N. 138 - Giugno 2019
(CLXIX)
sul caso Huawei
Vincitori
e
vinti
nella
guerra
dei
dazi
di
Gian
Marco
Boellisi
Negli
ultimi
mesi
si
è
assistito
a un
inasprimento
della
cosiddetta
“guerra
dei
dazi”
tra
Stati
Uniti
e
Cina,
conflitto
commerciale
che
i
due
stati
hanno
intrapreso
sull’import
di
merci
cinesi
su
suolo
statunitense
e
sul
relativo
aumento
dei
dazi
doganali
in
entrata.
I
botta
e
risposta
ormai
sono
all’ordine
del
giorno,
anche
se
l’ultimo
episodio
ha
avuto
una
particolare
risonanza
a
livello
globale.
È
stato
annunciato
infatti
da
Google,
congiuntamente
con
il
governo
statunitense,
il
bando
degli
aggiornamenti
software
verso
tutti
i
prodotti
rilasciati
da
Huawei,
il
colosso
della
telefonia
con
sede
in
Cina.
Questo
poiché
la
società
è da
tempo
sospettata
di
inserire
all’interno
dei
propri
dispositivi
tecnologici
svariate
“back
doors”,
ovvero
porte
di
accesso
segrete
che
il
governo
americano
ritiene
possano
essere
usate
dal
governo
cinese
per
spiare
gli
utenti
Huawei.
La
notizia
ha
creato
subito
sgomento,
sia
per
le
possibili
conseguenze
di
una
tale
presa
di
posizione
sia
per
le
decine
di
migliaia
di
utenti
Huawei
che
si
sono
ritrovati
con
la
prospettiva
di
avere
dei
dispositivi
mobili
non
più
supportati
dalla
casa
madre.
Nonostante
il
panico
iniziale,
le
acque
si
sono
calmate
più
presto
del
previsto.
Infatti
già
il
giorno
successivo
all’annuncio
del
bando
il
governo
statunitense
ha
notificato
il
rinvio
di
tale
divieto
di 3
mesi.
Molti
si
sono
chiesti
il
perché
di
un
tale
dietrofront
tanto
repentino
ed
improvviso.
Ovviamente
vi è
una
ragione,
la
quale
tuttavia
è
passata
inosservata
agli
occhi
dei
più.
Infatti
se
l’attacco
statunitense
nei
confronti
di
Pechino
è
stato
mediatico
e
molto
rumoroso,
la
ritorsione
cinese
è
stata
silenziosa
e
discreta,
ma
non
per
questo
meno
efficace.
Anzi,
potrebbe
aver
colpito
dritto
al
cuore
uno
dei
più
grandi
commerci
mondiali
scoprendo
conseguentemente
una
delle
più
grandi
debolezze
dell’attuale
sistema
internazionale.
Andiamo
tuttavia
con
ordine.
Il
divieto
statunitense
nei
confronti
di
Huawei
si
colloca
in
data
20
maggio.
A
seguito
di
questa
azione
fortemente
destabilizzante,
il
presidente
cinese
Xi
Jinping
ha
mostrato
in
risposta
un
unico
segnale,
il
quale
potrebbe
essere
sintetizzato
con
la
perifrasi
“chi
doveva
capire
ha
capito”.
Infatti
prima
di
iniziare
il
suo
iter
di
visite
diplomatiche
in
giro
per
il
mondo
il
presidente
Xi
si è
fermato
per
una
visita
“a
sorpresa”
nella
provincia
meridionale
dello
Jiangxi
presso
la
sede
della
Jl
Mag
Rare
Earth
Co.
Ltd,
azienda
mineraria
leader
nel
suo
settore.
Apparentemente
non
sembrerebbe
esserci
alcun
motivo
particolare
nella
visita,
se
non
la
classica
attenzione
statale
verso
le
compagnie
asset
del
paese.
Tuttavia
sono
due
i
segnali
che
ci
confermano
che
Pechino
non
compie
nulla
per
caso.
Il
primo
sono
le
attività
della
compagnia
in
questione.
La
Jl
Mag
Rare
Earth
Co.
Essa
si
occupa
infatti
di
estrazione
delle
cosiddette
Terre
Rare,
ovvero
quei
17
elementi
appartenenti
alla
tavola
periodica
rinomati
per
le
loro
uniche
proprietà
chimiche
ed
elettromagnetiche.
