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N. 121 - Gennaio 2018 (CLII)

This show must not go on

Hollywood bussa ancora alla Casa bianca

di Gian Marco Boellisi

 

In America, ogni occasione è buona per fare spettacolo. Tuttavia anche nella patria dello show business alcune volte il palcoscenico viene usato in maniera inusuale, esulando da quello che è il suo contesto di partenza.

 

Ed è proprio quello che è accaduto qualche settimana fa alla premiazione annuale dei Golden Globes, una delle manifestazioni più importanti dell’industria cinematografica statunitense.

 

In occasione dell’accettazione del premio Cecil DeMille, la rinomata conduttrice di talk show Oprah Winfrey ha tenuto un discorso di 9 minuti che ha suscitato gran commozione tra il pubblico in sala e a casa. Tuttavia non è sfuggito a nessuno anche il forte connotato politico delle parole pronunciate dalla Winfrey, tanto che si è arrivati a pensare che questo possa essere il primo passo verso la candidatura alle elezioni presidenziali del 2020.

 

Ciò non dovrebbe sorprendere, essendo la storia politica americana costellata da outsider che sono entrati spesso e volentieri nel complesso sistema burocratico a stelle e strisce. Tuttavia, osservando la storia da più vicino, forse un altro membro del mondo dello spettacolo non è propriamente ciò di cui gli Stati Uniti hanno bisogno ora.

 

Il mondo di Hollywood non è nuovo alla politica americana. Basti pensare agli anni ’80, di cui uno dei simboli più popolari e forse anche più contradditori fu Ronald Reagan. Prima governatore della California e in seguito eletto 40o presidente degli Stati Uniti, Reagan si dimostrò un repubblicano ferreo da tutti i punti di vista. A lui si attribuisce infatti uno dei periodi più tesi e rigidi dell’intera Guerra Fredda: dall’inasprimento dei rapporti con l’Unione Sovietica all’invasione di Grenada, dalle operazioni ombra della C.I.A. in tutto il Sud-America alla cosiddetta “Reaganomics”.

 

Prima di lanciarsi nel mondo della politica, Reagan aveva intrapreso la carriera cinematografica sin dall’età di 26 anni. Nonostante la sua ampia presenza nei film americani (dal 1937 al 1939 appare in ben 20 pellicole), non riesce a sfondare e viene relegato prevalentemente a produzioni di serie B. Non un grande attore quindi e, a distanza di tanti anni, si può affermare neanche un politico capace.

 

Un altro caso di unione tra Hollywood e Washington avvenne nelle elezioni a governatore nel 2003, quando un certo Arnold Schwarzenegger si candidò per il partito repubblicano. Apertamente osteggiato da molti “esperti” della politica per la sua poca familiarità con la cosa pubblica, il celebre interprete di Terminator non si diede per vinto e affrontò i seggi, ottenendo un 48,6% delle preferenze.

 

A differenza del suo collega repubblicano Reagan, Arnie si è dimostrato ben più efficiente. Approvando provvedimenti e difendendo posizioni di natura ben più progressista rispetto ai canoni del suo partito, Schwarzenegger è riuscito a conquistare l’elettorato Californiano anche per una seconda volta nel 2006.

 

Tra i suoi provvedimenti durante gli anni da governatore vanno ricordate le varie direttive a tutela dell’ambiente, limitando l’emissione di gas serra e l’utilizzo di fonti rinnovabili, l’aumento delle norme per il controllo delle armi ed il finanziamento della ricerca sulle cellule staminali.

 

Nonostante Arnie abbia comunque disatteso alcune importanti promesse fatte agli elettori, prima fra tutte sradicare gli interessi di lobby e corporazioni su territorio californiano, risulta comunque uno dei governatori maggiormente ben voluti nella storia della California.

 

Per tornare a tempi più recenti, tra gli outsider entrati a far parte del circuito politico statunitense non si può non nominare l’imprenditore nonché presidente in carica Donald Trump. L’operato degli ultimi mesi parla molto più di mille introduzioni per un personaggio del genere.

 

Basti solo menzionare che tutti gli importanti obiettivi raggiunti dalla precedente amministrazione, quali l’assistenza sanitaria estesa e una maggiore tutela dell’ambiente, sono attualmente in forse a causa delle posizioni assunte dal presidente. Unendo questo a un’oratoria spesso gretta ed irrispettosa dei propri interlocutori, si sta delineando sempre più quella che viene chiamata “la politica del bottone più grosso”.

 

Ed è proprio all’attuale presidente in carica che Oprah stata pensando mentre faceva il suo discorso. Per i democratici sarebbe un gran candidato: donna, afroamericana, nota in tutte le case d’America, Oprah rappresenta tutti gli ideali e le speranze da contrapporre a Trump.

 

Più che un confronto elettorale si prospetta un duello a suon di slogan, apparizioni tv e una competizione all’evento pubblico più grande e più twittato. Tutto, fuorché contenuti. Ed è di contenuti che la politica americana ha disperatamente bisogno.

 

Nonostante la facciata che i politici americani hanno sempre mantenuto nel passato verso i propri elettori, hanno sempre dimostrato di avere una preparazione, un background dal quale attingere e utilizzare nel loro lavoro per la cosa pubblica.

 

Ciò non vorrebbe dire tornare a vecchi modelli di politica, perché al giorno d’oggi sarebbero più che inadeguati, ma usarli come base solida da cui partire per affrontare le nuove sfide con occhi nuovi.

 

Ed è proprio questo che un duello Trump-Winfrey o addirittura Trump-Johnson, riferito a Dwayne Johnson, alias the Rock, il quale ha anche dichiarato di star pensando a concorrere per la Casa Bianca, non riuscirebbe mai a dare.

 

Gli americani hanno bisogno di gente preparata, volenterosa di portare un cambiamento vero al proprio sistema politico e non di outsider che sfruttano la loro popolarità o la loro influenza economica per occupare un seggio di cui non comprendono neanche l’importanza. Per dirla in una maniera più sintetica, sono necessarie res, non verba.



 

 

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