N. 18 - Giugno 2009
(XLIX)
Idolatria
La difficile distinzione tra monoteismo e politeismo
di Lawrence M.F. Sudbury
Partiamo
dalle
semplici
definizioni.
Per
monoteismo
(dal
greco
"μόνος"
=
unico,
solo
e "θεός"
=
dio)
s’intende
la
“credenza
religiosa
nell'unità
della
divinità
o in
un
solo
Dio
che
si
oppone
a
panteismo
e
politeismo”,
mentre
per
politeismo
s’intende
la
“credenza
nell'esistenza
di
numerosi
dei
o
esseri
divini.
Il
politeismo
(dal
greco
polys,
molto,
e
théos,
Dio)
è
strettamente
connesso
alla
credenza
nei
demoni
e
negli
spiriti
generalmente
propria
dell'animismo,
del
totemismo
e
del
culto
degli
antenati”.
Tutto
sembrerebbe
molto
chiaro
e la
distinzione
appare
piuttosto
netta,
così
come
netta
appare
la
divisione
tra
religioni
antiche
e
moderne
di
un
tipo
(tipicamente
monoteiste
possono
essere
considerate
Ebraismo,
Zoroastrismo,
Cristianesimo,
Islamismo)
o di
un
altro
(tipicamente
politeiste
sono
state
pressoché
tutte
le
religioni
del
mondo
antico
e
sono
tutt’ora
il
Panteismo
animista,
lo
Scintoismo,
l’Induismo
e
gran
parte
delle
correnti
Buddhiste).
Tale
divisione,
inoltre,
viene
continuamente
sottolineata
in
particolare
dalle
religioni
monoteiste,
che
da
millenni
accusano
i
politeisti
di
idolatria
e
che
ritengono
quest’ultima
forma
di
religiosità
come
una
sorte
di
retaggio
primitivo,
un
ricordo
di
un
passato
magistico
e
panteisticamente
naturalista,
ormai
superato
dall’evoluzione
del
pensiero.
In
realtà,
ad
un’analisi
più
approfondita,
la
questione
appare
meno
semplice
e
tutt’altro
che
chiaramente
definita.
Prendiamo,
ad
esempio,
la
questione
dell’evoluzione
storica.
In
effetti,
cronologicamente,
il
monoteismo
precede
di
gran
lunga
il
politeismo.
Leggiamo
quanto
scrive
in
proposito
Margaret
Murray:
“Il
monoteismo
delle
prime
forme
religiose
è
molto
marcato,
con
ogni
piccolo
insediamento
o
gruppo
di
insediamenti
che
ha
una
sua
propria
divinità,
maschile
o
femminile,
il
cui
potere
si
definisce
come
“confinante”
con
quello
dei
suoi
adoratori.
Sembra
chiaro
che
il
politeismo
si
sia
sviluppato
con
l’amalgamarsi
di
tribù
diverse,
ciascuna
dotata
di
una
propria
divinità.
Quando
una
tribù
la
cui
divinità
è
maschile
si
unisce
a
una
tribù
la
cui
divinità
è
femminile,
l’unione
dei
due
popoli
viene
simbolizzata
dal
matrimonio
delle
loro
divinità.
Quando
attraverso
una
infiltrazione
pacifica
un
nuovo
dio
prende
il
posto
di
uno
vecchio,
il
primo
viene
definito
figlio
del
secondo.
Ma
quando
l’invasione
è di
tipo
bellicoso,
la
divinità
conquistatrice
viene
investita
di
tutti
gli
attributi
positivi,
mentre
il
dio
dei
vinti
assume
una
posizione
di
inferiorità
e
viene
spesso
visto
dai
conquistatori
come
apportatore
di
male
e,
conseguentemente,
spesso
temuto
anche
più
della
divinità
“legittima”
dei
vincitori.
Nell’antico
Egitto,
la
caduta
dalla
posizione
di
dio
supremo
a
quella
di
‘diavolo’
è
ben
esemplificata
dal
dio
Setekh
(o
Seth),
che,
anticamente,
era
un
apportatore
di
elementi
positivi
esattamente
quanto
Osiride,
ma,
in
seguito,
divenne
così
esecrato
che,
al
di
fuori
della
città
a
lui
dedicata,
il
suo
nome
e la
sua
immagine
erano
rigorosamente
proibite”.