Nonostante
ciò
ci
possa
sembrare
un
discorso
lontano
dal
nostro
quotidiano,
non
vi è
nulla
di
più
diverso
dalla
verità.
Qualsiasi
elemento
tecnologico
di
nostro
uso
comune,
quale
può
essere
uno
schermo
Tv,
un
hard
disk
di
un
PC,
i
circuiti
interni
di
uno
smartphone,
sono
basati
sull’utilizzo
di
questi
minerali.
Ma
non
solo:
infatti
sia
la
cosiddetta
tecnologia
verde,
ovvero
le
auto
elettriche
ed i
pannelli
solari,
e la
tecnologia
militare,
quali
magneti,
superconduttori,
turbine,
sistemi
di
guida
di
missili
da
crociera
o
anche
di
quelli
nucleari,
sono
tutte
tecnologie
interamente
basate
sull’utilizzo
di
questi
elementi.
Senza
il
loro
utilizzo
probabilmente
l’intera
civiltà
globale
tornerebbe
indietro
di
circa
150
anni
dal
giorno
alla
notte.
Quindi
chi
detiene
l’estrazione
di
questi
minerali
detiene
di
fatto
nelle
proprie
mani
il
destino
della
società
come
attualmente
la
concepiamo.
E in
questo
la
Cina
è
una
grande
protagonista,
ma
analizzeremo
ciò
più
avanti.
Il
secondo
motivo
per
cui
si
può
dedurre
che
la
visita
di
Xi
non
sia
stata
causale
è
dovuta
all’entourage
al
suo
seguito.
Infatti
il
presidente
cinese
si è
fatto
accompagnare
da
Liu
He,
vice
premier
nonché
capo
negoziatore
con
gli
Stati
Uniti
in
materia
politica
ed
economica.
Questi
due
segnali
insieme
hanno
mandato
un
messaggio
chiaro
e
netto
a
Washington,
la
quale
ha
fatto
dietro
front
sulla
questione
Huawei
nell’arco
di
24
ore
senza
neanche
pensarci
due
volte.
Al
momento
il
bando
è
stato
rimandato
di 3
mesi,
ma
non
è da
escludersi
che
la
questione
possa
avere
tempi
più
lunghi
se
non
addirittura
annullarsi
del
tutto.
È
interessante
capire
tuttavia
perché
la
Cina
ha
un
tale
potere
sugli
Stati
Uniti
sulla
questione
Terre
Rare
e
perché
Washington
abbia
ceduto
così
presto
a
questo
tipo
di
ricatto.
Partiamo
dai
meri
fatti:
la
Cina,
allo
stato
attuale,
possiede
all’interno
dei
propri
confini
nazionali
circa
l’80%
delle
miniere
mondiali
di
elementi
di
Terre
Rare,
come
anche
confermato
da
una
nota
del
Dipartimento
di
Stato
americano.
Ciò,
per
la
legge
del
libero
mercato,
comporta
che
Pechino
ha
il
monopolio
assoluto
sull’offerta
di
tali
elementi
e
sul
prezzo
relativo
da
introdurre
alla
vendita.
Gli
Stati
Uniti
sono
dipendenti
per
circa
l’80%
del
loro
fabbisogno
nazionale
dalle
Terre
Rare
di
Pechino
e,
nonostante
la
Casa
Bianca
abbia
in
più
occasioni
nella
storia
cercato
di
diversificare
le
proprie
fonti
di
approvvigionamento,
ha
sempre
fallito
nel
proprio
intento.
Le
restanti
miniere
infatti
si
trovano
per
lo
più
in
Africa,
le
quali
sono
già
sotto
controllo
indiretto
del
governo
cinese,
e
sparse
per
l’Asia,
anche
qui
sotto
il
controllo
politico
diretto
ed
indiretto
di
Pechino
o di
Mosca.
Le
restanti
fonti
in
giro
per
il
mondo
sono
troppo
esigue
per
cercare
di
soddisfare
anche
lontanamente
il
fabbisogno
mondiale
di
queste
importanti
risorse.
