N. 74 - Febbraio 2014
(CV)
IL SALTO DI QUALITÀ DELL’IMPERIALISMO EUROPEO
1850–1914
di Alessio Pitirra
L’imperialismo
non
è
certo
un
fenomeno
recente
nella
storia
dell'uomo,
anzi
per
certi
versi
è
relazionato
allo
sviluppo
e al
benessere
di
molte
società.
Agamennone
e
l’invasione
di
Troia,
l’espansione
romana,
lo
stesso
Napoleone
pochi
decenni
prima,
la
società
del
novecento
conosceva
già
diversi
esempi
di
strutture
politico-istituzionali
che
avevano
esteso
i
loro
possedimenti
e
rimodellato
altre
società.
Nel
sedicesimo
secolo
gli
stati
europei
consideravano
i
territori
d'oltremare
come
conquiste
da
ottenere
e
conservare.
Durante
quest'epoca
le
corone
di
tutta
Europa
avevano
iniziato
a
rilasciare
brevetti
di
traffico
a
imprese
semi-private,
una
strategia
iniziale
di
influenza
economica,
con
relativo
ma
limitato
controllo
militare.
È
dopo
il
1850
che
la
politica
di
“imperialismo
informale”
cambia;
i
piccoli
posti
di
commercio
marittimo
si
trasformavano
in
grandi
insediamenti
d'oltremare,
teste
di
ponte
da
cui
iniziare
guerre
per
successive
conquiste,
per
questa
ragione
dopo
il
1850
questi
insediamenti
aumentarono
di
numero
e
dimensione.
Già
nel
1494
con
il
trattato
di Tortesillas,
Spagna
e
Portogallo
avevano
diviso
il
resto
del
mondo
tra
loro,
ma
per
altri
300
anni
lo
sfruttamento
di
questi
territori
si
limitava
all'importazione
di
materie
prime,
metalli
o
schiavi.
Fu
all'inizio
del
secolo
diciannovesimo
che
il
commercio
diventò
una
questione
internazionale,
solo
in
Inghilterra
il
volume
delle
importazioni
asiatiche
passava
dal
9,3%
nel
1850
al
56,2%
nel
1900.
L'espansione
Europea
diventava
sempre
più
globale
grazie
ad
un
eccezionale
sviluppo
economico-tecnologico,
conseguenza
della
rivoluzione
industriale
nel
Vecchio
Continente,
che
conferiva
agli
stati
imperiali
una
superiorità
schiacciante
sul
resto
del
mondo.
La
superiore
tecnologia
raggiunta
diede
a
questi
stati
la
possibilità
di
espandersi
oltremare,
mascherando
una
strategia
di
conquista
con
l’esportazione
di
un
più
alto
valore
morale.
I
grandi
imperi
moderni
di
Russia,
Francia
e
Inghilterra
e i
nuovi
regni
di
Italia
e
Germania
consideravano
legittimo
“civilizzare”
da
qualche
parte,
paradossalmente
“l'esportazione
della
civiltà”
era
considerata
un
dovere
per
il
“superiore”
uomo
bianco.
“Dobbiamo
educare
le
persone
che
non
possono
attualmente
essere
educate
attraverso
la
loro
lingua
madre”,
diceva
Thomas
Macaulay
a
proposito
della
colonizzazione
dell’India
da
parte
dell’
esercito
Britannico.
Molti
intellettuali
condividevano
questa
tesi,
alcuni
distorcendo
le
teorie
di
Darwin
sull'
evoluzione
delle
specie
animali
in
un
ambiente
circoscritto,
le
applicavano
all'
uomo
ribadendo
fosse
giusto
che
anche
nella
razza
umana
gli
elementi
più
forti
prevalessero
a
discapito
degli
altri.
La
colonizzazione
di
questi
territori
riscuoteva
un
ampio
consenso
nella
società
europea,
in
particolare
tra
i
cittadini
della
classe
media,
rappresentava
un
nuovo
mercato
per
gli
imprenditori
borghesi
e
una
nuova
casa
per
i
contadini.
I
“Dominions”
erano
il
posto
ideale
per
i
meno
abbienti
in
cerca
di
un
riscatto
nella
vita,
un
luogo
dove
poter
raggiungere
il
successo
economico
negato
in
madre
patria
da
condizioni
sociali
legate
alla
nascita.