Ma,
al
di
là
di
questioni
di
sviluppo
temporale,
il
vero
problema
sta
in
sé
nella
sostenibilità,
nel
quadro
di
un’analisi
psicologica,
di
una
religione
puramente
monoteista
o di
una
religione
puramente
politeista.
Entrambi
i
concetti,
infatti,
ad
uno
sguardo
più
attento,
appaiono
risultare
piuttosto
alieni
dall’orizzonte
conoscitivo
umano
che,
notoriamente,
tende
1) a
de-assolutizzare,
da
un,
lato
strutturazioni
di
pariteticità
devozionale,
scegliendo
per
sé,
all’interno
di
un
orizzonte
politeistico,
un
proprio
“dio”
(personale,
cittadino,
regionale)
con
cui
aprire
canali
di
rapporto
personale
e a
gerarchizzare,
conseguentemente,
il
pantheon
ufficiale
(quando
anche
tale
gerarchizzazione
non
sia
già
istituzionalizzata
proprio
dai
canali
ufficiali
stessi),
ponendo
una
divinità
al
suo
apice;
2)
dall’altro
lato
a
sviluppare,
intorno
alla
divinità
monoteistica,
numerose
figure
“di
contorno”,
atte
a
mitigare
la
monoliticità
del
divino
per
abbassarlo
a
livello
più
umano
e
render
conto
dell’impossibilità
umana
di
comprensione
di
attributi
assoluti
(quali
i
classici
onniscienza,
onnipresenza,
onniscienza),
parzialmente
attribuendoli
all’azione
fattiva
di
agenti
semi-divini
intercessivi.
Alcuni
esempi
possono
chiarire
questa
affermazione
teorica.
Partiamo
da
alcune
religioni
politeiste
dell’antichità.
Probabilmente
la
prima
grande
religione
strutturata
di
cui
si
abbia
notizia
è
quella
assiro-babilonese.
Che
si
tratti
di
una
religione
politeistica,
non
sembra
minimamente
discutibile,
tanto
più
che
il
cuore
della
mistica
mesopotamica
sembra
risiedere
nel
culto
degli
“Annuna”
( i
“Cinquanta
Grandi
Dei”),
al
cui
vertice
vi
era
sì
il
padre
degli
dei
Anu
(il
cielo),
ma
con
una
supremazia
che
appare
unicamente
cronologica
e
non
riferibile
a
termini
di
dominio
assoluto.
Già,
però,
dalla
unificazione
dei
regni
compiuta
da
Hammurabi,
l’emersione
di
una
divinità
massima,
inizialmente
locale,
ma
poi
capace
di
inglobare
tratti
precedentemente
appartenenti
ad
altri
dei
(prima
Marduk
nel
periodo
babilonese,
poi
Ashur
in
quello
assiro)
è
chiarissima,
con
gli
altri
“idoli”
che
divengono
solo
figure
di
minori,
atte
a
specificare
la
potenza
del
signore
assoluto
nei
diversi
ambiti
sociali
e
naturali.
Se
questa
particolare
perdita
del
senso
paritario
del
politeismo
assoluto
è
uno
sviluppo
quasi
certamente
posteriore
nei
culti
mesopotamici,
essa
risulta
connaturata
“ab
initio”
nella
religiosità
egizia,
il
cui
evidente
politeismo,
che
appare
chiarissimo
anche
a
livello
artistico,
risulta,
ad
un’analisi
più
approfondita,
puramente
un
elemento
didascalico
e
popolare:
in
pratica,
gli
antichi
Egizi
più
colti
credevano
che
i
molti
dei
del
loro
pantheon
fossero
emanazioni
di
un
Principio
Primo
della
vita
che,
prima
della
creazione,
riposava
ed
esisteva
in
potenza
nelle
primordiali
Acque
dello
Spazio.
Semplicemente,
le
qualità
intrinseche
di
questa
essenza
divina
venivano
manifestate
attraverso
gli
dei
individuali,
ciascuno
con
un
proprio
nome,
un
proprio
aspetto
e
uno
speciale
compito
nella
conduzione
dell’universo:
ciascuno
presiedeva
alla
produzione
di
un
particolare
ordine
di
fenomeni,
assicurandone
la
regolarità,
ma
lo
forza
del
singolo
era
puramente
derivata
dal
suo
essere
emanazione
e
non
esisteva
in
sé,
svincolata
dall’origine
prima.
