N. 34 - Ottobre 2010
(LXV)
La storia scritta dai vinti
ideologizzazione dell’esercito tedesco nella II Guerra Mondiale
di Biagio Nuciforo & Roberto Rota
Non
sempre
sono
i
vincitori
a
scrivere
la
storia,
non
sempre
la
verità
dei
vinti
è
celata
dalla
forza
della
memoria
dei
vittoriosi.
La
memoria
della
Seconda
Guerra
Mondiale
e in
particolare
del
coinvolgimento
della
Wehrmacht
nei
crimini
nazisti
ne
sono
un
esempio
lampante.
Il
secondo
dopoguerra
è
per
la
Germania,
distrutta
dai
bombardamenti
alleati,
soprattutto
un
momento
di
necessaria
ricostruzione.
Scartato
il
piano
Morgenthau
(il
quale
prevedeva
di
ricostruire
appena
il
necessario
per
non
far
morire
di
fame
il
popolo
tedesco
e in
particolare
di
limitare
l’economia
all’agricoltura
e
alla
pastorizia,
allagando
le
miniere
della
Ruhr
e
vietando
l’estrazione
del
minerale
di
ferro)
il
profilarsi
del
conflitto
bipolare
rendeva
necessario
la
ricostruzione
della
Germania
Ovest
da
parte
delle
potenze
occidentali,
soprattutto
per
la
sua
posizione
strategica
e di
confine
con
il
blocco
sovietico.
È
indispensabile,
per
poter
andare
avanti,
partire
da
se
stessi
e
soprattutto
da
una
considerazione
positiva
e
costruttiva
di
quelle
forze
che
avrebbero
dovuto
sostenere
la
ricostruzione:
il
popolo
tedesco
appunto.
Una
memoria
che
considerasse
il
pesante
coinvolgimento
della
Wehrmacht
(e
quindi
di
gran
parte
della
popolazione)
nei
crimini
nazisti
avrebbe
messo
in
dubbio
le
fondamenta
della
società
tedesca
che
doveva
contare
primariamente
su
se
stessa
per
la
sua
rinascita.
Ben
presto,
quindi,
la
memoria
cambiò
e il
passato
fu
ben
presto
dimenticato.
La
“parentesi”
nazista
cominciò
a
trasformarsi,
sembrò
davvero
come
un
evento
estraneo
alla
storia
tedesca,
come
un
brutto
ricordo
che
non
coinvolgeva
il
cittadino
tedesco.
Il
Nazionalsocialismo
divenne,
nel
ricordo
del
dopoguerra,
come
un
qualcosa
che
avesse
riguardato
solo
una
minoranza
della
popolazione
e,
in
particolare,
che
non
avesse
toccato
i
soldati.
L’esercito,
era
considerato,
solo
come
un
insieme
di
“uomini
comuni”
semplici
strumenti
nelle
mani
di
pochi
criminali.
Chi
avrebbe
potuto
recriminare,
al
povero
soldato
tedesco,
di
aver
cercato
solo
di
non
rischiare
la
propria
vita
e
quindi
di
aver
seguito
ordini
che
egli
non
condivideva?
Era
forse
una
colpa
quella
di
aver
cercato
di
sopravvivere
nel
momento
più
buio
della
storia
europea
non
avendo
il
coraggio
e
l’eroismo
necessari
per
ribellarsi?
Solo
in
questo
modo
il
soldato/cittadino
poteva
essere
considerato
innocente
e
quindi
“degno”
di
continuare
la
storia
della
Germania
nel
dopoguerra.
Questo
tipo
di
argomentazioni
nasce
principalmente
da
tutta
una
serie
di
letterature
auto-giustificazioniste
nate
negli
anni
Cinquanta
e
Sessanta
per
opera
dei
generali
tedeschi
sopravvissuti
alla
guerra:
si
veda,
soprattutto
Von
Manstein
oppure
Von
Paulus.
Questi
scritti
sottolineano
soprattutto
l’eroismo
delle
truppe
tedesche
ed è
proprio
da
ques
te
opere
che
troveranno
ispirazione
gli
studiosi
occidentali
i
quali,
attenti
soprattutto
alle
questioni
strategico-militari,
sottolineeranno
l’abilità
degli
strateghi
tedeschi
(anche
per
esaltare,
di
conseguenze,
le
vittorie
alleate)
e la
cavalleria
degli
ufficiali.
