N. 90 - Giugno 2015
(CXXI)
LE QUESTIONI SICILIANE DI IBN SAB’IN
L’ERETICO ILLUMINATO CHE CONQUISTÒ LO STUPOR MUNDI
di Federica Campanelli
Sfuggi
dalla
tua
abitudine
e
non
fare
affidamento
su
di
essa,
dirigiti
verso
la
tua
disposizione
innata
prima,
e a
essa
affidati.
Ibn
Sab’In
‘Abd
al-Haqq
ibn
Ibrahim
ibn
Muhammad
ibn
Nasr
al-’Akki
al-Mursi
Abu
Muhammad
Qutb
al-Din
ibn
Sab’in
è
una
ricercata
figura
della
mistica
islamica
medievale,
resa
celebre
dal
rapporto
epistolare
di
carattere
didattico
intessuto
con
l’imperatore
Federico
II
di
Svevia
intorno
al
1237-1242.
L’appellativo
con
cui
egli
è
maggiormente
noto,
Ibn
Sab’in,
vuole
dire
‘figlio
del
settanta’,
‘appartenente
al
settanta’;
altro
suo
nome,
molto
significativo,
è
Qutb
al-Din,
cioè
‘Polo
della
Ragione’
(Qutb
nel
sufismo
ha
il
significato
di ‘centro’,
‘asse’,
o
anche
‘Guida
spirituale’,
colui
che
è
considerato
l’essere
umano
perfetto,
il
polo
della
gerarchia
iniziatica,
che
è al
di
sopra
della
gerarchia
dei
wali,
cioè
dei
santi).
Ibn
Sab’in
nacque
in
Al-Andalus,
precisamente
a
Mursia,
nella
Valle
de
Ricote
intorno
al
1217
(data
dell’Egira
613
o
614;
altri
studiosi
suggeriscono
le
date
612
o
619),
da
nobile
famiglia
di
origine
marocchina
coinvolta,
in
alcuni
suoi
componenti,
nella
vita
amministrativa
della
città.
Il
padre
Ibrahim
ibn
Muhammad
ibn
Nasr
fu
amministratore
sotto
gli
Almohadi
(che
si
sostituirono
agli
Almoravidi
a
partire
dal
1145)
e
pare
che
anche
il
nonno
di
Ibn
Sab’in,
come
riporta
lo
storico
al-Maqqari
(XVI-XVII
secolo),
sia
stato
un
notabile.
Interessante
l’episodio,
ricostruito
da
Michele
Amari,
riguardante
il
fratello
Abu
Talib,
inviato
quale
messaggero
dal
principe
‘Abd
Allah
ibn
Hud
presso
la
Santa
Sede
nel
1243.
In
quell’anno,
infatti,
Alfonso
Fernàndez
(che
sarà
re
di
Castiglia
e di
Leòn
col
nome
Alfonso
X),
occupò
insieme
al
padre
Ferdinando
III
re
di
Castiglia
alcuni
territori
andalusi
tra
cui
Mursia,
stabilendo
così
il
vassallaggio
di
‘Abd
Allah
b.
Hud.
Certe
manovre
politiche,
tuttavia,
determinarono
la
cacciata
del
principe
da
Mursia
e
questi
chiese
l’intercessione
papale
di
Innocenzo
IV
per
risolvere
la
delicata
questione
diplomatica.
Gli
studiosi
Ibn
al-Hatib
e
successivamente
al-Maqqari
riportano
che
al
cospetto
di
Abu
Talib,
ambasciatore
di
‘Abd
Allah
ibn
Hud,
il
pontefice
abbia
detto:«Sappiate
che
il
fratello
di
questi
è un
uomo
così
sapiente
che
oggi,
presso
i
Musulmani,
non
vi è
nessuno
che
conosca
Dio
meglio
di
lui»
(P.
Spallino,
Introduzione
a
Ibn
Sab’in,
Le
questioni
siciliane,
Officina
di
Studi
Medievali,
Palermo
2002,
p.
18).