La
vita,
procedendo
attraverso
i
fenomeni
di
nascita,
morte,
rinascita
o
resurrezione
e
immortalità
era
il
punto
d’unione
di
molte
storie
simboliche
che
formavano
il
cuore
della
mitologia
egiziana.
I
miti
della
creazione
avevano
un
significato
esoterico
ed
essoterico
e,
sebbene
alcune
storie
possano
apparire
piuttosto
differenti
tra
loro,
in
realtà
tutte
derivano
dallo
stesso
sistema
di
pensiero.
I
segreti
dell’interpretazione
esoterica
non
potevano
essere
compresi
se
non
applicando
loro
le
giuste
chiavi
interpretative,
per
noi
rinvenibili
unicamente
andando
alle
radici
filosofico-religiose
del
pensiero
sacro
egizio.
Ciò
è
possibile
interpretando
i
geroglifici
di
quei
sancta
sanctorum
dei
templi
che,
nettamente
separati
dalle
parti
pubbliche,
rappresentavano,
con
i
loro
corridoi
dedalici,
una
sorta
di
percorso
di
iniziazione
per
gradi
ai
misteri
più
profondi
e
solamente
al
termine
di
questo
iter
iniziatico
era
possibile
comprendere
come
le
numerose
entità
del
cosmo,
dei
o
uomini,
fossero
solo
emanazioni
di
un
unico
Grande
Dio
senza
forma,
celato,
mai
rivelato:
nel
ciclo
di
Osiride,
ad
esempio,
egli
è il
Volto
Oscuro
della
divinità,
così
rifulgente
di
luce
davanti
alle
creature
inferiori
da
sembrare
buio,
invisibile
e
incomprensibile
ai
loro
occhi.
Allo
stesso
modo,
“mutatis
mutandis”,
la
religione
celtica
applicava
in
egual
grado
un
doppio
registro
interpretativo,
di
livello
popolare
e
completamente
politeistico
(seppur
con
gerarchie
locali)
da
un
lato
e di
livello
colto,
con
assunti
che,
superando
persino
il
monoteismo
personificativo,
rimandavano
a
concezioni
di
pura
spiritualità
dall’altro.
Così,
per
quanto
riguarda
la
religiosità
popolare,
essa
era
costituita
da
una
mitologia
accessibile
e da
una
serie
di
riti
che
avevano
pian
piano
inglobato
anche
alcuni
elementi
arcaici
risalenti
al
neolitico
e
provenienti
da
culti
solari,
tellurici
e
lunari.
Come
proprio
della
maggior
parte
dei
culti
indoeuropei,
il
pantheon
era
nutritissimo,
tanto
da
essere
formato
addirittura
da
374
divinità,
sebbene
molte
di
tali
divinità
fossero
copie
di
altre,
per
cui
possiamo
in
effetti
parlare
di
circa
60
dei
veri
e
propri,
per
lo
più
personificazione
di
eventi
naturali.
Il
dio
più
importante
di
tutti
era
Lug,
un
dio-druida
in
grado
di
suonare
l’arpa,
lavorare
il
ferro,
combattere
da
valoroso
e
fare
magie,
da
cui,
in
una
fase
di
difficile
determinazione,
derivò
il
culto
di
una
triade
di
suoi
(presunti)
discendenti
Teutate,
Eso
e
Tarani,
che
ricorda
molto
da
vicino
la
trinità
divina
germanica
Wotan-Odino,
Donar-Thor,
Ziu-Tyr.
Successivamente,
comunque,
Lug
assunse
una
prevalenza
definitiva
su
tutti
gli
altri
dei
e,
nel
culto
popolare,
venne
sempre
più
affiancato
da
eroi
locali
divinizzati
(il
più
importante
sarà
l'irlandese
Cu
Chulainn).