Per
comprendere
il
potere
della
Cina
sulla
questione,
basti
pensare
che
il
97%
delle
miniere
globali
di
litio
e
cobalto
sono
all’interno
dei
confini
cinesi.
Inoltre
fa
riflettere
il
fatto
che
all’interno
dei
dazi
imposti
su
200
miliardi
di
dollari
di
merci
cinesi
in
entrata
nel
mercato
statunitense
le
Terre
Rare
non
siano
neanche
state
sfiorate.
Quindi
qualora
Pechino
voglia
aumentare
i
prezzi
di
tali
risorse
o
ridurne
l’export
verso
alcuni
stati
di
sua
scelta,
nessuno
può
impedirglielo.
È
proprio
questo
il
messaggio
inviato
a
Washington
il
giorno
successivo
al
bando
Huawei
e
pare
che
sia
stato
recepito
con
la
dovuta
serietà.
Nonostante
le
difficoltà,
gli
Stati
Uniti
stanno
cercando
di
muoversi
da
anni
per
cercare
questa
loro
dipendenza
sistemica.
Basti
pensare
che
le
esitazioni
a un
ritiro
completo
dall’Afghanistan
sono
dovute
per
gran
parte
al
commercio
di
Terre
Rare.
Come
si
può
leggere
da
uno
studio
dell’Usgs
(United
States
Geological
Survey),
questo
paese
asiatico
noto
ormai
come
“il
cimitero
degli
imperi”
detiene
Terre
Rare
per
un
valore
di
circa
mille
miliardi
di
dollari.
Infatti
si
stima
che
vi
siano
1,4
milioni
di
tonnellate
di
Terre
Rare
come
lantanio,
neodimio
e
cerio.
Un
vero
tesoro
nascosto
tra
le
montagne
afgane,
peccato
solo
che
gli
Stati
Uniti
non
siano
nella
posizione
di
poter
pretendere
alcunché
in
questo
paese
visti
i
non
troppo
lontani
trascorsi
bellici.
A
inasprire
ulteriormente
la
tensione
tra
Cina
e
Stati
Uniti
vi è
stata
la
notizia
del
12
giugno
scorso
secondo
la
quale
Pechino
abbia
iniziato
effettivamente
a
tagliare
l’export
di
Terre
Rare
verso
gli
U.S.A.,
tutto
ancora
una
volta
senza
alcun
fragore
mediatico
da
parte
del
dragone.
Le
esportazioni
infatti
sarebbero
passate
da
4329
tonnellate
mensili
a
3564,
diminuendo
di
circa
il
18%
su
base
mensile
e
seguendo
già
una
tendenza
annua
negativa
del
7,2%.
Pechino
ha
giustificato
questa
diminuzione
come
la
diretta
conseguenza
di
politiche
ambientali
statali
atte
alla
protezione
dell’ambiente
e
delle
risorse
interne.
È
indubbiamente
vero
che
l’estrazione
di
suddetti
minerali
abbia
un
impatto
ambientale
importante,
tuttavia
questa
spiegazione
sa
molto
di
espediente
politico.
Dall’altro
lato
invece
gli
Stati
Uniti
hanno
annunciato
di
essere
pronti
ad
allearsi
con
Canada
e
Australia
per
arginare
il
monopolio
cinese
ricercando
nuove
fonti
di
approvvigionamento
ed
in
questo
modo
di
consentire
all’America,
e
quindi
all’Occidente
tutto,
di
avere
libero
accesso
a
queste
risorse.
La
strategia
prevede
che
gli
Stati
Uniti
condividano
il
loro
know
how
in
fatto
di
estrazione
e
sfruttamento
minerario
con
i
propri
alleati
per
riuscire
quindi
congiuntamente
a
trovare
nuove
miniere.
Nonostante
il
piano
di
ricerca
e
relativo
sfruttamento
sia
quanto
mai
ambizioso,
le
difficoltà
abbondano
già
prima
di
iniziare
l’impresa.
Infatti
nonostante
svariati
paesi
nel
mondo
abbiano
miniere
di
Terre
Rare,
queste
non
sono
neanche
lontanamente
sufficienti
a
soddisfare
la
domanda
occidentale.
L’unica
opzione
sarebbe
l’Africa,
ma
qui
Pechino
ha
già
esteso
la
propria
longa
manus
attraverso
le
proprie
società
minerarie
già
da
tempo.