Molto
spesso
gli
ufficiali
tedeschi
sottolineano
la
tradizione
di
Uberparteilichkeit
(sovrapartiticità)
dell’esercito
tedesco,
ligio
ai
propri
doveri
e
quindi
impossibilitato
a
mettere
in
discussione
gli
ordini,
anche
se
questi
fossero
stati
discutibili.
Questo
tipo
di
memoria
che
discolpa
il
soldato-cittadino
tedesco
fu
fatto
proprio
anche
dai
governi
delle
due
germanie
divise.
Per
la
Repubblica
Federale
Tedesca
(occidente)
la
memoria
della
guerra
era
soprattutto
la
memoria
della
tragica
sorte
di
quei
tedeschi
morti
o
caduti
prigionieri
in
mano
ai
russi
oppure
il
ricordo
dell’ingiustizia
subita
da
coloro
che
erano
stati
costretti
a
lasciare
le
proprie
case
e le
proprie
terre
nell’Europa
Orientale
conquistata
dall’Unione
Sovietica
con
la
guerra.
Nella
memoria,
invece,
della
Repubblica
Democratica
Tedesca
(oriente)
la
guerra
era
stata
soprattutto
causata
da
quei
capitalisti
che
avevano
guidato
Hitler
alla
conquista
e
poi
alla
distruzione
dell’Europa.
Le
vere
vittime
erano
i
lavoratori-cittadini
tedeschi
che
avevano
visto
distrutto
il
loro
paese
ed
erano
stati
costretti
a
partire
per
una
guerra
che
essi
non
condividevano.
In
entrambe
le
ricostruzioni,
il
coinvolgimento
dell’uomo
comune
(sia
che
fosse
considerato
come
libero
cittadino
oppure
come
compagno
lavoratore)
alle
barbarie
naziste
era
completamente
assente.
Chi
avrebbe
potuto
accusare
colui
il
quale
avrebbe
dovuto
ricostruire
la
patria
distrutta?
Mettere
in
discussione
l’innocenza
del
cittadino-lavoratore
voleva
dire
mettere
in
discussione
l’esistenza
stessa
di
un
futuro
per
il
popolo
tedesco.
Emblematico,
di
questa
strumentalizzazione
della
storia,
è la
memoria
della
Battaglia
di
Stalingrado.
Nel
1950
viene
pubblicato
il
volume
“Ultime
Lettere
da
Stalingrado”.
Si
tratta
di
39
lettere
di
soldati
tedeschi
(portate
via
dalla
sacca
in
cui
era
imprigionata
la
VI
armata
di
Von
Paulus
poco
prima
che
questa
cadesse)
in
cui,
anche
attraverso
profonde
riflessioni
filosofiche,
si
descrive
l’approssimarsi
della
morte
e la
fine
di
tutte
le
illusioni
religiose
ma
soprattutto
la
fine
del
consenso
nell’infallibilità
del
Fuhrer.
In
verità
le
lettere
si
dimostreranno
false
e,
in
particolare,
il
distacco
da
Hitler
avverrà
solo
durante
la
prigionia
in
Russia
e
non
a
Stalingrado.
Anzi
i
soldati
della
VI
armata,
accerchiati,
avevano
l’estremo
bisogno
di
credere
in
un
miracolo,
e
soprattutto
di
credere
nell’infallibilità
del
Fuhrer
che
li
avrebbe,
prodigiosamente,
tratti
in
salvo.
È
questo,
quello
che
si
evince
dalle
lettere
ritrovate
negli
archivi
russi
dopo
il
crollo
dell’URSS.
Il
culto
del
Fuhrer
era
duro
a
morire
anche
nei
momenti
più
disperati
e
questo
dimostra
l’estrema
ideologizzazione
delle
truppe
al
fronte.
La
memoria
ufficiale,
invece,
ci
presenterà
un’immagine
diversa
della
battaglia.
Per
la
Repubblica
Federale
Tedesca
il
ricordo
di
Stalingrado
è
soprattutto
il
ricordo
dell’Armata
tradita,
abbandonata
alla
sua
distruzione
dalla
scelleratezza
di
Hitler.
Non
solo,
ma
nel
clima
bipolare
della
Guerra
Fredda,
la
distruzione
della
VI
armata
assumerà
anche
un
aspetto
diverso,
diventerà
il
simbolo
del
sacrificio
del
libero
cittadino
tedesco
dinanzi
all’avanzata
del
comunismo
(memoria,
questa,
già
presentata
da
Goebbels
poco
dopo
la
disfatta).