Agli
dei,
nei
boschi
sacri,
contraddistinti
da
recinzioni,
o
presso
pozzi
appositamente
scavati
e
forse
collegati
al
culto
della
terra,
si
sacrificava
di
tutto,
dagli
oggetti
agli
esseri
umani,
sia
nel
tentativo
di
ingraziarseli,
sia
in
quello
di
ottenere
predizioni,
sia,
infine,
in
quello
di
mitigare
i
numerosissimi
"geasa"
(tabù)
che
limitavano
la
vita
di
chiunque.
Ben
differente
era,
però,
la
religiosità
“alta”,
propria
delle
classi
intellettuali
(bardi,
indovini
e,
soprattutto,
druidi
e
sacerdotesse
druide):
l'idea
di
fondo
era
che
la
vita,
con
il
suo
fluido,
la
sua
forza
chiamata
“oiw”,
permeasse
ogni
cosa.
Tutte
le
manifestazioni
della
natura,
anche
quelle
più
violente,
erano
vissute
come
un'
incarnazione
di
tale
energia
assoluta
che
presiedeva
alla
creazione
e
alla
distruzione
del
mondo,
in
un
processo
ciclico
di
nascita
e
morte
che
si
rinnovava
continuamente
e da
cui
derivava
il
concetto
della
reincarnazione.
Qualcosa
di
quasi
totalmente
analogo
(anche
se
molto
più
palese
anche
a
livello
popolare)
avveniva,
in
un’epoca
successiva,
al
di
là
dell’oceano,
presso
le
popolazioni
Maya:
sostanzialmente,
quelle
che
possiamo
definire
come
le
divinità
della
religione
maya
erano
solo
rappresentazioni
plastiche
di
esseri
sovrannaturali
ma
transeunti,
in
quanto
unicamente
figure
mediatrici
tra
uomini
e un
“Principio
creatore”
inconoscibile.
In
questo
quadro,
gli
dei
per
i
Maya
erano
capaci
di
manifestarsi,
a
seconda
delle
circostanze,
sia
attraverso
fenomeni
naturali
e
tramite
animali,
sia
nei
simulacri
eretti
dagli
uomini
che
permettevano
la
materializzazione
delle
energie
sacre
durante
i
rituali,
al
fine
di
ricevere
le
offerte
degli
uomini
ed
erano
venerati
per
ciò
che
rappresentavano
secondo
il
significato
loro
attribuito
dai
sacerdoti,
ma
erano
visti,
come
già
probabilmente
nelle
culture
olmeca
e
tolteca,
come
entità
imperfette
che
nascevano
e
morivano,
mentre
una
solo
era
la
vera
divinità
suprema
e
immutabile,
il
Sole
(Itzamná),
asse
intorno
al
quale
si
sviluppava
la
vita,
generatore
del
tempo,
origine
del
divenire
e
unione
di
tutti
gli
animali
sacri
(giaguaro,
cervo,
colibrì,
aquila,
gazza,
ara).
Le
altre
“divinità
imperfette”,
dal
dio
Chaac,
da
cui
dipendono
la
pioggia
e la
siccità,
al
Dio
del
Mais,
alla
dea
lunare
della
fertilità
che,
invecchiando,
si
trasforma
nella
dea
della
pittura
o
quella
della
tessitura,
non
erano
che
semplici
emanazioni
del
suo
infinito
potere
generativo.
Ecco,
allora,
che
da
questi
esempi
comprendiamo
come
il
politeismo
di
numerose
tra
le
religioni
antiche
fosse,
in
realtà,
un
politeismo
imperfetto,
apparente
più
che
sostanziale.
Né
si
può
affermare
qualcosa
di
radicalmente
differente
approcciando
quelle
religioni
ancora
esistenti
che
si
rifanno
a
sistemi
politeistici.
Due
esempi
saranno
sufficienti
per
rendersene
conto.
Quasi
certamente,
la
più
antica
tra
le
religioni
correntemente
praticate
è l’Induismo
(o
più
correttamente
Brahamanesimo),
una
religione
così
aperta
ad
ogni
forma
sincretistica
(in
realtà,
più
che
di
una
fede
in
senso
stretto
dovremmo
parlare
di
un
insieme
di
fedi
e
credenze
che
vanno
dalla
pura
ritualità
alla
più
alta
speculazione
filosofico–metafisica,
aventi
alcuni
punti
in
comune
ma,
per
molti
tratti,
distanti
tra
loro
per
quanto
riguarda
l’interpretazione
di
tali
punti)
da
presentare,
proprio
per
l’inglobamento
secolare
di
pressoché
ogni
religiosità
con
cui
è
venuta
in
contatto,
una
quantità
di
divinità
globali
o
locali
praticamente
innumerevole.