L’eclettica
formazione
di
Ibn
Sab’in
iniziò
sin
da
ragazzo;
egli
si
dedicò
con
devozione
e
assoluta
libertà
allo
studio
di
discipline
letterarie,
filosofiche,
linguistiche,
religiose
e
scientifiche,
aderì
al
sufismo
e
alla
shari’a,
si
occupò
di
medicina,
alchimia
e
magia
bianca.
Si
dimostrò
presto
padrone
della
sua
sapienza,
giungendo
a
organizzare
una
propria
tariqa,
o
corrente
iniziatica,
le
cui
idee
non
mancarono
d’essere
definite
eterodosse
dai
contemporanei.
Minacciati
dalle
persecuzioni
della
comunità
musulmana
ortodossa,
attorno
al
1242
Ibn
Sab’in
e il
suo
seguito
di
adepti
abbandonarono
Mursia
per
recarsi
prima
a
Granada
e
successivamente
a
Ceuta,
sullo
Stretto
di
Gibilterra.
Qui
il
maestro
sufi
trovò
moglie
e da
lei
forse
ebbe
anche
un
figlio,
che
si
spegnerà
nel
1267.
È
proprio
a
Ceuta
che
s’inserisce
la
stesura
del
prezioso
manoscritto
arabo
(oggi
nella
Biblioteca
Bodleyana
di
Oxford)
dal
titolo
Libro
delle
questioni
siciliane
di
Ibn
Sab’in,
su
di
lui
la
misericordia,
sugli
argomenti
dell’anima
e le
risposte
alle
domande
(Kitab
siqiliyyat
Ibn
Sab’in
‘alayhi
al-rahma
fi
mabahit
al-nafs
wa
al-agwiba
‘an
al-aswila),
ovvero
Le
questioni
siciliane
(Al-masa’il
al-siqilliyya),
un
lucidissimo
trattato
filosofico
in
forma
epistolare.
All’arabista
Michele
Amari
il
merito
di
aver
individuato
per
primo
Federico
II
quale
destinatario
del
testo
attraverso
il
quale
Ibn
Sab’in,
rispondendo
a
cinque
domande
poste
dall’imperatore,
sviscera
delicate
questioni
filosofiche.
L’introduzione
al
manoscritto
delinea,
in
maniera
concisa,
il
contesto
in
cui
ha
preso
forma
il
componimento
e il
lungo
percorso
che
dal
Regno
di
Sicilia
ha
condotto
le
questioni
federiciane
fino
a
Ibn
Sab’in:
“Nel
nome
di
Dio,
il
Clemente,
il
Misericordioso,
al
quale
imploro
soccorso
[...]
Ibn
Sab’in,
che
Dio
lo
renda
utile
e
che
reiteri
le
sue
benedizioni
ai
Musulmani
nella
risposta
alle
questioni
del
re
dei
Rum,
imperatore,
principe
di
Sicilia,
quando
ne
inviò
copia
in
Oriente
e in
Egitto,
nello
Sham,
in
Iraq,
nel
Durub,
nel
Yemen.
Ma
le
risposte
dei
sapienti
dei
musulmani
comportarono
ciò
che
non
lo
soddisfece.
Allora
chiese
dell’Ifriqiya
e di
chi
in
essa
si
potesse
trovare
adatto
a
rispondere,
ma
gli
fu
detto
che
era
priva
di
uno
così.
Chiese
al
Maghreb
e
dell’Andalus
e
gli
fu
detto
che
c’era
un
uomo
di
nome
Ibn
Sab’in.
Allora
scrisse
al
califfo
al-Rashid
[...]
sulla
questione.
E il
principe
dei
credenti
scrisse
al
suo
governatore
a
Ceuta,
Ibn
Halas,
di
ricercare
l’uomo
di
cui
si
parlava,
affinché
rispondesse
alle
questioni.
Il
re
dei
Rum
aveva
inviato
un
naviglio
con
il
suo
ambasciatore
e
una
somma
di
denaro.
Ibn
Halas
fece
chiamare
l’imam
Qutb
al-Din
[Ibn
Sab’in,
n.d.r.]
e,
come
aveva
ordinato
il
califfo,
gli
mostrò
le
domande;
questi
[...]
si
incaricò
di
rispondere
[...]
