N. 64 - Aprile 2013
(XCV)
l'Hitler di Joachim Fest
1973-2013: il capolavoro compie quarant'anni
di Paolo Amighetti
Sul
conto
di
Adolf
Hitler
si è
scritto
e si
seguita
a
scrivere
molto.
I
primi
a
farne
menzione
furono
i
giornali
tedeschi
all’indomani
della
Grande
guerra:
quando
ancora
occupava
i
trafiletti
dei
fogli
bavaresi,
Hitler
vi
era
descritto
come
una
macchietta,
un
caporale
in
congedo
con
il
pallino
della
violenza
e
l’estro
del
demagogo.
Un
pericolo
pubblico
del
quale,
tutto
sommato,
non
ci
si
doveva
preoccupare
poi
tanto.
Negli
anni
della
sua
“resistibile
ascesa”,
il
Völkischer
Beobachter
(organo
ufficiale
del
Partito
nazionalsocialista,
N.d.A.)
prese
a
dipingerlo
come
l’uomo
della
Provvidenza,
appioppandogli
il
titolo
di
Führer
e
l’appellativo
di
Redentore
della
Germania;
ma
altre
testate,
come
il
Münchener
Post,
si
domandavano
se
nella
forma
del
naso
del
“Redentore”
non
si
celassero
le
sue
origini
ebraiche,
e se
nelle
sue
vene
non
scorresse
“sangue
mongolo”.
Il
trionfo
del
NSDAP
mise
a
tacere
la
stampa
di
opposizione
in
tutta
la
Germania,
e
per
dodici
anni
di
Hitler
non
si
scrissero
che
elaborate
agiografie
condite
di
fanatismo
e
piaggeria.
Durante
la
seconda
guerra
mondiale,
al
personaggio
fu
sottratto
ogni
tratto
umano:
i
media
angloamericani
e
sovietici
ne
restituirono
un’immagine
demoniaca,
il
Propagandaministerium
(Ministero
della
propaganda,
n.d.A.)
di
Goebbels
ne
fece
un
semidio
illuminato
destinato
all’eternità.
Quando,
suicidandosi,
Hitler
abbandonò
la
cronaca
per
entrare
nella
storia,
la
disciplina
storiografica
cominciò
a
dare
i
suoi
giudizi
su
di
lui.
Se
per
Hugh
Trevor-Roper
(1914-2003)
fu
un
capopopolo
sincero
e un
demagogo
ispirato
dalle
più
salde
convinzioni
personali,
secondo
Alan
Bullock
(1914-2004)
non
fu
altro
che
un
saltimbanco,
un
uomo
privo
di
scrupoli
ma
pieno
di
ambizione
e
intuito.
Idealista
o
opportunista?
Lo
scontro
infiammò
i
due
studiosi
negli
anni
Cinquanta
e
Sessanta,
e
ancora
oggi
il
dibattito
divide
gli
esperti.
Nel
1973,
nel
bel
mezzo
di
tale
e
simili
altre
controversie
accademiche,
uscì
“Hitler.
Una
biografia”
di
Joachim
Fest
(1926-2006).
Rileggerlo
oggi
significa
prendere
in
mano
un
vero
classico
della
storiografia.
Un
volume
ponderoso
che
coniuga
l’ambizione
al
rigore:
l’intento
di
narrare
un’esistenza
piena
di
contraddizioni
e
colpi
di
scena
e lo
scrupolo
di
farlo
avvalendosi
di
una
bibliografia
sterminata,
comprendente
documenti
ufficiali
e
innumerevoli
opere
monografiche
su
Hitler,
la
guerra,
i
fascismi.
Ciò
che
Fest
desidera
comprendere
è il
lato
psicologico
del
nazionalsocialismo:
come
il
suo
ideatore
lo
sviluppò
(quanto
organicamente?)
e
come
le
masse
lo
percepirono
e lo
fecero
proprio,
fino
al
punto
di
consegnarvisi
o
arrendervisi.