Ora,
però,
è
assolutamente
necessario
constatare
come
le
diverse
divinità
e
avatar
adorati
dagli
Indù
sono
sempre
considerati
solo
come
diverse
forme
dell'Uno,
il
Dio
Supremo,
o
“Brahman”
(la
Realtà
Ultima,
l'Anima
Assoluta
ed
Universale).
Il
Brahman,
un
panteistico
Spirito
Cosmico,
è
indescrivibile,
incorporeo,
originale,
infinito,
assoluto,
trascendente
ed
immanente,
eterno.
È il
principio
ultimo
che
non
ha
avuto
inizio,
non
ha
una
fine,
è
nascosto
in
tutte
le
cose
ed è
la
causa,
la
fonte,
la
materia
e
l'effetto
di
tutta
la
creazione
conosciuta
e
sconosciuta.
Esso
è
l'origine
di
tutti
i
“Deva”
(esseri
celesti),
e
rappresenta
la
base
del
manifesto
e
dell'immanifesto,
uno
stato
indifferenziato
di
puro
essere,
eternità
e
beatitudine,
situato
al
di
là
di
qualsiasi
speculazione
filosofica,
moto
devozionale
o
immagine
personale
che
adotta
per
rendersi
accessibile
all'uomo.
Ecco,
dunque
che
la
religione
più
fortemente
volta
al
politeismo,
insospettatamente,
si
rivela
come,
in
effetti,
straordinariamente
incanalata
in
una
sorta
di
monoteismo
originario,
impersonale,
puramente
spirituale,
forse,
per
alcuni
versi
più
elevato
di
numerose
umanizzazioni
presenti,
sebbene
a
livello
popolarizzante,
in
molti
monoteismi
ufficiali.
Pur
con
tutte
le
cautele
del
caso,
anche
una
religione
nazionale
e di
difficile
classificazione
come
lo
Shinto
giapponese
presenta
alcune
analogie
con
questo
sistema
di
pensiero.
Esso,
infatti,
nella
sua
forma
più
pura,
prevede
l'adorazione
dei
kami,
un
termine
che
si
può
tradurre
come
divinità,
spiriti
naturali
o
semplicemente
presenze
spirituali,
alcuni
locali
e
considerabili
come
gli
spiriti
guardiani
di
un
luogo
particolare,
altri
che
possono
rappresentare
uno
specifico
oggetto
o un
evento
naturale,
ma,
comunque,
tutti
sottomessi
ad
Amaterasu,
la
dea
del
Sole,
divinità
non
“prima
inter
pares”
ma
ontologicamente
superiore,
come
dimostra
il
ruolo
e lo
status
del
suo
corrispettivo
(e
derivato)
imperiale
rispetto
agli
altri
esseri
umani
nella
concezione
giapponese
classica.
Alla
luce
di
queste
emergenze,
potrebbe
apparire
quasi
naturale
pensare
che,
sulla
scorta
di
quanto
affermato
da
Margaret
Murray
e
precedentemente
riportato,
il
passaggio
tra
monoteismo
e
politeismo
sia,
in
realtà,
una
operazione
sincretica
imperfetta,
il
cui
risultato
non
possa
mai
dirsi
completamente
acquisito,
rimanendo
una
sorta
di
sbilanciamento
in
senso
monoteistico
in
gran
parte
degli
sviluppi
politeisti.
In
effetti,
però,
questa
impressione
sarebbe
falsa,
come
risulta
chiaramente
compiendo
una
parallela
analisi
dei
grandi
monoteismi.
A
partire
da
quello
che
molti
ritengono
essere
il
più
antico
culto
monoteistico,
quello
zoroastriano,
infatti,
non
è
possibile
non
notare
numerosi
scivolamenti
verso
forme
religiose
tali
da
far
perdere
connotazioni
di
unicità
sostanziale
alla
divinità
di
riferimento.
