N. 3 - Marzo 2008
(XXXIV)
Imago Christi
dalla rappresentazione
simbolica alla fissazione dei caratteri
iconografici
di
Lawrence M.F. Sudbury
In qualunque parte del mondo, entrando in una chiesa
cristiana, troviamo, con poche varianti “regionali”,
quadri e statue che rappresentano Gesù sempre nello
stesso modo, con la stessa immagine. Ormai, diamo per
scontato il fatto che quelle siano le sembianze del
Redentore, senza pensare che, in realtà, alle spalle di
quella “formulazione iconografica”, esista un lungo
lavorio culturale che, nei primi secoli del
cristianesimo, a portato alla fissazione dei caratteri
che oggi riconosciamo come propri dell'Imago Christi.
Il fatto è che né i Vangeli né gli altri
scritti del Nuovo Testamento descrivono l’aspetto fisico
di Gesù, o meglio, non lo fanno in termini oggettivi.
Al più, i Testi Sacri ci parlano di una
bellezza del Cristo che è bellezza interiore perché è
immagine diretta di Dio: nella
Seconda Lettera ai Corinzi Paolo parla di «glorioso
Vangelo di Cristo che è immagine [eikon] di Dio»
e «conoscenza della gloria divina che rifulge sul
volto di Cristo». Lo stesso concetto viene ripreso
nell'Inno cristologico con cui si apre la
Lettera ai Colossesi («Egli è immagine del Dio
invisibile, generato prima di ogni creatura») e
nell'incipit della Lettera agli Ebrei,
così fondamentale per gli sviluppi teologici ed
iconografici successivi («Questo Figlio, che è
irradiazione della sua gloria e impronta [charakter]
della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della
sua parola [...]»). Gesù dunque, come immagine di
Dio, irradia nel suo aspetto, tutto lo splendore della
Divinità.
Fa eco
alle Lettere apostoliche Il Vangelo di Giovanni,
che offre il suo contributo alla definizione della
"fisionomia mistica" di Cristo chiarendo ulteriormente
che sua identità divina ci aiuta anche a definire la sua
immagine umana, la sua corporeità e la sua
visibilità/tangibilità. Così è nel Prologo («Il
Verbo si è fatto carne») e nel capitolo XIV
(«Chi ha visto me, ha visto il Padre»), con
affermazioni che motiveranno, nell'arte cristiana, non
solo la rappresentazione figurativa di Cristo ma anche
quella delle altre due Persone della Trinità,
raffigurate esattamente alla stessa maniera.
Così è, pur se con spunto più concreto, anche nel
capitolo X («Io sono il buon/bel
pastore [...]»), in cui Gesù viene designato come
pastore e in più qualificato con l'aggettivo kalós,
cioè bello, di una bellezza che non è disgiunta dalla
bontà, corrispondente all'aggettivo ebraico (tôb)
che ritroviamo, ad esempio, nel racconto della
Creazione.
É chiaro, però, che, pur con tutte le
possibili suggestioni simboliche e metaforiche che
questi passi possono offrire, di fatto nulla di concreto
viene affermato sulla figura reale del Salvatore.
Per altro, nei primissimi tempi del
Cristianesimo, appare evidente la persistenza della
proibizione ebraica di raffigurazione della Divinità:
nei primi tre secoli, per rappresentare Gesù, furono
dunque usati soltanto lettere (in particolare l'Alfa
e Omega greche, a simboleggiare che il Redentore
è principio e fine di ogni cosa, o il Chrismon) e
simboli, come l'agnello, il pane e il pesce, il cui nome
greco, IXTHUS, è formato dalle iniziali delle parole
“Iesous Christos, THeu Uios Soter” (in
greco “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”).
A poco a poco, comunque, il tabù venne a
cadere e si sentì l'esigenza di rappresentare l'uomo-Dio
che il popolo cristiano adorava.
A questo punto gli artisti, per trarre
ispirazione, si dovettero rivolgere alle consuete
raffigurazioni di divinità pagane (in particolare Apollo
o, più comunemente, il “Sol Invictus”) o a documenti
antichi che trattassero almeno di sfuggita l'argomento.
Per
quanto riguarda questi ultimi, essi non rappresentano
certo testi che oggi possiamo considerare storicamente
attendibili, ma risultano comunque importanti, sia
perché ci rimandano a tradizioni orali o a convinzioni
che circolavano in ambienti cristiani già nei primi
secoli,
sia perché influenzarono fortemente l'iconografia
protocristiana.