Il
piano
americano
è
sensato
e
forse
potrà
anche
portare
a
dei
risultati
concreti,
ma
solamente
nel
medio
o
lungo
termine,
sicuramente
non
nell’immediato.
E
considerando
i
progressivi
tagli
delle
importazioni
delle
Terre
Rare
cinesi,
è
solo
questione
di
tempo
prima
che
si
inizino
ad
avere
interruzioni
di
produzione
di
alcuni
beni
sia
civili
che
militari
statunitensi.
Inutile
sottolineare
quanto
gli
Stati
Uniti
vedrebbero
intaccato
il
proprio
potenziale
tecnologico
in
uno
scenario
simile.
Proprio
la
Silicon
Valley,
punta
di
diamante
della
tecnologia
made
in
U.S.A.,
ha
espresso
grande
preoccupazione
in
merito
a
questa
limitazione
di
materie
prime,
essendo
esse
fonte
primaria
del
loro
sviluppo.
Le
aziende
informatiche
hanno
immediatamente
avvertito
il
pericolo
ed
hanno
cercato
di
sconsigliare
alla
Casa
Bianca
un
testa
a
testa
con
Pechino
in
merito
alla
questione.
Tuttavia
l’affare
Huawei
ha
messo
alla
luce
una
verità
a
lungo
nascosta.
Il
fatto
che
Google
abbia
annunciato
questo
divieto
nei
confronti
di
Huawei
ha
dimostrato
come,
alla
fine
della
giostra,
anche
gli
asset
internazionali
dell’informazione,
da
sempre
dichiaratisi
neutrali
nelle
diatribe
tra
stati,
si
possano
schierare
da
una
o
dall’altra
parte
qualora
richiesto
dalla
propria
nazione.
In
poche
parole,
si è
rotto
quel
sottilissimo
eppure
lampante
velo
di
ipocrisia
che
da
sempre
ha
distinto
internet
come
uno
strumento
neutrale
al
servizio
di
tutti.
Basti
ricordare
che
le
aziende
tecnologiche
statunitensi
devono
la
maggior
parte
dei
loro
profitti
allo
sviluppo
di
tecnologia
per
il
settore
della
difesa
e
dell’intelligence,
quindi
tutto
sommato
non
vi è
nulla
di
nuovo
sotto
il
sole.
Visto
ciò,
negli
ultimi
mesi
si
sta
denotando
una
tendenza
generale
di
alcuni
stati
verso
una
sorta
di
cosiddetto
“sovranismo
digitale”,
rendendo
le
rispettive
reti
internet
esclusivamente
di
dominio
nazionale
senza
dislocare
server
all’estero
e
senza
bisogno
di
interconnettersi
con
il
resto
del
globo.
Ciò
soprattutto
a
causa
del
fatto
che
la
quasi
interezza
di
internet
è
gestita
da
server
e
domini
che
hanno
sede
negli
Stati
Uniti.
Un
dato
indicativo
direbbero
alcuni.
Gli
esempi
principali
di
queste
nuove
politiche
sono
due.
Quello
principale
è
costituito
dalla
Russia,
la
quale
ha
iniziato
l’iter
per
la
creazione
di
RuNet,
ovvero
una
piattaforma
internet
basata
solo
su
domini
su
territorio
nazionale
russo.
Il
secondo
esempio
invece
è
dato
dalla
Francia,
la
quale
sta
progressivamente
passando
dal
motore
di
ricerca
di
Google
a
quello
indipendente
“Qwant”.
Ciò
al
solo
fine
di
ridurre
la
dispersione
dei
propri
dati
al
di
là
dell’Oceano
Atlantico.
Come
si
può
vedere
la
questione
non
riguarda
solo
una
parte
del
mondo,
ma è
un
fenomeno
di
più
ampia
portata
di
cui
sicuramente
sentiremo
ancora
parlare
a
lungo.
Tuttavia
alcuni
lo
considerano
già
come
il
segno
della
fine
della
globalizzazione
in
senso
stretto,
essendo
in
questo
modo
sezionato
e
nazionalizzato
l’unico
strumento
che
da
sempre
ha
rappresentato
la
libertà
di
navigazione
e
comunicazione
al
di
là
del
confine
degli
stati:
internet.