Poi,
quando
la
risposta
arrivò
al
re,
questi
ne
fu
soddisfatto
e
gli
inviò
un
dono
prezioso,
ma
quello
lo
rifiutò
come
il
primo,
e
così
il
cristiano
capì
di
non
essere
all’altezza,
e
Dio
diede
vittoria
all’Islam
rendendolo
superiore
al
credo
cristiano
con
argomentazioni
decisive
[...]”
(P.
Spallino,
a
cura
di,
Ibn
Sab’in,
Le
questioni
siciliane,
Officina
di
Studi
Medievali,
Palermo
2002,
pp.
55-56).
Dopo
un
lungo
peregrinare
tra
i
Paesi
che
all’epoca
accoglievano
i
più
saggi
tra
gli
uomini,
le
questioni
giunsero,
dunque,
nelle
mani
di
Ibn
Sab’in,
il
solo
in
grado
di
soddisfare
lo
Stupor
Mundi
Federico
II.
Il
manoscritto
si
compone
di
49
fogli
scritti
su
ambo
i
lati;
ogni
pagina
contiene
23
righe.
Le
domande
non
sono
espressamente
menzionate,
ma
si
deducono
chiaramente
dal
contenuto
delle
risposte
poiché
il
filosofo
introduce
ognuno
dei
suoi
responsi
con
una
impeccabile
trattazione
analitica
della
forma
con
cui
Federico
aveva
posto
le
cinque
questioni.
Operando
in
tal
modo
egli
non
solo
esaudisce
le
complesse
richieste
del
suo
interlocutore,
ma
invita
anche
a
focalizzare
l’attenzione
sul
valore
semantico
delle
parole
usate,
sia
nel
porre
le
domande
sia
nel
dare
le
risposte.
Ibn
Sab’in
non
si
preoccupa
neanche
di
criticare
aspramente
il
sovrano
per
via
della
superficialità
e
dell’imprecisione
che,
a
suo
dire,
troppo
spesso
emergono
dai
quesiti
proposti.
Per
Ibn
Sab’in
è
innanzitutto
necessario
scongiurare
ogni
potenziale
controversia
scaturita
dalla
scelta
errata
o
generica
dei
termini;
ciò
vale
non
solo
per
il
postulante,
ma
anche
per
colui
che
è
tenuto
a
dare
una
risposta.
Ad
esempio,
così
egli
scrive:
“O
Principe
amabile
desideroso
di
sapere
e di
farti
guidare,
che
Dio
[...]
ti
conceda
la
capacità
di
distinguere
il
vero
dal
falso
su
questioni
sulle
quali
disputarono
i
più
geniali
di
ogni
epoca
e i
dotti
di
tutti
i
tempi
e i
secoli.
Ognuno
di
loro
ha
trattato
le
questioni
[...]
con
un
linguaggio
generico,
sommario,
poco
coerente,
con
significato
probabile.
Ma
chi
chiede
d’essere
guidato
deve
guardarsi
dalle
espressioni
inesatte
e
astenersi
dal
termine
omonimo
e
ambiguo,
a
meno
che
non
ne
faccia
uso
con
accortezza
e
con
restrizione
del
senso.
Così
anche
deve
diffidare
dei
concetti
che
si
prestano
al
falso
ragionamento,
che
si
dicono
per
ipotesi
[...]
il
significato
del
discorso
sommario
non
si
comprende
dalla
sua
espressione
linguistica
senza
un
esame
dettagliato
o
senza
che
gli
sia
dedicata
una
spiegazione”
(P.
Spallino,
a
cura
di,
Ibn
Sab’in,
Le
questioni
siciliane,
Officina
di
Studi
Medievali,
Palermo
2002,
pp.
57-58).
Le
cinque
questioni
siciliane
riguardano
fondamentalmente
problematiche
di
carattere
filosofico,
fatta
eccezione
per
l’ultima
di
esse,
incentrata
più
che
altro
sulla
corretta
interpretazione
di
un
particolare
detto
(hadit)
attribuito
al
Profeta.