“Voi
mi
chiedete
cosa
pensano
gli
operai
inglesi
sulla
politica
coloniale
?
Beh,
esattamente
ciò
che
ne
pensa
la
borghesia
al
comando
del
paese.”
(Frederick
Hengels).
Il
colonialismo
demografico
era
un
principio
condiviso
da
tutti
in
Europa;
per
esempio,
anche
un
antagonista
dell'imperialismo
come
John Hobson
giustificava
la
questione
australiana
con
la
missione
civilizzatrice
dei
coloni,
definendo
l'emigrazione
verso
quelle
terre
una
valvola
sociale
per
l'eccesso
demografico
delle
popolazioni
metropolitane
del
Vecchio
Continente.
Il
fenomeno
della
colonizzazione
si
modificò
dopo
il
1850;
da
espansione
territoriale
e
commerciale
diventava
anche
espansione
demografica.
Tipico
esempio
di
questa
affermazione
era
l'invasione
del
continente
australiano,
dove
la
terra
veniva
espropriata
ai
legittimi
proprietari
e
rapidamente
passata
ai
coloni
inglesi
mentre
i
nativi
venivano
rinchiusi
nelle
riserve
e
sterminati
in
breve
tempo.
Lo
sterminio
degli
aborigeni
australiani
rimarrà
una
della
pagine
più
nere
della
storia
britannica.
I
nativi
ormai
decimati
ottennero
la
cittadinanza
solo
nel
1962
e la
maggior
parte
di
essi
oggi
sopravvive
con
i
magri
sussidi
statali.
Non
tutte
le
invasioni
coloniali
hanno
raggiunto
un
livello
così
negativo,
ma
la
repressione
degli
indigeni
è un
evento
non
trascurabile
nello
studio
dell’espansione
degli
Imperi,
soprattutto
dopo
l’istituzionalizzazione
di
questa
repressione
sancita
dai
grandi
d’Europa
con
il
trattato
di
Berlino
del
1844.
Al
Congresso
di
Berlino
quell’
anno,
i
governi
europei
avevano
deciso
di
istituzionalizzare
il
colonialismo
dividendo
l'Africa
senza
considerarne
i
confini
tradizionali,
principio
in
completa
antitesi
con
l’idea
di
“grandeur”
nazionalista
tipica
di
questi
stati.
Il
rispetto
di
nazionalità
e
autodeterminazione
di
un
popolo,
ribadito
dal
Congresso
di
Vienna
nel
1815,
veniva
applicato
solamente
tra
stati
coloniali
preoccupati
di
salvaguardare
i
propri
interessi
a
scapito
delle
culture
colonizzate
da
essi.
Questa
si
rivelò
una
strategia
vincente,
almeno
nel
breve
termine;
nel
periodo
1850-1914,
la
percentuale
della
superficie
del
mondo
sotto
il
controllo
europeo
passava
dal
35%
nel
1830
all’
84,4%
nel
1914.
La
classe
politica
imperiale
pressata
dall’
élite
capitalista
concentrò
molte
energie
nel
mantenimento
militare
di
queste
nuove
aree
di
crescita
e
investimenti,
mercati
lontani
dal
Vecchio
Continente
che
davano
maggiori
garanzie
di
guadagno.
Esistevano
diverse
strategie
di
colonizzazione,
ad
esempio
quella
anglosassone
in
Canada,
Australia
e
Nuova
Zelanda
era
diversa
da
quella
Russa
in
Asia
ma
il
principio
era
lo
stesso:
gli
atti
del
colonialismo
europeo
erano
giustificati
dalla
sua
“missione
civilizzatrice”.
Le
politiche
di
interazione
sociale
con
i
nativi
erano
simili
ma
non
uguali,
alcuni
stati
erano
più
tolleranti
di
altri
arrivando
anche
ad
ammettere
un
livello
minimo
di
integrazione
tra
conquistatori
e
conquistati
, le
politiche
economiche
invece
non
differivano.
Ne è
un
chiaro
caso
la
presenza
francese
in
Indocina
la
quale
inizialmente
consisteva
in
soli
5
posti
commerciali
e un
trattato
per
la
protezione
dei
missionari
cattolici.
