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N. 25 - Gennaio 2010 (LVI)

I miei sette figli
Papà Alcide racconta la parabola dei fratelli Cervi

di Marco Grilli

 

I valori più semplici e umani della Resistenza restano per sempre impressi in un grande classico della memorialistica storica italiana, “I miei sette figli”, un libro che, attraverso l’emozionante voce narrante del papà Alcide, ripercorre la tragica vicenda dei sette fratelli Cervi, fucilati per la loro attività antifascista al Poligono di Reggio Emilia il 28 dicembre 1943.

Il volume, uscito in prima edizione nel marzo 1955 e pubblicato in ben 14 paesi stranieri, ebbe un incredibile successo popolare e letterario (500.000 copie furono vendute entro la primavera 1956), ispirando un film (I sette fratelli Cervi, regia di Giovanni Puccini, 1968) e rendendo leggendaria questa famiglia patriarcale di agricoltori emiliani.

Solamente dopo aver ricostruito tutto da capo, salvando la terra e la famiglia con la fatica del lavoro, Alcide Cervi, con la preziosa collaborazione di Renato Niccolai, si decise a scrivere la storia della sua famiglia per onorare la memoria dei figli e predicare i valori di pace, giustizia e libertà, regalandoci perle di saggezza immortali: "Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme. Il nostro seme è l’ideale nella testa dell’uomo. (…) Bisogna armarsi con la testa. Perché anche l’amore viene dall’utile, e c’è il buon governo quando l’amore per la Patria dà l’utile al cittadino e allo Stato”.

L’ansia di libertà e la volontà di lotta

La prima parte del libro scorre piana e serena, all’insegna dei ricordi di gioventù di Alcide, dal lavoro nei campi alla maturazione degli ideali di giustizia e progresso propugnati dal socialismo evangelico di Prampolini, fino alle immagine vivide e suggestive con cui viene tracciata la storia della famiglia, con la saggezza austera della moglie Genoveffa Cocconi e le dolci vicende dei nove figli (Gelindo, Antenore, Diomira, Aldo, Ferdinando, Rina, Agostino, Ovidio, Ettore) ripercorse dall’infanzia all’età adolescenziale.

L’ansia di libertà dei Cervi era destinata però a scontrarsi ben presto col grigiore e l’oppressione della dittatura fascista; nel 1930 Aldo sperimentò l’università del carcere trascorrendo ben 25 mesi dietro le sbarre a Gaeta, dopo un’ingiusta condanna patita per uno screzio con un milite.

La vicinanza con gli oppositori del fascismo fu la molla fondamentale per la maturazione della sua coscienza politica e volontà di lotta.

Le innovazioni in campo agricolo

I Cervi furono dei grandi innovatori nella realtà rurale dell’epoca, e grazie al loro impegno, al tenace lavoro e allo studio da autodidatti, combatterono contro l’arretratezza e lo sfruttamento nei campi, riuscendo a progredire nella scala sociale, da mezzadri, ad affittuari ed infine proprietari.

“Studiate, se volete capire la nuova idea” era il loro slogan. Memorabili le pagine in cui Alcide si sofferma sulla lotta per il progresso agricolo, dal livellamento delle terre all’irrigazione e alla meccanizzazione nei campi, condotta tra l’incredulità dei contadini e la contrarietà delle autorità.

Aldo soleva così stupire i rurali della zona girando col suo nuovissimo trattore Landini 50 hp, in cima al quale teneva un mappamondo: “… voleva far capire che il progresso tecnico si può fare se si guarda anche fuori del campo, se si hanno gli occhi sul mondo. Ma voleva dire, anche, che i lavoratori erano destinati al mondo, come il mondo è destinato ai lavoratori”.

Non a caso oggi quel trattore e quel mappamondo possono essere ammirati all’ingresso di Casa Cervi, simboli immortali dell’apertura mentale di una famiglia fuori del comune.

L’impegno politico
Il percorso dei Cervi portò diritto dalla stalla alla piazza; all’impegno sul lavoro si unì una forte vocazione alla lotta politica ed Aldo capì che al di fuori della falsa propaganda e delle censure del Regime bisognava tornare a far circolare le idee per diffondere la democrazia: ecco quindi la storia della biblioteca popolare messa in piedi dalla famiglia, che iniziò a diffondere testi socialisti e libertari apertamente in contrasto con le direttive fasciste.

“Per il socialismo i miei figli avevano una venerazione grande, perché ci vedevano la giustizia sociale e l’uomo emancipato. Ci vedevano i sogni fatti dai padri… il vangelo che diventa terra, ferro e leggi per la contentezza degli uomini”, scrisse Papà Cervi.

