campagne
militari,
assistendo
alla
distruzione
di
Cartagine
nel
146
a.C.
e
alla
capitolazione
di
Numanzia
in
Spagna
nel
133
a.C.,
episodi
che
sancirono
il
definitivo
predominio
romano
sull’area
mediterranea.
Polibio
si
chiese
le
ragioni
del
travolgente
successo
della
città,
inserendosi
in
un
dibattito
che
vedeva,
soprattutto
in
ambiente
greco,
chi
mal
sopportava
la
supremazia
romana
e
chi
invece
la
giustificava
in
vari
modi.
Egli
trovò
valide
ragioni
al
predominio:
i
romani
vincevano
e
dominavano
perché
erano
“i
migliori”,
in
tutti
i
campi,
militari
e
civili,
quindi
era
giusto
obbedirgli.
Polibio
studiò
la
costituzione
romana,
giudicandola
come
la
più
buona
fra
le
varie
dell’epoca,
per
il
giusto
equilibrio
fra
unità
politica,
collegialità
di
opinioni,
e
rispetto
delle
leggi.
Soprattutto
la
libertà
data
ad
ogni
cittadino
dall’osservanza
della
legge,
la
consapevolezza
cioè
di
essere
tutti
sottomessi
ad
un'unica
legge
certa,
aveva
portato
i
romani
ad
eccellere
e a
conquistare
il
mondo.
Esisteva
dunque
una
necessità
storica
che
“obbligava”
i
popoli
ad
obbedire
a
chi
era
migliore
di
loro.
Secondo la visione di
Polibio,
comune
a
molta
parte
della
storiografia
antica,
la
storia
era
essenzialmente
universale,
gli
avvenimenti
si
intrecciavano
in
un
tutto
organico,
che
coincideva
con
la
storia
di
Roma
e
del
suo
disegno
di
unificazione
dei
popoli.
Che
cosa
sarebbe
successo
se
Roma
non
avesse
conquistato
il
potere
nel
mondo
antico?
Senza
la
vittoria
di
Zama
del
202
a.C.,
al
termine
della
seconda
guerra
punica,
il
destino
del
bacino
del
Mediterraneo
sarebbe
stato
diverso,
forse
Roma
non
sarebbe
divenuta
la
città
eterna.
Si
sarebbe
probabilmente
sviluppata
Cartagine,
l’unica
città,
oltre
Roma,
in
grado
di
interpretare
il
ruolo
di
grande
potenza,
e
avrebbe
imposto
la
propria
egemonia.
Ricordiamo
come
la
città
punica
avesse
già
avuto
un
suo
piccolo
impero,
comprendente
Sicilia
occidentale,
Sardegna,
Corsica
e
parte
della
Spagna
meridionale,
oltre
al
territorio
nazionale
nel
nord
dell’odierna
Tunisia.
Del
resto
né
gli
stati
ellenistici
del
vicino
Oriente,
né
tanto
meno
le
poche
città
greche
libere,
erano
in
grado
di
imporre
una
qualche
supremazia
sul
resto
dei
popoli,
e
ciò
per
vari
motivi:
per
difetti
organizzativi,
debolezza
militare,
e
per
scarsa
coesione
delle
società
civili.
Avrebbe
prevalso
la
città
punica,
e
non
si
sarebbe
costituito
l'ordinamento
giuridico
e
politico
sul
quale
è
fondata
la
nostra
civiltà
occidentale.
La cultura ellenistica,
a
cui
Cartagine
sia
pur
di
origina
fenicia
apparteneva,
avrebbe
imposto
il
suo
sistema
basato
sull’individualismo
e
avente
come
unico
obbiettivo
l’espansione
commerciale
nei
centri
del
Mediterraneo.
Non
avrebbe
prevalso
lo
spirito
di
comunità
e di
interesse
verso
le
altre
culture
che
fu
uno
dei
meriti
di
Roma.
La
città,
a un
certo
punto
della
storia,
si
trovò
ad
essere
depositaria
di
tutto
ciò
che
le
civiltà,
nate
sulle
sponde
del
Mediterraneo
e
confluite
nel
suo
impero,
avevano
creato
nel
corso
del
tempo.
Essa
fu
il
vero
centro,
la
vera
sintesi
del
mondo
antico,
del
suo
pensiero
e
dei
suoi
canoni
estetici.
Ogni manifestazione dello
spirito
e
dell’ingegno
umano
vi
trovò
posto
ed
attenzione,
mai
nessuna
altra
società
fu
così
ecumenica,
così
tollerante
e
multirazziale,
curiosa
di
ogni
espressione
d’arte,
di
pensiero
e di
costume.