Come
ultimo
elemento
di
questa
analisi
è
interessante
approfondire
anche
di
come
la
Cina
potrebbe
usare
(o
meglio
non
usare)
un’altra
arma
nei
confronti
di
Washington
sia
per
la
questione
Huawei
che
per
quella
dei
dazi
in
generale.
Allo
stato
attuale
la
Cina
infatti
detiene
circa
1.120
miliardi
di
dollari,
ovvero
circa
1.000
miliardi
di
euro,
di
debito
pubblico
americano,
comprato
negli
anni
in
diverse
tranches.
Pechino
potrebbe
vendere
quindi
i
titoli
di
stato
in
suo
possesso,
così
da
colpire
duramente
l’economia
americana.
La
verità
è
che
sarebbe
decisamente
una
pessima
mossa.
In
primis
perché
il
dragone
non
avrebbe
al
momento
attuale
alcuna
valida
alternativa
in
cui
investire
la
liquidità
ottenuta,
rimanendo
di
fatto
con
un
pugno
di
mosche
in
mano.
La
seconda
ragione
è
che
il
crollo
del
dollaro
che
avverrebbe
a
seguito
di
una
tale
scelta
sarebbe
un
suicidio
economico
anche
per
Pechino
stessa.
Infatti
i
commerci
cinesi
attualmente
avvengono
nella
maggior
parte
del
mondo
ancora
in
dollari.
La
perdita
nel
traffico
di
merci
scambiate,
e
quindi
negli
introiti,
sarebbe
incalcolabile,
quindi
il
presidente
Xi
si
guarda
bene
dal
dare
disposizioni
affinché
venga
giocata
questa
carta.
I
buoni
vecchi
verdoni
hanno
ancora
il
loro
valore
insomma.
In
conclusione,
la
faccenda
Huawei
ha
scoperchiato
diverse
fragilità
dell’interdipendenza
Cina-Stati
Uniti
ed
in
generale
dell’attuale
sistema
internazionale.
Nonostante
Pechino
abbia
subito
un
duro
colpo
d’immagine
con
il
bando
degli
aggiornamenti
di
Google,
il
presidente
Xi
ha
risposto
a
tono
e
con
decisione.
Nonostante
il
tema
delle
Terre
Rare
sia
di
minor
impatto
mediatico
e
“mainstream”
rispetto
all’annuncio
fatto
dalla
Casa
Bianca
contro
la
casa
di
telefonia
cinese,
attualmente
è
l’arma
più
potente
a
disposizione
della
Repubblica
Popolare
Cinese
in
questo
attuale
momento
storico,
non
solo
contro
gli
Stati
Uniti
ma
contro
il
mondo
intero.
Ed è
stata
sfoggiata
con
il
classico
stile
cinese
di
sobrietà
e
calma,
ma
cionondimeno
letale
in
egual
misura.
Tenendo
conto
che
la
domanda
di
Terre
Rare
è
destinata
a
aumentare
secondo
alcune
previsioni
del
1000%
entro
il
2050,
si
può
tranquillamente
affermare
che
al
momento
non
vi è
alcuna
soluzione
concreta
a un
possibile
ricatto
da
parte
di
Pechino.
Ad
aggravare
ulteriormente
la
situazione,
le
dinamiche
che
stanno
prendendo
piede
inerenti
alla
suddivisione
di
internet
nel
mondo
non
fanno
presagire
nulla
di
buono
neanche
su
questo
fronte.
Considerando
però
che,
come
già
menzionato
in
precedenza,
la
maggior
parte
dei
server
a
servizio
di
internet
si
trovi
negli
Stati
Uniti,
forse
il
problema
di
sicurezza
sulla
rete
non
è
solo
sul
5G
cinese,
come
più
volte
rimarcato
dalla
Casa
Bianca,
ma
forse,
e
solo
forse,
ha
una
radice
ben
più
profonda
e
ben
più
lontana
di
quanto
siamo
abituati
a
pensare.
Ciò
a
dimostrazione
del
fatto
che
nel
grande
gioco
che
è la
politica
internazionale
non
vi
sono
giocatori
buoni
o
giocatori
cattivi,
ma
solo
giocatori
disposti
a
tutto
pur
di
vincere
la
partita.