Mentre anche Gelindo finì più volte arrestato per il suo netto antifascismo, nel 1940 l’Italia precipitò nel baratro della guerra con le sue miserie e dolori, una molla in più per la lotta accanita dei Cervi, che si avvalsero della preziosa collaborazione dei Sarzi, una famiglia di teatranti ambulanti.

Il libro si arricchisce così di succosi aneddoti sull’attività antifascista, tanto rischiosa per quanto geniale e irriverente, fatta di propaganda clandestina, lotta agli ammassi, beni distribuiti agli operai per il sabotaggio della produzione industriale e azioni eclatanti, come il trancio del palo dell’alta tensione nella zona di Sant’Ilario.

Il 25 luglio 1943, giorno del crollo del fascismo, i Cervi festeggiarono in piazza a Campegine distribuendo pasta alla popolazione, ma le fine della guerra era ancora lontana e il racconto trova echi drammatici nella descrizione della repressione degli operai a Reggio Emilia: “Era il 28 luglio 1943, la gente ancora festeggiava, ma quei morti fecero capire che gli italiani avrebbero dovuto conquistare la pace col sangue”.

La lotta di liberazione dal nazi-fascismo
Venne infatti l’armistizio dell’otto settembre con l’occupazione tedesca e la nascita delle prime bande partigiane per la lotta di liberazione dal nazi-fascismo: il centro-nord della penisola si trasformò in teatro di battaglia.

I Cervi erano sette fratelli con distinte personalità; unica era però la loro coscienza politica, nata dagli ideali di libertà e democrazia connaturati alla loro indole, uno era come dire sette, sette era come dire uno.

Oramai era giunto il momento della lotta aperta per la cacciata del nemico. Casa Cervi si trasformò da subito in luogo di accoglienza per sbandati, disertori e prigionieri di guerra alleati, vestiti, sfamati e aiutati a raggiungere le prime bande o ripassare il fronte.

Parallelamente i sette fratelli iniziarono l’attività di raccolta armi con imprese coraggiose, mentre la lotta in montagna ebbe breve durata a causa delle difficoltà logistiche e delle incomprensioni con l’organizzazione comunista locale, che preferì alimentare l’azione in città dei GAP (Gruppi d’azione patriottica), piccoli nuclei coesi e controllati dal partito.

La cattura e la tragica fine
Tutto questo fino alla tragica notte del 25 novembre, quando i fascisti, sicuri di trovare i prigionieri per la spiata avuta, circondarono casa Cervi appiccando il fuoco e traendo in arresto i sette fratelli col papà Alcide, tra lo sgomento e le lacrime delle donne e dei bambini.

Ancora oggi, a più di 60 anni di distanza dai fatti, riesce difficile rimanere impassibili alla drammaticità di queste pagine, così struggenti e commoventi per quanto ricche di orgoglio e coerenza.
Trasferiti nel carcere dei Servi, i Cervi furono ripetutamente percossi e torturati, rifiutando perfino l’arruolamento nella Guardia Nazionale Repubblicana, in cambio della loro salvezza.

“Abbiamo dato asilo ai perseguitati, da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, abbiamo conservato i figli alle madri, gli uomini alle spose. Abbiamo predicato la giustizia contro i prepotenti fascisti e ladri, contro i ricchi carnivori di fatica e di sangue”, rispose orgogliosamente Alcide Cervi al prete che gli chiedeva le colpe commesse.

Intanto, fallito il piano di fuga, i fratelli furono trasferiti a Parma per il processo, mentre Alcide rimase in carcere fino alla rocambolesca fuga del 7 gennaio 1944, in seguito al bombardamento alleato.

Papà Cervi tornò alla vita di sempre con la speranza di poter riabbracciare i propri figli; la moglie Genoveffa gli tenne per più di un mese nascosta la verità, ossia la barbara fucilazione avvenuta il 28 dicembre 1943, per rappresaglia all’uccisione del segretario federale di Bagnolo in Piano.

“Voi ci uccidete, ma noi non morremo mai” urlò Gelindo di fronte al plotone d’esecuzione… profezia quanto mai vera, Papà Alcide resistette infatti al nuovo incendio fascista della casa, avvenuto il 10 ottobre 1944, ed alla morte per infarto della moglie Genoveffa un mese dopo.

“Avevo 4 mucche, e adesso sono 54 capi di bestiame, con la produzione del grano che è salita a 5 volte quella del ’35. Eravamo mezzadri, pieni di debiti, e adesso abbiamo ancora debiti da scontare per 30 anni, ma il fondo è dei nipoti e delle nuore (…) in più abbiamo dato sette vite alla Patria. Se c’è bisogno di dare ancora la vita, i Cervi sono pronti, e qualcuno pure sopravviverà, e rimetterà tutto in piedi, meglio di prima. Ecco perché non ci fermeranno più”.

Queste bellissime parole di vita e speranza chiudono un libro dal valore immortale.

 



 

 

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