Il
soldato
tedesco,
grazie
alla
sua
resistenza,
aveva
evitato
il
crollo
completo
del
fronte
meridionale
e
quindi
difeso
la
patria.
Per
la
Repubblica
Democratica
Tedesca,
invece,
Stalingrado
sarà
soprattutto
il
luogo
di
origine
di
quel
Comitato
per
la
Germania
Liberà
nucleo
della
futura
Germania
orientale.
In
entrambi
i
casi
non
si
fa
riferimento
al
fatto
che,
se
fu
possibile
resistere
così
a
lungo
nella
situazione
disperata
della
VI
armata
fu
soprattutto
perché
il
soldato
tedesco
era
sorretto
da
un
idea,
ma
qual’era
quest’idea?
Ciò
che
sorprende
di
più
nell’osservare
l’operato
delle
truppe
tedesche
durante
la
Seconda
Guerra
Mondiale
è il
fatto
che
mai
un
esercito
ha
resistito
così
a
lungo
e in
condizioni
così
disperate
come
la
Wehrmacht
in
Russia.
Non
basta
far
riferimento
alle
spiegazioni
classiche.
Secondo
alcuni,
per
esempio,
la
forza
dei
tedeschi
era
dovuta
alla
coesione
del
gruppo
primario
all’interno
delle
truppe,
in
particolare
il
sentirsi
tutti
fratelli
uniti
in
un’unica
missione.
In
verità
è
difficile
parlare
di
gruppi
primari
laddove
le
perdite
furono
altissime
e i
ricambi
non
lasciavano
il
tempo,
ai
soldati,
di
rafforzare
la
propria
coesione.
D’altronde
neanche
il
concetto
di
sopravvivenza
fu
il
motivo
fondante
della
resistenza.
Nei
diari
dei
soldati
spesso
si
fa
riferimento
a
una
“guerra
di
sopravvivenza
e di
difesa”
contro
i
russi,
in
verità
parlare
di
difesa
in
una
guerra
di
invasione
è
molto
difficile.
L’idea
che
sostenette,
oltre
l’inverosimile,
le
truppe
tedesche
per
tutti
i
sei
anni
di
guerra
e
che
non
fece
mai
crollare
la
fede
nella
Endsieg
cioè
nella
vittoria
finale,
fu
la
Weltanschauung
(ideologia)
nazista.
Sebbene
la
letteratura
militare
classica
ponga
l’accento
ripetutamente
sull’Uberparteilichkeit
delle
truppe,
in
verità
le
cose
stavano
diversamente.
Se
si
analizza
la
classe
degli
ufficiali
tedeschi
(spina
dorsale
delle
Forze
Armate)
ci
si
rende
conto
del
fatto
che
essa
era
profondamente
coinvolta
con
la
politica
del
partito
(NsDap).
L’allargamento
dell’esercito,
durante
gli
anni
trenta,
aveva
profondamente
stravolto
la
composizione
dello
stesso.
In
particolare
la
classe
aristocratica,
che
al
tempo
dell’esercito
imperiale
formava
il
65%
degli
ufficiali,
durante
la
guerra
si
era
ridotta
al
solo
7%.
Quindi
quella
classe
che,
nella
società
tedesca,
si
discostava
di
più
dai
nazisti
(considerati
dei
parvenus,
ma
con
i
quali,
in
ogni
modo,
collaborò)
era
fortemente
minoritaria
nella
classe
ufficiale.
L’altra
classe
che,
come
quella
aristocratica,
era
più
distante
dal
partito,
era
quella
proletaria
anch’essa
in
minoranza
nella
classe
ufficiale
(solo
il
7%).
Quindi
chi
era
più
distante
dall’ideologia
nazionalsocialista
(aristocratici
e
proletari)
era
in
minoranza
all’interno
degli
ufficiali
(i
primi
per
il
veloce
allargamento
dell’esercito
i
secondi
perché,
ovviamente,
non
avevano
i
requisiti
giusti).
Il
ceto
medio,
invece,
che
sosteneva
fortemente
Hitler
formava
la
parte
più
consistente
(65%)
della
classe
ufficiali
delle
forze
armate.
