N. 96 - Dicembre 2015
(CXXVII)
“LA FELICITÀ SENZA INVIDIA” SECONDO SENOFONTE
UNA LETTURA DELLO “IERONE” - PARTE II
di Paola Scollo
Nello Ierone Senofonte propone una lunga conversazione tra il tiranno siracusano Ierone, giunto al potere nel 478 a.C., e il poeta lirico Simonide, impegnati a confrontare la condizione del tiranno con quella del cittadino privato, idiotes. Simonide sostiene che il tiranno sia un uomo molto felice. Di contro, Ierone afferma l’assoluta infelicità del tiranno: «Non stanno così le cose, Simonide. Sai bene, infatti, che il tiranno gioisce molto meno e soffre di dolori di gran lunga maggiori del privato, che pure conduce un’esistenza modesta».
Il
tema
del
confronto
non
è
politico,
ma
psicologico:
qual
è il
rapporto
tra
tiranno
e
privato
nel
godimento
di
un
piacere?
Si
tratta
di
analizzare
il
rapporto
tra
felicità
e
infelicità.
Simonide
osserva:
«È
incredibile
quello
che
dici.
Se
le
cose
stanno
così,
come
mai
molti,
e
per
giunta
quelli
che
sembrano
i
più
capaci,
aspirerebbero
alla
tirannide?
Come
mai
tutti
invidierebbero
i
tiranni?».
Lo
stupore
di
Simonide
trova
spiegazione
nella
diffusa
convinzione
che
la
tirannide
sia
una
condizione
di
vita
desiderabile.
Di
qui
la
necessità
di
ulteriori
riflessioni.
Simonide
ritiene
che
il
tiranno,
per
ognuno
dei
sensi,
tragga
piaceri
di
gran
lunga
superiori
rispetto
all’uomo
comune.
Tuttavia,
Ierone
osserva
che,
per
quanto
riguarda
la
vista,
il
tiranno
si
astiene
dagli
spettacoli:
«è,
infatti,
rischioso
per
lui
recarsi
dove
non
può
essere
più
forte
dei
presenti».
Anche
nell’udito
il
tiranno
è
svantaggiato:
«quale
piacere
può
giungere
da
coloro
che
parlano
male
oppure
da
coloro
che
lodano
il
tiranno,
quando
c’è
il
motivo
di
sospettare
che
facciano
tali
lodi
per
adulare?».
Almeno
su
questo
punto
il
poeta
si
dichiara
d’accordo:
«le
lodi
più
gradite
sono
quelle
che
provengono
dalle
persone
assolutamente
libere».
Si
passa
quindi
ad
esaminare
il
gusto:
«Anche
per
quanto
riguarda
la
durata
del
piacere,
chi
si
fa
approntare
una
mensa
ben
fornita
è
svantaggiato
nei
confronti
di
chi
si
ciba
frugalmente».
Ierone
conclude:
«Così
pure
per
i
cibi;
chi
ne
ha
sempre
di
ogni
specie
non
ne
prende
alcuno
con
desiderio
mentre
chi
raramente
assaggia
una
pietanza,
se
ne
sazia
con
gioia
quando
gli
viene
messa
davanti».
Simonide
ritiene
che
solo
i
piaceri
sessuali
rappresentino
un
impulso
alla
tirannide
«perché
chi
è
tiranno
ha
la
possibilità
di
intrattenersi
con
quello
che
di
più
bello
può
vedere».
Ma
anche
in
questo
caso
Ierone
individua
evidenti
svantaggi:
«Il
tiranno
non
può
mai
credere
che
qualcuno
gli
sia
affezionato.
Si
sa
bene
che
quelli
che
si
concedono
per
paura,
per
quanto
meglio
possono,
simulano
le
compiacenze
di
chi
è
veramente
affezionato.
Di
conseguenza,
al
tiranno
le
insidie
più
numerose
provengono
proprio
da
quelli
che
soprattutto
fanno
finta
di
volergli
bene».
L’amicizia
è il
bene
supremo
per
l’uomo:
eppure,
di
questa
immensa
ricchezza
il
tiranno
dispone
in
minima
parte.
E
così
anche
per
quanto
concerne
tutti
gli
affetti:
«tra
i
tiranni
molti
hanno
ammazzato
i
propri
figli,
molti
sono
stati
assassinati
dai
figli,
molti
fratelli
si
sono
uccisi
a
vicenda
per
impadronirsi
del
potere,
molti
sono
stati
privati
della
vita
dalle
mogli
e
dai
compagni
che
mostravano
di
essere
i
più
devoti».
Il
tiranno
vive
costantemente
nel
timore:
crede
di
essere
circondato
di
nemici
e
può
confidare
soltanto
negli
schiavi.
E la
paura
è
motivo
di
infelicità,
perché
«non
è
rovinosa
soltanto
per
se
stessa
quando
si
impadronisce
dell’anima,
ma
corrompe
anche
tutti
i
piaceri
a
cui
si
accompagna».
In
sintesi,
«il
tiranno
ha
solo
una
minima
parte
dei
beni
più
grandi
e
dei
mali
più
grandi,
invece,
ne
possiede
moltissimi».
Queste
riflessioni
ben
si
accordano
con
quanto
osserva
Platone
nella
Repubblica
(567
d 1
-
3):
«Il
tiranno
si
trova
stretto
in
un
dilemma
veramente
piacevole
che
gli
impone
di
vivere
fra
molta
gente
mediocre
che
lo
odia,
oppure
di
non
vivere
affatto!»
E
l’anima
tirannica
«non
farà
affatto
ciò
che
vuole,
anzi
sarà
sempre
in
preda
all’agitazione
e
sempre
vittima
del
disordine
e
del
rimorso»
(577
d e
1 -
3).
Oltre
a
essere
causa
di
rovina
per
la
polis,
il
potere
dispotico
rende
il
tiranno
il
più
infelice
degli
uomini
(578
b
6).
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