Ma
anche
la
Francia
scopriva
velocemente
i
vantaggi
nel
rapinare
altri
mercati;
dopo
il
1850,
seppur
limitando
l’emigrazione
nelle
colonie
o
uno
stretto
controllo
militare
come
altri
imperi,
procedeva
allo
sfruttamento
delle
materie
prime
in
modo
aggressivo
e
alla
monopolizzazione
dei
profitti
provenienti
dall’
Indocina.
La
colonizzazione
tedesca
in
Africa
orientale
nel
corso
del
1897,
la
colonizzazione
giapponese
della
Corea
nel
1879,
l'imperialismo
britannico
e
francese
in
Africa
occidentale,
la
sottomissione
olandese
dell'Indonesia,
sono
solo
alcuni
esempi
di
invasioni
pianificate
ed
eseguite
attraverso
il
dominio
di
altre
razze,
l’espansione
economica,
lo
sfruttamento
delle
materie
prime,
e il
controllo
degli
scambi
commerciali.
Non
solo
i
motivi
economici
e
militari,
ma
anche
la
fame
di
affermazione
internazionale
erano
il
motivo
ispiratore
delle
azioni
degli
imperi,
oltremare
come
pure
nel
vecchio
continente.
La
schiavitù
era
stata
abolita
nel
1815
col
congresso
di
Vienna,
ma
il
principio
della
supremazia
era
ancora
ben
radicato
nella
società
europea.
Illogicamente
era
la
stessa
società
europea,
o
almeno
gli
strati
più
bassi
di
questa,
a
pagare
le
conseguenze
della
colonizzazione;
gli
utili
avevano
spostato
gli
investimenti
verso
il
mercato
internazionale,
provocando
stagnazione
nel
commercio
interno
del
Vecchio
Continente.
Per
cui
i
cittadini
sempre
più
emigravano
dall’Europa
formando
comunità
sempre
più
grandi
nei
nuovi
territori
e
sottraendo
sempre
più
risorse
agli
indigeni.
L'emigrazione,
che
per
i
meno
abbienti
era
una
scelta
dolorosa
e
obbligata,
divenne
la
conseguenza
principale
della
politica
imperiale
e le
conseguenze
furono
devastanti,
tanto
che
in
pochi
anni
venivano
sgretolate
società
centenarie.
Durante
la
seconda
metà
del
diciannovesimo
secolo
oltre
50
milioni
di
persone
partì
dall'Europa
per
il
nuovo
mondo,
in
fuga
dal
fallimento
delle
rivoluzioni
europee,
sovrappopolazione,
fame,
disoccupazione
e
bassi
salari.
Per
valutare
la
proporzione
del
fenomeno
basti
pensare
che
in
questo
lasso
di
tempo
su
100
persone
nel
sud
Italia
ne
espatriavano
37.
Dal
1856
al
1925
21
milioni
di
italiani
emigravano
verso
l’estero,
solo
sette
sarebbero
tornati
in
patria.
Alcuni
sociologi
dell’epoca
avevano
estremizzato
il
Darwinismo,
pur
riconoscendo
che
nessuna
nazione
moderna
avrebbe
accettato
la
selezione
naturale
come
principio
di
sviluppo
sociale,
questi
si
opponevano
alle
cure
mediche
per
i
meno
abbienti
o
rivendicavano
il
diritto
alla
paternità
solo
per
i
componenti
delle
élites
sociali.
Moralmente
supportate
da
questo
tipo
di
affermazioni
le
élites
imperiali
quindi
focalizzavano
la
loro
politica
interna
senza
dare
cura
all'
interesse
delle
classi
inferiori,
lasciando
a
queste
soltanto
l'emigrazione
come
risoluzione
dei
loro
problemi.
L'emigrazione
verso
i
domini
avveniva
in
due
ondate;
durante
la
prima
(fino
al
1870)
britannici,
irlandesi,
tedeschi
e
scandinavi
si
trasferivano
nelle
Americhe,
agevolati
dalla
capacità
transoceanica
dei
trasporti,
la
seconda
ondata
migratoria
(dal
1870
a
seguire)
era
invece
composta
da
italiani,
spagnoli,
russi
ed
europei
dell’Est.
La
Francia
era
l'
unico
stato
a
non
alimentare
questo
fenomeno,
l'emigrazione
d’
oltralpe
era
limitata
a
pochi
nuclei
verso
le
colonie
africane.