Inoltre
bisogna
considerare
che
si
trattava
di
ufficiali
i
quali
a
causa
del
forte
aumento
degli
effettivi
e
poi
della
necessità
di
rimpiazzi
erano
molto
giovani.
Essi
erano
cresciuti
durante
il
regime
hitleriano
e
grazie
alla
“Legge
della
Gioventù
Hitleriana”
(1936)
e
alla
“Legge
sul
servizio
del
lavoro
nel
Reich”
(1935)
erano
stati
educati
nella
mente,
nel
corpo
e
nello
spirito
secondo
la
Weltanschauung
nazista.
Quindi,
non
solo
gli
ufficiali
erano
profondamente
ideologizzati,
ma
tradizionalmente
essi
erano,
nell’esercito
tedesco,
non
solo
guide
militari
ma
anche
guide
spirituali
delle
truppe.
Questo
sostegno
morale
non
era
solo
una
libera
iniziativa
degli
ufficiali
ma
era
richiesto
anche
dalle
direttive
ufficiali
e
dagli
ordini
dall’alto.
La
propaganda
all’interno
dell’esercito
tedesco
fu
un
veicolo
molto
importante
per
il
sostegno
spirituale
delle
truppe.
Le
truppe
erano
dotate
di
radio-van
e
film-van
che
presentavano
messaggi
e
documentari
incentrati
sull’ideologia
nazista.
L’informazione
cartacea
fu
sempre
presente
non
solo
attraverso
periodici
puntualmente
distribuiti
(ricordiamo,
per
esempio,
“Comunicazione
per
le
Truppe”
oppure
“Notiziario
dell’OKW”)
ma
anche
attraverso
opuscoli
specializzati
nel
presentare
la
visione
della
storia,
della
geografia
e
della
biologia
nazista.
La
propaganda
più
efficace,
comunque,
fu
quella
orale
ad
opera
di
conferenzieri
o
professori
universitari
(quando
le
truppe
erano
sul
fronte
orientale)
ma
soprattutto
quella
degli
ufficiali
subalterni
(sottotenenti,
tenenti
e
capitani
che,
come
abbiamo
già
detto,
erano
suggestionati
dall’ideologia
nazionalsocialista)
molto
vicini
alle
truppe
i
quali
avevano
la
fiducia
e il
rispetto
dei
soldati.
Uno
dei
paradossi
più
importanti
della
guerra
fu
il
fatto
che
i
sovietici,
osservando
la
forza
e
l’organizzazione
dell’esercito
nazista,
eliminarono
tutte
le
infiltrazioni
e i
poteri
dei
commissari
politici
all’interno
dell’esercito
(in
precedenza
questi
commissari
avevano
diritto
di
veto
sulle
decisioni
degli
ufficiali
combattenti),
la
rigidità
ideologica
era
stata
sacrificata
per
una
migliore
efficienza
militare.
Dall’altra
parte
era
convinzione
comune
che
la
forza
(disperata,
assurda
e
inutile
per
i
tedeschi)
dell’esercito
russo
era
data
dall’opera
dei
commissari
politici
che
sostenevano,
con
l’ideologia,
le
truppe.
Quindi,
con
un
processo
inverso
rispetto
a
quello
sovietico,
la
Wehrmacht
introdusse
delle
figure
politiche
all’interno
dell’esercito.
Il
15
luglio
1942
OKW
creò
la
figura
del
“responsabile
per
l’impulso
dello
spirito
militare”
supervisore
nelle
sezioni
informative.
Il
14
maggio
1943
viene
creata
la
figura
dell’Ufficiale
Istruttore,
subordinato,
però,
agli
ufficiali
combattenti.
La
vera
sottomissione
dell’esercito
al
partito
comincia
concretamente
con
la
creazione
(dicembre
1943)
di
Ufficiali
direttivi
Nazionalsocialisti
(dipendenti
non
dagli
ufficiali
combattenti
ma
dallo
Stato
Maggiore
Nazionalsocialista)
e
non
si
realizzerà
solo
a
causa
della
fine
della
guerra.
L’ideologizzazione
delle
truppe
non
era
solo
dovuta
all’influenza
degli
ufficiali,
ma
anche
gli
ordini,
che
venivano
dagli
stati
maggiori,
seguivano
la
Weltanschauung.
In
particolare
stiamo
parlando
dei
cosiddetti
“Ordini
criminali”
i
quali
giustificavano
qualsiasi
tipo
di
barbarie
sul
fronte
orientale.