Curiosamente, la prima ipotesi che, basandosi su di
essi, venne formulata, portava all'idea di un uomo
brutto e deforme. Tutto nasce dall'obiezione
di Celso, contenuta nell'opera Discorso vero,
risalente all'incirca all'anno 170, conosciuta
attraverso la citazione che ne fa Origene nell'opera
scritta proprio per confutare le affermazioni dello
stesso Celso: «Qualora uno spirito divino avesse
albergato nel corpo [di Cristo], questo avrebbe
dovuto necessariamente superare gli altri corpi o per
grandezza o per bellezza e forza o per la voce o per la
maestà o per il dono della persuasione [...].
Eppure il suo corpo non differiva affatto dagli altri
corpi; ma – a quanto dicono – era piccolo, brutto a
vedersi e volgare».
I
Padri della Chiesa e gli scrittori cristiani dei primi
secoli ripresero questa idea e la rielaborarono alla
luce di Isaia 53, in cui si trova: «Non ha
apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non
splendore per potercene compiacere. Disprezzato e
reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il
patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima»,
cosicché autori come Ireneo e Tertulliano attribuirono a
Cristo, anche per rispondere alla polemica docetista e
gnostica, tratti fisici decisamente negativi, ma che
evidenziavano la sua piena assunzione della umanità, con
tutti i suoi limiti e miserie.
Giustino, nel suo Dialogo con Trifone, arriva
addirittura ad affermare in proposito: «Quando i
principi celesti videro che la sua figura era senza
bellezza, senza onore e senza gloria, non riconoscendolo
domandarono: "Chi è questo Signore della gloria?" e lo
Spirito santo rispose loro nel nome del Padre e a suo
nome: "E signore delle potestà è il re della gloria"»
e Clemente Alessandrino scrive:«Egli stesso,
il "capo della Chiesa", venne sulla terra nella carne,
benché "brutto e malforme nell'aspetto", insegnandoci
così a volgere lo sguardo alla natura invisibile e
incorporea della causa divina». Condividono le
posizione di Giustino e di Clemente anche Ireneo,
Tertulliano, Ambrogio
e Agostino, il quale sostiene che bisogna essere
dotati di una vista pura per riuscire a vedere la
bellezza sostanziale e spirituale di Cristo, altrimenti
vedremmo soltanto, come nel caso degli estranei e dei
persecutori, la sua povertà e deformità.
Conseguentemente, sulla scorta di questa
interpretazione, tra le prime raffigurazioni di Gesù,
alcune lo ritraggono addirittura come calvo, gobbo,
zoppo o deforme.
Si
tratta, comunque, di una “moda” passeggera e piuttosto
limitata.
Nella
maggioranza dei casi, l'aspetto che viene più preso in
considerazione dagli artisti è quello relativo alla
gloria di Cristo, che si riflette nella sua bellezza
terrena. Anche in questo caso, i riferimenti sono spesso
letterari e in netta contrapposizione con i precedenti:
Cirillo pensa che «Il Figlio unigenito ci mostra la
straordinaria bellezza di Dio Padre, presentando se
stesso quale immagine luminosa di lui. Per questo dice
anche: "Chi vede me vede d Padre"»
e tra i sostenitori della bellezza di Gesù Cristo
possiamo annoverare altre eccellenti personalità della
Chiesa antica come Efrem Siro, Gregorio di Nissa,
Giovanni Crisostomo, Teodoreto e Girolamo.
Nel
tentativo di esprimere tale gloria, la maggior parte
delle più antiche rappresentazioni iconografiche di
Cristo non si prefiggono nessun realismo nel ritrarre
l'aspetto terreno di Gesù di Nazareth.
Gli
affreschi delle catacombe, i rilievi dei sarcofagi,
alcuni mosaici absidali, ci mostrano, allora, il più
delle volte, una figura di adolescente o di giovane dai
capelli riccioluti, raffigurato in tal modo sia in
contesti narrativi, ad esempio per l'illustrazione di
miracoli, sia in contesti ritrattivi, in particolare nei
rilievi dei sarcofagi dove Cristo è collocato tra gli
Apostoli.
Primeggia nella primitiva arte cristiana la
raffigurazione simbolica di Cristo come Buon Pastore.
Gesù
è, infatti, in numerosi ritratti e mosaici di questo
periodo, raffigurato come un giovane pastore, spesso
imberbe o con barba molto rada, dai capelli corti, di
bell'aspetto e dalla statura slanciata, vestito con una
corta tunica e con i calzari tipici dei pastori, che
reca sulle spalle una pecorella o un agnello, mentre
altre pecore gli si affiancano a destra e sinistra.
Un
Cristo giovanile, bello, simbolo della Gloria divina,
compare anche in altre scene narrative, che si
riferiscono soprattutto ad episodi di miracoli, al ciclo
della Passione o, addirittura, a momenti particolari
della predicazione.