La
prova
di
un
comune
accordo
delle
elites
governative
per
agevolare
il
flusso
migratorio
sono
i
numerosi
trattati
stipulati
tra
queste
dopo
il
1850;
la
maggior
parte
riguardavano
la
spartizione
del
mondo
e la
promozione
degli
spostamenti
oltremare
di
una
gran
parte
della
cittadinanza.
I
flussi
economici
venivano
tenuti
ben
separati,
l’emigrazione
invece
non
aveva
nessun
tipo
di
limitazione
anzi
era
supportata
dai
governi
stessi.
Nonostante
questi
governi
fossero
in
competizione
fra
loro
conducevano
un’azione
comune
sui
territori
invasi;
esempio
ne è
ancora
una
volta
il
continente
Africano,
diviso
in
sfere
di
influenza,
sotto
totale
occupazione
diretta
o
protettorato.
Gli
inglesi
iniziavano
ad
erodere
I
regni
di
Ashanti
e
Zulu
dal
1824
finalmente
annettendo
questi
territori
nel
1901,
anche
il
Transvaal
fu
annesso
nel
1877.
La
corona
di
Francia
annetteva
invece
la
maggior
parte
del
Dahomen
nel
1892,
installando
un
protettorato
sul
resto
dell’area.
Un
accordo
politico
fu
anche
l’invasione
italiana
dell’
Etiopia
del
1901,
concordata
preventivamente
con
la
corona
Britannica
mentre
le
proteste
del
mondo
musulmano
cadevano
inascoltate.
Lo
stesso
avveniva
in
Asia,
dove
Inghilterra
e
Francia,
dopo
aver
combattuto
per
l’India
avevano
raggiunto
un
accordo
nel
1860,
diventando
alleati
nel
controllo
del
sud-est
asiatico.
La
soppressione
della
rivolta
dei
Boxer
in
Cina
nel
1901
era
un
palese
esempio
di
collaborazione
tra
potenze
imperiali
per
la
difesa
e il
controllo
di
un
territorio.
Francia,
Germania,
Italia,
Gran
Bretagna,
Giappone,
Russia
e
Stati
Uniti
si
spartivano
il
paese
dopo
solo
dieci
giorni
di
conflitto.
L’espansione
degli
Imperi
era
anche
un
fenomeno
continentale,
la
“transizione
verso
la
colonizzazione
di
confine”
è
ciò
che
caratterizzava
l'espansione
russa
del
Pacifico
e la
lotta
tra
Germania
e
Austria-Ungheria
per
allargare
i
loro
possedimenti
nei
Balcani
e
Nord
Europa.
Si
trattava
di
aree
più
povere
se
confrontate
con
i
domini
esotici,
ma
nulla
poteva
sfuggire
alla
“fame”
di
espansione
territoriale.
Il
conflitto
tra
Danimarca
e
Germania
del
1863-64,
la
guerra
tra
Austria
e
Prussia
del
1866
e
ancora
tra
Prussia
e
Francia
del
1870-71,
erano
tutte
mirate
all'
acquisizione
di
territori.
Durante
quegli
anni,
Michail
Bakunin,
filosofo
anarchico,
sosteneva
che
la
violenza
militare
era
indispensabile
per
gli
Imperi
e
non
bisognava
certo
essere
dei
sovversivi
per
dargli
ragione.
Gli
stati
imperiali
erano
forze
militari
e
conquistatrici,
bisognose
del
potere
come
condizione
necessaria
per
la
loro
stessa
conservazione.
Relazionando
gli
Imperi
alla
produzione
capitalistica,
Bakunin
sosteneva
inoltre
che
i
primi,
al
fine
di
evitare
la
bancarotta
economica,
sostenevano
il
budget
incrementando
i
possedimenti
a
spese
di
società
più
deboli
e
sfruttandone
le
materie
prime.
Bakunin
teorizzava,
a
torto,
l’imminente
implosione
dei
governi
coloniali
nella
loro
madrepatria;
a
torto
perché
non
ci
sarebbe
stata
nessuna
rivolta
anarchica
in
Europa,
l’unica
rivoluzione
proletaria
sarebbe
avvenuta
in
Russia
circa
quarant’
anni
dopo
ma
questa
non
avrebbe
posto
fine
ai
tentativi
di
espansione
Russa.
Anche
questo
stato
seppur
diventato
Repubblica
Socialista
avrebbe
continuato
a
influenzare
altre
nazioni
sino
ai
giorni
nostri,
invadendo
stati
come
l’Afghanistan,
la
Cecenia
o
l’Ossezia
solo
per
citarne
alcuni
dei
casi
più
recenti.