Essi
erano
di
quattro
tipi:
1
“Disposizioni
relative
alle
attività
delle
Einsatzgruppen
delle
SS e
delle
SD”
(le
quali
davano
libertà
di
uccidere,
a
queste
unità,
nei
territori
conquistati);
2
“Limitazione
della
giurisdizione
militare”
(libertà
per
le
truppe
di
giustiziare
i
partigiani,
chi
li
sosteneva
e di
fare
rappresaglie);
3
“Ordine
sui
commissari”
(immediata
fucilazione
dei
commissari
politici);4
“Linee
guida
per
la
condotta
delle
truppe
in
Russia”.
Molto
spesso,
per
giustificare
violenze
gratuite
soprattutto
contro
vecchi,
donne
e
bambini,
i
civili
russi
venivano
considerati
come
degli
“agenti”,
cioè
delle
spie.
La
figura
simbolo
della
spia
era
l’ebrea-donna-bambina
russa,
la
quale
cercava
maliziosamente
di
attrarre
il
soldato
tedesco.
Questo
era
solo
uno
dei
vari
modi,
per
contribuire
alla
disumanizzazione
del
nemico,
la
qual
cosa,
avrebbe
reso
più
facile
l’accettazione
della
politica
di
sterminio.
L’Untermenschen
sovietico
non
era
umano,
era
più
simile
ad
un
anonimo
animale
e
poteva
essere
semplicemente
liquidato.
La
collaborazione
della
Wehrmacht
con
le
azioni
delle
Einsatzgruppen
dimostra
come
questa
politica
d’ideologizzazione
fosse
stata
efficace.
Erano
le
truppe
a
consegnare
i
partigiani
alle
SS
ed
erano
sempre
loro
a
dividere
per
“razze”
i
prigionieri,
in
modo
da
facilitarne
la
deportazione
(si
pensi
a
quella
degli
ebrei).
Dunque,
è
chiaro
che
ci
fu
ad
opera
non
solo
degli
ufficiali
subalterni
ma
anche
da
parte
delle
alte
sfere
degli
stati
maggiori
una
decisa
politica
di
ideologizzazione.
Il
soldato
semplice,
non
era,
però
estraneo
a
queste
ideologie
(come
dimostra
il
suo
comportamento).
Non
solo
le
idee
razziste-naziste
(si
pensi
all’idea
dell’inferiorità
degli
slavi)
erano
già
presenti
nella
società
tedesca
ma
gli
stessi
soldati
richiedevano
un
profondo
supporto
spirituale.
Dinanzi
alla
durezza
e
alla
lunghezza
della
guerra,
alla
lontananza
da
casa,
essi
avevano
bisogno
di
un’idea
in
cui
credere,
un’idea
che
nobilitasse
e
giustificasse
una
guerra,
a
prima
vista,
assurda.
L’ideologia
non
era
solo
diffusa,
era
anche
disperatamente
richiesta.
E il
fatto
che
fu
profondamente
assimilata
è
chiaro
dalla
strenua
resistenza
dimostrata
dal
soldato
tedesco
anche
nel
momento
in
cui
la
guerra
era
chiaramente
ed
evidentemente
persa.
Quindi
l’ideologizzazione
fu
importante
non
solo
perché
aumentò
il
consenso
delle
truppe
circa
il
credo
nazista
(giustificando
e
legittimando
le
politiche
di
sterminio)
ma
aumentò
anche
la
capacità
di
resistenza
dell’esercito
rendendolo
cieco
circa
l’avvicinamento
della
catastrofe
finale.
La
guerra
sul
fronte
orientale
fu
profondamente
differente
da
tutte
le
altre
guerre.
Dimenticare
il
profondo
coinvolgimento
delle
truppe
tedesche
nei
crimini
nazisti
ci
porta
a
sottovalutare
la
loro
(necessaria
per
il
partito)
ideologizzazione.
Se
questo
“passato
che
non
passa”
è
stato
spesso
dimenticato
dalla
storia
che
costruisce
e
ricostruisce
sempre
se
stessa,
ricordarlo
è
necessario
per
comprendere
la
profonda
drammaticità
e
violenza
della
guerra
sul
fronte
orientale
e la
sua
peculiarità
rispetto
a
tutti
gli
altri
conflitti.