Le
contrapposizioni
fra
i
popoli
del
resto
si
basarono
sempre
sul
primato
della
forza
e
dell’organizzazione
sociale
e
mai
su
idee
di
superiorità
razziale,
concetto
che
era
totalmente
estraneo
a le
società
antiche.
Si
parla
molto
oggi
di
globalizzazione,
ma
la
prima
globalizzazione
della
storia
fu
quella
dell’impero
romano.
Nei
lunghi
periodi
di
pace
a
partire
dal
31
a.C.,
l’impero
diventò
un
vero
e
proprio
mercato
globale,
dove
merci,
idee
e
persone
circolavano
liberamente,
e
ogni
provincia
contribuiva
coi
suoi
prodotti
e
con
i
suoi
uomini
all’interscambio.
Visto
in
tale
ottica
l’impero
romano
rappresentava
un’unica
entità
economica,
autosufficiente
in
tutti
i
beni
essenziali,
la
cui
coesione
era
resa
possibile
anche
da
fattori
geografici,
quali
un
mare
interno
che
metteva
in
comunicazione
le
varie
regioni,
e il
sistema
di
fiumi
che
vi
sboccava.
Altro
fenomeno
importante,
e
nuovo
in
un
certo
senso
per
l’antichità,
fu
l’unificazione
linguistica,
con
la
sovrapposizione
del
latino,
lingua
ufficiale
(accanto
al
greco
per
le
regioni
d’oriente),
ai
vari
idiomi
locali.
E
inoltre:
la
circolazione
del
sesterzio,
che
era
a
tutti
gli
effetti
valuta
unica.
Quella
romana
fu
la
prima
società
multietnica
del
mondo,
una
specie
di
“melting
pot”
come
si
usa
dire
oggi,
capace
di
tenere
unite
e
valorizzare
le
genti
più
diverse.
Era
normale
incontrare
per
strada
a
Roma,
e
nelle
altre
grandi
città:
galli,
britanni,
africani,
greci,
germani,
egizi,
ispanici,
arabi,
non
solo
come
schiavi,
ma
anche
come
liberi
commercianti
o
artigiani,
senza
che
ciò
costituisse
motivo
di
imbarazzo
o di
preoccupazione
per
alcuno.
Memori
delle
proprie
origini
multietniche,
della
rapida
e
proficua
integrazione
delle
genti
del
Lazio
nella
prima
età
monarchica,
i
romani
non
si
fecero
mai
alcun
problema
di
tipo
razziale.
Il
problema
della
superiorità
delle
razze
era
inesistente
nel
mondo
antico,
altre
erano
le
cose
che
facevano
la
differenza,
sempre
identificate
in
valori
concreti
quali
la
forza,
il
coraggio,
la
lealtà.
Molti
personaggi
non
romani,
e
neppure
italici,
ottennero
la
carica
imperiale:
Traiano
e
Adriano
erano
spagnoli,
Settimio
Severo
africano
di
origine
fenicia,
Diocleziano
dalmata.
Nel
248
d.C.
i
grandi
festeggiamenti
per
il
millenario
di
Roma
furono
organizzati
dall’imperatore
Filippo
l’Arabo,
il
cui
cognomen
non
era
dovuto
a
qualche
vittoriosa
campagna
d’oriente,
ma
indicava
proprio
la
sua
origine:
era
figlio
di
principi
beduini.
Roma
riuscì
in
una
impresa
non
riuscita
nemmeno
ad
Alessandro
Magno
(che
pure
voleva
unificare
il
mondo)
quella
cioè
di
livellare
le
antiche
differenze
fra
i
popoli,
contribuendo
a
creare
un
mondo
comune
all’interno
di
un’unica
struttura
statale,
senza
soffocare
le
particolarità
locali.
Questa
grande
società,
“federale”
se
vogliamo
azzardare
il
termine,
dipendeva
politicamente
da
Roma,
ed
era
posta
sotto
la
tutela
del
suo
esercito,
che
garantiva
la
sicurezza
dei
confini
e
l’ordine
interno.
Questo
mondo
comune
poté
svilupparsi
in
condizioni
di
tranquillità
e di
prosperità
mai
raggiunte
prima.
Roma
riuscì
ad
assimilare
gran
parte
delle
popolazioni
sottomesse,
a
renderle
in
un
certo
senso
romane,
e a
legarle
al
potere,
facendone
partecipi
le
classi
dominanti
delle
provincie.