Ad
esempio,
nodo
centrale
dello
Zoroastrismo
è la
costante
lotta
tra
il
bene
e il
male,
che
viene
sostanziata
attraverso
tratti
semi-mitologici:
agli
inizi
della
creazione,
esiste
il
dio
supremo,
“Ahura
Mazda”
(che
significa
Signore
Saggio),
caratterizzato
da
luce
infinita,
onniscienza
e
bontà.
Da
subito,
egli
non
è
solo,
ma è
accompagnato
da
sette
esseri,
gli
“Amesha
Spenta”,
detti
i
“santi
immortali”,
responsabili
delle
sette
creazioni
dell'antica
cosmogonia,
il
che
ci
vieta
di
parlare
di
un
monoteismo
assoluto.
Inoltre,
a un
certo
punto,
dal
dio
supremo
sono
emanati
due
spiriti
contrapposti,
“Spenta
Mainyu”,
lo
spirito
del
bene
e
“Angra
Mainyu”
(o “Ahriman”),
lo
spirito
del
male
o
Spirito
Distruttore:
essi
sono
come
due
gemelli
eternamente
in
lotta
tra
di
loro
e il
conflitto
interessa
l'intero
universo,
inclusa
l'umanità,
alla
quale
è
richiesto
di
compiere
una
scelta
tra
la
via
del
bene
e
della
giustizia
(“Asha”)
che
porta
alla
felicità
o la
via
del
male
che
porta
all'infelicità,
all'inimicizia
e
alla
guerra.
Secondo
gran
parte
degli
studiosi,
in
questo
senso,
il
dualismo
etico
diviene
il
tratto
più
caratteristico
e
originale
del
pensiero
di
Zoroastro,
che
deve
completare
la
sua
visione,
seppur
tendenzialmente
monoteista
(per
quanto,
come
osservato,
di
un
monoteismo
spurio)
,
attraverso
l’inserzione
di
un
“principio
del
male”,
dal
momento
che
un
monoteismo
puro
e
non
dualistico
non
avrebbe
potuto
spiegare
la
presenza
del
dolore
e di
tutto
ciò
che
è
negativo
all’interno
della
creazione
di
un
dio
“infinitamente
buono”.
E’
pur
vero
che,
secondo
Eliade,
la
religione
di
Zarathustra
non
è,
in
fin
dei
conti,
realmente
dualistica,
perché
l'opposizione
avviene
a
livello
degli
spiriti
emanati
dal
Dio
Supremo,
ma
risulta
comunque
impossibile,
con
la
creazione
di
una
sorta
di
pantheon
emanativo
dell’entità
suprema,
parlare
di
monoteismo
puro.
Senza
voler
entrare
in
un’annosa
questione
sulle
derivazioni
possibili
tra
Mazdeismo
zoroastriano
e
religioni
bibliche,
lo
stesso
problema
si
riscontra
anche
in
quelle
che
vengono
considerate
le
religioni
monoteiste
per
eccellenza:
Israelitismo
e
Cristianesimo.
Per
quanto
riguarda
il
primo,
anche
non
volendo
menzionare
l’ambiguità
del
comandamento
mosaico:
“Io
sono
il
Signore
Dio
tuo.
Non
avrai
altro
Dio
all’infuori
di
me”,
che
non
nega
esplicitamente
l’esistenza
di
altre
divinità
(per
altro
più
volte
menzionate
non
come
inesistenti,
bensì
come
inferiori
al
“Dio
d’Israele”,
come
in
Deut.
6:14,
Re
1:18,
Giud.
2:13-14),
ma
unicamente
specifica
che
il
popolo
d’Israele
dovrà
servire
un
solo
Dio
(e
il
concetto
è
ben
diverso),
si
ritorna
al
problema
delle
emanazioni
divine
che,
con
angeli,
demoni,
Satana
stesso,
vanno
a
creare
un
pantheon
di
“dei
minori”,
sottomessi
alla
divinità
maggiore,
ma
pur
sempre
esistenti
in
una
dimensione
che
supera
quella
umana
per
assurgere
a
tratti
che
sembrano
piuttosto
lontani
dal
monoteismo
puro.
Lo
stesso
vale
per
il
Cristianesimo,
in
cui,
anzi,
a
maggior
ragione,
sussistono
due
problemi
ancora
maggiori:
quello
teologico
della
Trinità
e
quello
del
culto
popolare
dei
santi.