Dopo
la vittoria del Cristianesimo e la pace di Milano (312),
però, da Costantino fino a Teodosio (395), con lo
sviluppo di un culto di Cristo che assume sempre più le
forme di quello dell'imperatore, sostituendolo, anche la
rappresentazione più diffusa del Salvatore cambia.
Soprattutto nel IV secolo si trova, su diversi
sarcofagi, un Cristo dalla barba non troppo lunga, con
baffi, dal volto stretto, alto e maestoso e dai capelli
lunghi, che cadono sulle spalle e talvolta mostrano una
riga centrale che li divide.
È
un'immagine di Gesù che si ispira ancora alle
raffigurazioni di Giove o Zeus, somma divinità secondo i
Romani e i Greci e, come l'imperatore, sovrano
dell'universo (“Pantokrator”).
Come è
possibile notare, siamo di fronte ad un panorama
figurativo molto fluido e continuamente variabile,
basato su teorie e supposizioni diverse che, di volta in
volta, prendono il predominio, ma che spesso si
affiancano in uno stesso lasso di tempo.
A
partire dal VI secolo, però, qualcosa cambia
radicalmente: si afferma in oriente un tipo molto
particolare di "ritratto" di Cristo, che rimarrà
praticamente invariato fino ad oggi.
Esso
presenta alcuni caratteri asimmetrici, non regolari,
difficilmente attribuibili alla fantasia degli artisti.
Si
notano in particolare: capelli lunghi ai lati del volto,
bipartiti; un ciuffo di capelli corti, a più punte,
sulla fronte; arcate sopracciliari pronunciate; un segno
triangolare alla radice del naso; occhi grandi e
profondi, spalancati, con iridi enormi e grandi
occhiaie; naso lungo e diritto; zigomi molto
pronunciati, talvolta con macchie; guance concave; bocca
piccola, non nascosta dai baffi, che sono spesso
spioventi; una zona senza barba sotto il labbro
inferiore; barba non troppo lunga, bipartita e talora
tripartita (solo raramente la barba è lunga ed
appuntita, secondo una raffigurazione molto antica dei
re in Medio Oriente).
Come
accade questa “fissazione di caratteri”? Che cosa la
determinò?
Per
rispondere a queste domande dobbiamo prima comprendere
un concetto fondamentale dell'iconologia orientale: la
"scrittura dell'icona", secondo i canoni iconografici,
comporta la riproduzione esatta del soggetto senza dare
spazio alla fantasia dell'artista, in un sistema in cui
la ripetitività delle caratteristiche fondamentali
assume un carattere mistico, i cui tratti sono
paragonabili a quelli del sistema spirituale che reggeva
le copisterie amanuensi abbaziali nel medioevo
occidentale.
Su
questa base, si possono facilmente individuare le
"successioni" di opere derivate l'una dall'altra, e
quindi risalire attraverso di esse verso il "modello
originale" da cui sono state generate.
Nel
caso della riproduzione del “Volto Santo”, il compito è
facilitato dal fatto che, spesso, non solo vengono
riprodotti “pedissequamente” i tratti fondamentali
dell'immagine modello, ma, addirittura, è il modello
stesso ad essere completamente rappresentato.
Veniamo così a scoprire che tale modello risulta essere
la prima e più antica immagine acheropita: quella
definita del “Mandylion”.
Spesso questa preziosa reliquia è stata confusa con la
Sindone, la cui veridicità è ancora oggetto di studio e
pare fortemente problematica, ma, in realtà, si tratta
di qualcosa di radicalmente diverso.
Riguardo al Mandylion, Eusebio narra che Abgar V Ukama
(il Nero), re di Edessa all’epoca di Cristo, fosse
malato (forse di lebbra) e, saputo dell’esistenza di
Yeshua che operava miracoli, gli mandò un suo inviato
per chiedergli che si recasse alla corte di Edessa.
Yeshua non andò, ma inviò una lettera, unitamente con un
dipinto del suo volto, realizzato da Hanna, il
messaggero di Abgar. Gli Atti di Taddeo,
modificano l’antica tradizione di un ritratto di Gesù
eseguito da un pittore per il re Abgar: il messaggero
voleva osservare attentamente le sembianze di Cristo per
riprodurle, ma sarebbe stato il Signore stesso a dargli
la sua immagine asciugandosi il volto su un telo “ràkos
tetràdiplon”, cioè “ripiegato quattro volte doppio”.