Mentre
in
Europa
si
dibatteva
sulla
moralità
della
colonizzazione
in
sè,
nel
resto
del
mondo
persone
venivano
uccise,
società
intere
annientate,
anche
il
futuro
delle
discendenze
sarebbe
stato
segnato.
Nativi
d’America,
africani,
aborigeni
australiani,
e
molti
altri
popoli
vedevano
i
loro
destini
uniti
per
essere
immolati
al
dio
denaro.
Tutto
ciò
è
diretta
conseguenza
dell’avidità
capitalistica
e
questa
non
è
critica
di
parte,
è
una
verità;
l'
economista
Phil
Baran
afferma
che
gli
investimenti
coloniali
non
hanno
portato
alcuna
ricchezza
nei
nuovi
mercati,
il
capitalismo
nelle
colonie
è
stato
invece
un
altro
fattore
di
sottosviluppo
perché
non
interessato
a
promuovere
l'autonomia
economica
di
queste.
“Finché
il
capitalismo
resta
quello
che
è, i
capitali
in
eccesso
non
saranno
utilizzati
allo
scopo
di
elevare
il
tenore
di
vita
delle
masse
in
un
determinato
paese,
poiché
questo
significherebbe
un
calo
dei
profitti
per
i
capitalisti,
ma
per
lo
scopo
di
aumentare
i
profitti
dal
capitale
di
esportazione
all'estero
dei
paesi
arretrati”.
Parafrasando
ancora
Baran,
le
conseguenze
si
ripercuotono
in
quest’epoca,
i
conflitti
odierni
nei
paesi
sotto-sviluppati,
come
il
contrasto
tra
il
Pakistan
e
l'India,
la
frammentazione
nella
zona
dei
Balcani,
la
fragilità
degli
Stati
dell'Africa,
la
misera
condizione
degli
aborigeni
in
Australia,
degli
indiani
in
America,
sono
conseguenze
delle
politiche
imperialiste
del
secolo
diciannovesimo.
Nessuna
delle
strategie
di
espansione
imperiale
adottate
a
partire
dal
1850
ebbe
successo
nel
lungo
termine,
nessuna
delle
società
colonizzate
si è
rafforzata
nel
tempo,
il
sistema
di
governo
Europeo
non
si è
mai
integrato
con
gli
indigeni,
molti
di
questi
stati
ancora
oggi
rimangono
deboli
e
governati
dispoticamente,
indipendenti
solo
a
parole.
Non
si
può
non
notare
la
somiglianza
tra
l’esportazione
di
civiltà
professata
nel
diciannovesimo
secolo
con
l’
esportazione
della
democrazia
professata
nell’ultimo
decennio.
A
Baghdad
oggi
i
contractors
Americani
amministrano
il
petrolio
come
la
Compagnia
delle
Indie
faceva
con
l’oppio
o il
the
due
secoli
fa:
sottraendo
a
nazioni
più
deboli
la
gestione
delle
proprie
risorse.
La
storia
si
ripete
anche
se
ormai
l’invasore
non
sempre
sente
il
bisogno
di
una
sostenuta
presenza
militare,
ma
oggi
come
allora
singoli
componenti
delle
elites
nei
paesi
occidentali
decidono
il
futuro
di
molti
comodamente
seduti
nella
poltrona
del
proprio
ufficio.
Il
mondo
è
progredito,
la
democrazia
e l’
uguaglianza
sono
concetti
universalmente
riconosciuti
e
condivisi
sebbene
ancora
oggi
i
cittadini
di
molti
stati
sono
costretti
a
reagire
come
i
Galli
fecero
davanti
a
Giulio
Cesare,
sottomettersi
o
combattere
affrontando
una
sconfitta
certa.
Ancora
la
storia
si
ripete.
Riferimenti
bibliografici:
A.
Polcri
M.
Giappichelli
Storia,(Firenze
gruppo
editoriale
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to
stop
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M.
Giappichelli
Storia,
(Firenze
gruppo
editoriale
Giunti,
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fruit
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the
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A.
Polcri
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Giappichelli
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the
Highest
Stage
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The
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of
states
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Polcri
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gruppo
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Giunti,
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and
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La
dove
c’e
lo
stato
non
c’e
la
liberta’1873,
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Demetra,
1996)