L’autore
perciò
ripercorre
minuziosamente
la
vita
del
dittatore,
ritraendo
via
via
un
bambino
introverso,
un
ragazzo
in
lite
con
il
padre,
un
giovane
bohémien,
un
venticinquenne
spiantato
e
deluso
che
si
fa
soldato,
un
caporale
sul
fronte
occidentale,
un
reietto,
un
demagogo,
un
politico
raffinato
e
finalmente
il
Führer
della
Germania,
poi
tiranno
dell’Europa
intera.
Per
chiudere
riassumendo
con
piglio
quasi
cronachistico
il
declino
rovinoso
(e
completo:
politico,
psico-fisico,
militare)
di
un
uomo
la
cui
fine
ha
trascinato
nel
suo
crollo
mezzo
mondo.
In
più
di
novecento
pagine
emergono
così
qualità
e
difetti,
virtù
e
vizi
di
un
personaggio
che
pazzo
non
era,
ma
le
cui
doti
convivevano
con
un
carattere
infantile,
a
tratti
volubile,
a
tratti
indiscutibilmente
feroce.
Benché
nella
sua
vita
abbia
imboccato
le
strade
più
disparate,
rileva
Fest,
nel
suo
intimo
Hitler
rimase
sempre
l’adolescente
che
si
era
tuffato
nel
mondo
di
fine
Ottocento:
“Hitler
era
una
natura
profondissimamente
arretrata,
attaccato
alle
immagini,
alle
norme,
agli
impulsi
soprattutto
del
XIX
secolo
[...].
Non
si
sentiva
affatto
sedotto
dalla
storia,
ma
lo
era
unicamente
dalle
proprie
esperienze
formative,
dai
tremiti
di
felicità
e di
angoscia
della
pubertà”.
La
crudezza
a
cui,
già
cancelliere,
ricorreva
nelle
conversazioni
intime
vicino
al
camino
dimostra
come
il
suo
vocabolario
più
naturale
fosse
rimasto
quello
del
giovane
accattone;
il
suo
ossessivo
odio
per
gli
ebrei,
allo
stesso
modo,
rimase
sempre
fossilizzato
all’immagine
dei
ricordi
della
gioventù,
alle
“figure
in
caffettano”
a
cui
accenna
in “Mein
Kampf”.
Ma
l’inossidabile
cristallizzazione
hitleriana,
che
lo
legava
fortemente
al
diciannovesimo
secolo
che
l’aveva
formato,
non
gli
impedì
di
trascinare
la
Germania
nel
ventesimo:
travolgendo
nel
corso
della
sua
dittatura
le
spoglie
dell’Impero
tedesco,
le
sue
tradizioni
e
nello
specifico
l’influenza
del
ceto
militare
aristocratico
dei
generali
prussiani.
E,
ciò
che
è
più
significativo,
adeguando
le
esigenze
della
politica
a
quelle
della
società
di
massa
che
si
stava
facendo
largo
tra
Otto
e
Novecento.
Agli
anni
centrali
della
sua
vita,
allietati
da
travolgenti
successi
ottenuti
grazie
a
uno
spiccato
senso
della
realtà
e
dell’equilibrio
delle
forze
in
campo,
oltre
che
al
suo
intuito
vincente,
si
contrapposero
una
gioventù
e un
rapido
invecchiamento
segnati
da
un
cocciuto
allontanamento
dalla
realtà.
Capitò
così
che
lo
stanco
prigioniero
del
bunker
si
dedicasse
anima
e
corpo
ai
modelli
degli
edifici
che
sperava
venissero
realizzati
nella
capitale
del
Reich,
esattamente
come
in
gioventù
aveva
passato
le
notti
a
schizzare
progetti
per
abbellire
Linz
o
Vienna;
o
che
si
ostinasse
a
credere
in
un
ribaltamento
di
fronte
e
nella
vittoria
finale
mentre
già
l’artiglieria
russa
distruggeva
Berlino,
come
quando,
confinato
ventenne
in
un
ospizio
per
diseredati,
sognava
di
risiedere
in
ville
magnifiche.
Fest
evidenzia
l’ambivalenza
del
carattere
di
Hitler
mettendo
inoltre
a
confronto
il
suo
rapporto
con
la
massa
e i
suoi
legami
privati:
l’idolo
incontrastato
delle
folle
tedesche,
da
queste
osannato
e
inebriato,
a
tavola
o in
poltrona
era
cupo
e
taciturno,
o
loquace
fino
alla
logorrea.