Quel panno, chiamato Sindon o Mandylion, con la
straordinaria immagine acheropita (cioè "non dipinta da
mani d'uomo"), fu portato al re, che lo venerò e fu
guarito dalla sua malattia. Allora Abgar fece fissare
l’immagine sopra una tavola ornata d’oro.
A
questo punto il Mandylion sparisce dalla storia e
bisogna attendere proprio il sec. VI per il suo
ritrovamento.
Nel 525 il Daisan, il corso d’acqua che attraversa
Edessa, provocò un’inondazione catastrofica. La notizia
è riportata da un autore dell’epoca, Procopio di
Cesarea. Molti monumenti biblici furono danneggiati o
distrutti. Giustiniano (futuro imperatore) intraprese
una monumentale ricostruzione, della quale beneficiò
anche la chiesa principale della città, Santa Sofia.
È
molto probabile che sia avvenuto allora il ritrovamento
dell’immagine dimenticata. Le fu destinata una piccola
cappella situata a destra dell’abside; era conservata in
un reliquario e non veniva esposta alla vista dei
fedeli.
Secondo un’altra antica tradizione, durante l’assedio
persiano del 544 da parte del re Cosroe I Anushirvan
venne rinvenuto un tessuto nascosto dentro un muro
sovrastante una porta della città: su quel telo era
raffigurata un’immagine ritenuta di Cristo. Quando
Edessa venne occupata dai musulmani, il Mandylion
continuò ad esservi esposto per qualche tempo.
Tuttavia si iniziò a temere per la sua sorte; quindi nel
944 il domestikos (generale) bizantino Giovanni Curcuas,
in cambio di 200 prigionieri musulmani, lo recuperò per
portarlo a Costantinopoli. Qui esso arrivò accompagnato
da una folla in tripudio e venne collocato con una
cerimonia fastosa dal basileus Costantino Porfirogenito
nella Chiesa della Vergine di Pharos.
Nel 1204 la Quarta crociata si concluse con l'assedio e
il saccheggio di Costantinopoli, e il Mandylion
scomparve.
Il
cronista Robert de Clary scrisse nella sua opera La
conquëte de Constantinople che, prima della caduta
di Costantinopoli in mano ai crociati occidentali (12
aprile 1204), una Sydoine veniva esposta ogni venerdì
nella chiesa di Santa Maria di Blachernae e che su quel
telo la figura del Cristo era chiaramente visibile, “ma
nessuno sa ora cosa sia avvenuto del lenzuolo dopo che
fu saccheggiata la città”. Da questo momento in poi,
del Mandylion non si sa più nulla.
Nel frattempo, però, dal periodo del suo ritrovamento,
l'immagine del Cristo impressa sul telo si era diffusa
in tutta la cristianità (in particolare in medioriente)
e, con l'incredibile “autoritas” derivante dalla sua
“acheropitia” era diventata l'“Imago Dei” per
eccellenza, sviluppando e fissando quella tradizione di
un uomo con barba e capelli incolti (esattamente come
prescritto dalla Legge di Nazireato e come, al contrario
dell'idea comune, non era tipico delle popolazioni
semitiche del I secolo, avvalorando, per inciso, la tesi
da molti sostenuta che “Nazareno” non derivi da Nazareth
ma da una erronea traduzione di “Nozrai”, cioè “Nazireo”)
che per i successivi 1500 anni ha ispirato gli artisti
di ogni latitudine.
Riferimenti bibliografici:
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Roma, Edizione CEI 1999
AA.VV., Nuovo dizionario patristico e di antichità
cristiane - Vol. 1-3, Milano, Marietti 2007
N. Amber, Iconology. An essay, Oxford, O.U.P.
1985
V. Erikson, Common life in Palestine at the time of
Jesus, Oxford, O.U.P. 2002
R.H. Eisenman, James the brother of Jesus,
Londra, Penguin 1997
G. Gharib, Le icone di Cristo. Storia e culto,
Roma, Città Nuova 1993
P. Iacobone, Mysterium Trinitatis. Dogma e
Iconografia nell’Italia medievale, Roma, Editrice
Pontificia Università Gregoriana 1997
E.H. McNeal (a cura di), R.de Clary – The conquest of
Costantinople, New York, Columbia U.P. 2005
P.Iacobone, La bellezza di Cristo nell'arte
dall'antichità al rinascimento, in "Path", 4, 2005
E. e M. Marinelli, La figura di Cristo e la Sindone,
www.shroud.com
M. Rizzi, Il corpo redento. Un percorso intellettuale
tra tradizioni teologicbe e antropologia nel
cristianesimo tardoantico, in "Comunicazioni
sociali. Rivista di media, spettacolo e studi culturali"
2, 2003 |