Le
tematiche
trattate
sono:
la
tesi
di
Aristotele
sull’eternità
del
mondo;
la
scienza
divina,
i
suoi
scopi
e le
sue
premesse;
le
categorie
aristoteliche,
quali
sono
e
qual
è il
loro
numero;
l’anima,
la
prova
della
sua
immortalità
e
l’opposizione
tra
Aristotele
e
Alessandro
di
Afrodisia;
infine,
l’interpretazione
del
hadit
“Il
cuore
del
credente
è
tra
due
dita
del
Misericordioso”.
Forse
proprio
a
causa
delle
risposte
redatte
per
l’imperatore,
Ibn
Sab’in
si
espose
troppo
agli
occhi
dei
fuqaha,
o
giureconsulti
islamici,
perciò
fu
ancora
una
volta
costretto
a
trasferirsi.
Lasciò
Ceuta
e si
diresse
verso
l’Algeria,
dove
trascorse
un
lungo
e
fecondo
periodo
in
cui
compose
alcuni
dei
suoi
maggiori
scritti.
La
persecuzione,
però,
non
aveva
trovato
ostacoli
e
nel
1254
il
sufi
dovette
spostarsi
a
Oriente,
in
Egitto.
Nonostante
il
sufismo
fosse
tutto
sommato
benvisto
in
Egitto,
il
maestro
andaluso,
al
suo
arrivo,
non
ricevette
la
stessa
composta
accoglienza
riservata
agli
esponenti
delle
altre
correnti
sufi;
la
sua
colpa
pare
fosse
l’inaccessibilità
del
suo
pensiero,
considerato
troppo
ambiguo,
inafferrabile
e
lontano
dall’ortodossia
islamica.
A
ciò
va
aggiunta
l’avversione
nei
confronti
dello
shi’ismo,
di
cui
Ibn
Sab’in
era
seguace
(perlomeno
tale
era
considerato).
In
particolare
apparteneva
alla
corrente
dell’ismailismo,
innestatasi
in
Egitto
nel
X
secolo
con
il
califfato
fatimide
(che
al
massimo
della
sua
espansione
andava
dal
Marocco
all’Arabia
occidentale,
comprese
Sicilia
e
Siria
e
con
capitale
il
Cairo)
fino
al
1171,
quando
subentrò
la
dinastia
degli
Ayyubidi
fondata
dal
sunnita
Salah
al-Din
(in
Occidente
noto
con
il
nome
latinizzato
di
Saladino).
Ibn
Sab’in
fece
quindi
rotta
per
la
Mecca,
dove
trascorse
molti
anni
di
relativa
tranquillità,
dedicandosi
al
suo
lavoro
e
alla
sua
tariqa
detta
al-sab’iniyya,
attraverso
la
quale
i
discepoli
professavano
la
tanto
discussa
wahdat
al-mutlaqa,
l’Unicità
Assoluta.
La
pace
verrà
rotta
verso
il
1268,
quando
tornarono
tuonanti
le
contestazioni
dei
fuqaha
meccani.
A
nulla
valsero
i
tentativi
diplomatici
di
Ibn
Sab’in
per
tornare
nel
Maghreb;
morì
alla
Mecca
tra
il
1268
e il
1270.
Come
capita
a un
uomo
distinto
dalla
duplice
fama
di
“santo
e
infedele”,
“illuminato
e
oscuro”,
diverse
furono
le
supposizioni
circa
la
sua
morte;
prima
ancora
che
sulla
data,
sulla
causa:
se
di
suicidio
si
trattò,
va
forse
considerato
uno
degli
atti
più
audaci
che
egli
abbia
compiuto,
essendo
il
suicidio
proibito
dall’Islam;
altre
fonti,
invece,
riportano
l’avvelenamento
da
parte
del
sultano
yemenita
al-Malik
al-Muzaffar
(che
pure
gli
aveva
garantito
protezione
in
tempi
passati)
su
esortazione
sunnita;
ma
la
teoria
più
accreditata
è
quella
della
morte
sopravvenuta
per
cause
naturali.