Lo
stato
romano
poteva
contare
fra
l’altro
su
un
sistema
giuridico
accurato
e
sicuro,
e su
un
apparato
militare
capace
di
adattarsi
ad
ogni
esigenza
Si
fanno
molti
paragoni
con
gli
imperi
coloniali
della
storia
recente,
in
modo
particolare
con
l’imperialismo
della
società
americana.
Punti
di
contatto
ce
ne
sono,
soprattutto
con
l’impero
americano,
se
si
prende
in
considerazione
la
capacità
degli
USA
di
imporre
modelli
culturali
e
una
rete
economica
universale,
e
per
la
presenza
al
suo
interno,
in
ruoli
comunque
nettamente
subalterni,
di
culture
“altre”,
non
ufficiali.
Ma
le
vere
armi
di
Roma,
quelle
che
differenziano
i
due
imperialismi,
furono
la
tolleranza
e un
certo
rispetto
nei
confronti
dei
popoli
e
delle
culture
che
esprimevano,
e
una
organizzazione
amministrativa
con
vaste
autonomie,
non
avendo
la
città
neppure
una
gestione
diretta
dei
territori,
si
preferì
quasi
sempre
ricorrere
a
strutture
tipo
protettorati,
o a
modelli
simili
al
sistema
cantonale
svizzero.
Rispetto alle esperienze
moderne,
l’espansione
romana
si
basò
certamente
sulla
forza
militare,
ma
senza
l’idea
di
una
superiorità
razziale
o
culturale.
Spiriti
pratici
per
eccellenza,
i
romani
seppero
riconoscere
i
lati
migliori
delle
altre
culture,
adattando
spesso
le
loro
idee
e
gli
stili
di
vita
a
modelli
esterni,
un
po’
come
accade
nella
società
giapponese
d’oggi.
Tutto
questo
senza
voler
giustificare
ad
ogni
costo
un
atteggiamento
di
fondo
di
tipo
bellicistico,
che
certamente
era
presente,
ma
che
non
fu
mai
l’unica
molla
d’azione,
e
che
del
resto
era
comune
a
tutti
i
popoli
del
mondo
antico,
nessuno
escluso.
C’è
poi
da
dire
come
al
confronto
dei
peggiori
esempi
della
storia
contemporanea,
l’economia
romana
non
fu
mai
un’economia
“di
rapina”,
bensì
un
sistema
che
per
funzionare
aveva
bisogno
dell’apporto
di
tutti,
e
della
prosperità
di
ogni
regione,
e
che
quindi
cercava
di
far
circolare
in
modo
paritario
e
uniforme
beni
e
prodotti
di
ogni
comunità.
L’imperialismo
di
Roma
non
ebbe
quindi
quelle
caratteristiche
di
violenza
gratuita
e di
intolleranza
verso
le
genti
assoggettate,
che
hanno
avuto
ed
hanno
spesso
gli
imperialismi
moderni.
La
creazione
di
un
mondo
comune,
un
mosaico
di
popoli
costituente
un’unica
entità
politica,
economica
e
culturale,
è la
maggiore
gloria
che
possa
attribuirsi
a
Roma.
Tutto
ciò
che
chiamiamo
civiltà
occidentale
discende
da
quella
realtà:
ordinamenti
giuridici,
istituzioni,
sistemi
amministrativi,
mentalità,
e
l’idea
stessa
di
un’Europa
unita.
Quel
“mondo
comune”
può
chiarirci
un
fenomeno
altrimenti
inspiegabile:
il
motivo
per
cui,
nel
corso
dei
secoli,
furono
rarissime
le
rivolte
delle
popolazioni.
La
caduta
del
potere
imperiale
di
Roma,
non
lo
si
mette
mai
abbastanza
in
evidenza,
non
fu
dovuto
alla
sollevazione
delle
popolazioni
sottomesse,
ma
alla
crisi
economica
e
all’invasione
di
popoli
stranieri.
Quasi
al
termine
della
lunga
storia
romana,
pochi
anni
dopo
il
saccheggio
della
città
da
parte
dei
Visigoti
di
Alarico
nel
410
d.C,
data
emblematica
per
la
fine
del
mondo
antico,
Rutilio
Namaziano,
poeta
di
origine
gallica,
così
scriveva:
“Hai
fatto
di
genti
diverse
una
sola
patria,
ha
giovato
a
chi
era
senza
legge
entrare
sotto
il
tuo
dominio,
e
offrendo
ai
vinti
l’unione
nel
tuo
diritto,
hai
fatto
una
città
di
quel
che
prima
era
il
mondo”.
E’
un
appassionato
congedo
da
Roma,
quasi
l’estremo
commento
a
quanto
aveva
scritto
su
di
essa
un
greco:
Polibio,
cinque
secoli
prima.