N. 128 - Agosto 2018
(CLIX)
IMMIGRAZIONE al tempo dei cesari
tra
scontri
e
integrazione
di
Stefano
Pettinari
Uno
dei
temi
di
scottante
attualità
nelle
cronache
politiche
è il
tema
dei
flussi
migratori:
mai
tale
questione
aveva
avuto
una
simile
centralità
negli
ultimi
anni.
Eppure
sbaglieremmo
se
la
considerassimo
una
tematica
specifica
dei
nostri
tempi.
Il
movimento
dei
popoli
è
sempre
stata
una
dinamica
fondante
di
ogni
contemporaneità
(perché
“ogni
vera
storia
è
storia
contemporanea”
insegnava
Benedetto
Croce).
Tali
movimenti
sono
ben
lungi
dall’essere
inquadrabili
in
schemi
totalmente
positivi
o
totalmente
negativi;
la
narrazione
dell’integrazione
è
semplicistica
come
la
narrazione
dell’invasione,
prova
ne è
il
fatto
che
lo
stesso
fenomeno
di
infiltrazione
dei
popoli
germanici
nell’impero
romano
è
definito
nella
storiografia
germanica
Völkerwanderung
ovvero
“migrazione
di
popoli”
(con
una
parola,
Wanderung,
che
curiosamente
può
anche
indicare
nel
lessico
quotidiano
tedesco
una
tranquilla
gita
fuori
porta),
mentre
nella
nostra
storiografia
è
definito
“Invasioni
Barbariche”.
Ovviamente
non
fu
né
una
tranquilla
gita
di
popoli
germanici,
né
fu
un’invasione
subitanea
che
mise
fine
a un
idilliaco
sogno
imperiale
di
Pax
Romana.
L’impero
romano
aveva
per
secoli
organizzato,
strutturato
e
sfruttato
a
proprio
vantaggio
una
trasfusione
sistematica
di
forze
umane
dall’esterno
dell’impero
verso
l’interno
dei
propri
confini.
Schiavi,
coloni,
soldati,
addirittura
nuovi
cittadini.
Riuscire
a
rendere
romani
o
perlomeno
romanizzati
gli
altri
popoli
era
uno
dei
cardini
della
politica
imperiale.
Innestare
nel
corpo
imperiale
delle
aliquote
quantitativamente
accettabili
e
selezionate
in
base
alle
loro
capacità
e
alle
necessità
dell’impero
era
vitale
alla
continuazione
dell’impero
stesso.
Questo
gioco
però
non
era
semplice
né
univoco;
la
complessità
può
ben
essere
rappresentata
dal
dualismo
semantico
hostis-hospes:
la
stessa
radice
si
scinde
in
due
parole
e va
a
indicare
sia
il
nemico
che
l’ospite;
allo
stesso
modo
ostilità
e
ospitalità
correvano
sul
filo
del
rasoio,
o
meglio,
del
gladio.
Accettare
all’interno
dell’impero
chi
fino
al
giorno
prima
si
era
combattuto
non
era
un’evenienza
rara,
come
anche
accettare
alcuni
individui
mentre
si
combattevano
i
loro
connazionali.
Allo
stesso
modo,
quegli
stessi
popoli
che
cercavano
ospitalità,
sicurezza
e
benessere
all’interno
dell’impero
conservavano
talvolta
motivi
di
ostilità.
Questa
tensione
è
ben
rappresentata
dalla
figura
di
Arminio,
cherusco
romanizzato
che
però
non
dimenticherà
le
proprie
origini
e si
renderà
protagonista
di
uno
dei
peggiori
rovesci
subiti
dall’impero.
Ma a
dimostrazione
della
complessità
dei
rapporti
romano-barbarici,
Tacito
racconta
anche
di
Flavus,
fratello
di
Arminio,
fedelissimo
all’impero(servendo
il
quale
perderà
un
occhio
durante
la
campagna
in
Illiria
per
sedare
la
rivolta
dalmato-pannonica
del
6
d.C.)
e
che
chiamerà
suo
figlio
Italicus.
La
visione
di
questo
rapporto
era
quindi
diversa
non
solo
in
base
ai
soggetti
in
gioco
(romani
e
barbari),
ma
lo
era
anche
all’interno
di
uno
stesso
popolo;
per
i
germani
si
trattava
di
una
dicotomia
tra
miglior
tenore
di
vita
e
perdita
della
libertà.
Per
i
romani
invece
si
trattava
da
un
lato
di
immettere
nel
corpo
imperiale
sempre
nuove
energie
umane
da
romanizzare,
dall’altro
lato
di
mantenere
un
equilibrio
all’interno
dell’impero
e
soprattutto
di
poter
procedere
a
questa
assimiliazione
coi
tempi
giusti
e
nelle
giuste
modalità.
La
causa
della
disfatta
di
Adrianopoli
infatti,
che
permise
per
la
prima
volta
a
un’entità
barbara
di
rimanere
indipendente
e
armata
all’interno
dei
confini
imperiali,
fu
un
tentativo
troppo
precipitoso
di
immettere
i
visigoti
nell’impero;
invece
di
suddividerli,
disarmarli
e
sparpagliarli
nell’impero,
poterono
entrare
in
massa,
armati
e
compatti.
La
battaglia
di
Adrianopoli,
e
più
ancora
i
fatti
precedenti
alla
battaglia,
sono
emblematici
di
questa
complessità
di
fattori
nelle
migrazioni
barbariche:
i
Visigoti
infatti
si
presentarono
ai
confini
imperiali
come
un
popolo
oppresso,
in
pericolo,
perseguitato
e
scacciato
dalle
proprie
terre
dagli
unni;
si
presentarono
imploranti.
Contemporaneamente
però
non
ebbero
scrupolo
nell’approfittare
di
falle
nel
sistema
di
accoglienza
romano
per
poter
rimanere
uniti
e
per
rifiutarsi
di
consegnare
le
armi.
Allo
stesso
tempo,
i
romani
si
presentarono
magnanimi
e
umani
nell’accettare
le
richieste
germaniche,
ma i
funzionari
preposti
utilizzarono
l’occasione
per
compiere
immani
speculazioni
ricevendo
tangenti
in
cambio
della
possibilità
per
i
visigoti
di
mantenere
le
armi,
vendendo
le
derrate
alimentari
che
invece
avrebbero
dovuto
essere
consegnate
gratuitamente
e
persino
approfittandone
per
prendere
per
sé
giovani
visigoti
e
farne
degli
schiavi.
Alla
retorica
del
popolo
implorante
accolto
dal
popolo
magnanimo,
si
sostituì
la
realtà
del
popolo
guerresco
favorito
da
corruzione
ed
egoismo.
A
questo
si
aggiunsero
tradimenti,
come
il
tentativo
dei
generali
romani
di
uccidere
Fritigerno
durante
un
banchetto
sperando
così
di
poter
disperdere
i
Visigoti
(ottenendo
invece
la
loro
insurrezione
immediata)
e
l’irruenza
di
Valente
nell’affrontare
da
solo
la
rivolta
pur
di
non
condividere
i
meriti
con
Graziano
che
arrivava
da
Occidente.
Tali
eventi
storici,
in
conclusione,
lungi
dal
rappresentare
un
paradigma
dal
quale
attingere
secondo
la
retorica
dell’Historia
magistra
vitae
ciceroniano,
mostrano
la
complessità
dei
fenomeni
storici
e,
indirettamente,
mettono
in
guardia
nei
confronti
di
approcci
semplicistici
e da
strumentalizzazioni
storiografiche.