In
termini
prettamente
logici,
infatti,
è
impossibile
non
notare
come
quello
dell’Unità
delle
tre
Persone
appaia
piuttosto
chiaramente
come
una
sorta
di
escamotage
(per
altro,
non
a
caso,
lungamente
dibattuto
in
tutta
la
patristica
classica)
per
sincretizzare
il
concetto
di
monoteismo
con
quello,
chiaramente
espresso
lungo
tutti
i
Vangeli,
di
una
triade
composta
da
Dio
Padre,
Dio
Figlio
e
Dio
Spirito
Santo.
A
livello
popolare,
poi
già
l’esistenza
di
un
“culto
dei
santi”
è
una
negazione
in
termini
del
monoteismo
(oltre
che
del
I
Comandamento)
dal
momento
che,
per
quanto
teologicamente
considerati
tramiti
intercessivi
verso
la
reale
divinità,
la
natura
stessa
dei
santi
e la
presenza
di
una
devozione
nei
loro
confronti
è
pressoché
completamente
perequabile,
in
termini
storici,
ad
una
sorta
di
semi-divinizzazione
di
stampo
quasi
greco-romano
e,
ancora
una
volta
non
a
caso,
è
proprio
per
questo
osteggiata
da
gran
parte
delle
Chiese
Protestanti.
Cosa
concludere,
di
fronte
a
così
tanti
esempi
sia
di
politeismo
che
di
monoteismo
spuri?
Probabilmente,
che
dal
punto
di
vista
del
sentire
psicologico,
l’essere
umano,
nel
suo
dar
forma
al
sentimento
religioso
(rivelato
o
dovuto
alla
necessità
di
trascendenza
che
sia)
non
è,
per
naturale
impulso
e
per
le
ragioni
esposte
all’inizio
del
presente
scritto,
portato
ad
una
assolutizzazione
che
si
informi
in
uno
dei
due
concetti.
Dagli
esempi
riportati,
infatti,
si
direbbe
che
la
forma
più
comune
di
culto,
per
quanto
spesso
neppure
riconosciuta,
sia
una
sorta
di
“via
mediana”
tra
i
due
estremi:
il
culto
enoteista.
Tecnicamente,
l’enoteismo
è,
infatti,
proprio
la
forma
di
culto
intermedia
tra
politeismo
e
monoteismo
in
cui
viene
venerata
in
particolar
modo
una
singola
divinità
senza
tuttavia
negare
l'esistenza
di
altri
dèi
accanto
ad
essa:
non
viene
quindi
negata
l'esistenza
di
altre
divinità,
ma
ne
viene
sottolineata
l'inferiorità,
esattamente
come
abbiamo
visto
accadere
in
gran
parte
dei
cosiddetti
politeismi.
Un
concetto
molto
prossimo
a
quello
enoteista
è
quello
di
monolatria,
che
differisce
dal
precedente
unicamente
perché
nell'enoteismo
non
è
escluso
che
gli
altri
dèi,
per
quanto
inferiori,
siano
oggetto
di
forme
di
culto,
cosa
non
concepibile
nella
monolatria,
esattamente
come
nei
supposti
monoteismi
che
abbiamo
brevemente
esaminato
non
sarebbe
concepibile
un
culto
ad
esempio
di
Ahriman
o di
Satana
e
non
dovrebbe,
a
rigore
logico,
essere
permissibile
un
culto
di
alcun
essere
umano,
per
quanto
defunto
e
santificato
(o
mitizzato).
Non
appare
strano
che,
come
affermano
Noss
e
Grandaard,
storicamente
numerosi
enoteismi
si
siano
evoluti
verso
una
chiusura
monolatrica
in
relazione
unicamente
ad
una
preminenza
politico-culturale
dei
sostenitore
dell’una
o
dell’altra
divinità,
ma,
certamente,
nessun
sostenitore
né
di
religioni
politeistiche
né
di
religioni
monoteistiche
spurie
sarebbe
mai
pronto
ad
accettare
il
fatto
che
questo
sia
esattamente
il
medesimo
processo
intercorso
anche
a
livello
dei
loro
credo.
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