A
pranzo,
o i
commensali
chiacchieravano
tra
di
loro
e il
Führer
si
chiudeva
in
un
ostinato
mutismo,
o
questi
attaccava
con
lunghissimi
monologhi
e
tutti
gli
altri
dovevano
ascoltare.
Insomma,
con
Hitler
non
si
poteva
fare
conversazione.
Come
già
accennato,
con
il
suo
lavoro
Fest
sembra
deciso,
tra
le
altre
cose,
a
smentire
il
fortunato
luogo
comune
che
pretende
che
Hitler
fosse
mentalmente
instabile;
coloro
che
seguitano
a
ripeterlo,
sostiene,
sono
incapaci
di
coniugare
la
morale
chiaramente
corrotta
alle
capacità
e
alle
doti
che
il
dittatore
sfoggiò
in
varie
occasioni
prima
e
dopo
lo
scoppio
del
conflitto.
Senza
contare,
poi,
che
per
molti
studiosi
offrire
a
Hitler
l’alibi
della
malattia
lo
solleva
da
molte
responsabilità,
alle
quali
è
invece
necessario
inchiodarlo.
Tanto
più
che
secondo
la
ricostruzione
di
Fest
i
famosi
accessi
di
furia,
almeno
negli
anni
d’oro
tra
il
1933
e il
1940,
lungi
dal
tradire
la
sua
instabilità,
fossero
abilmente
inscenati
o
perlomeno
pilotati
dall’intelligenza
tattica
del
Führer:
“Anche
i
celebri
scoppi
di
collera
di
Hitler
erano
non
di
rado,
con
ogni
evidenza,
manifestazioni
volontarie
accuratamente
dosate.
Uno
dei
più
vecchi
Gauleiter
[funzionari
del
Partito
nazista
deputati
al
controllo
dei
Länder,
n.d.A.]
ha
lasciato
una
descrizione
di
Hitler
in
preda
a un
accesso
di
collera
tale
che
la
bava
gli
colava
dagli
angoli
della
bocca
lungo
il
mento,
sì
da
farlo
sembrare
del
tutto
fuori
di
sé
dall’ira;
e in
pari
tempo
le
argomentazioni
conseguenti,
che
continuava
a
esporre
con
lucida
perfetta
continuità,
smentivano
in
pieno
l’immagine
esteriore”.
Fest
dedica
poco
spazio
al
culmine
della
supposta
follia
hitleriana,
alla
“soluzione
finale
del
problema
ebraico”:
lo
si
può
giustificare
ammettendo
che
una
trattazione
esauriente
di
tale
questione
avrebbe
fornito
materiale
sufficiente
a
riempire
un
secondo
volume,
o
ancor
meglio
ricordando
come,
paradossalmente,
l’élite
nazionalsocialista
che
deliberò
lo
sterminio
ne
rimase
pudicamente
alla
larga,
quasi
volesse
“lavarsene
le
mani”
una
volta
ordinatolo:
sembra
che
Hitler
non
si
sia
mai
recato
presso
alcun
Lager,
e
che
Himmler,
alla
vista
di
una
fucilazione
di
massa,
si
sia
sentito
male.
La
biografia
di
Fest
si
sofferma
anche
su
queste
debolezze:
su
come
Hitler,
benché
facesse
la
faccia
cattiva,
fosse
molto
più
emotivo
di
un
Goering
o di
un
Heydrich,
e
fosse
continuamente
sottoposto
a
stress
tali
da
fiaccarne
le
energie;
o su
come
a
una
ricercata
freddezza
nelle
decisioni
facesse
da
contraltare
una
certa
debolezza
di
nervi
e
una
costante
inquietudine.
Alcuni
critici
hanno
individuato
nel
lavoro
di
Fest
un
tentativo
malsano
di
attribuire
alla
figura
di
Hitler
una
forza
tale
da
segnare,
da
sola,
un’epoca:
trascurando
i
fattori
che
hanno
avuto
un’influenza
determinante
sul
suo
successo,
le
cui
radici
erano
lontane
dalla
sua
personalità
o
dal
carattere
o
dalle
scelte
sue
proprie.
Sono
giudizi
taglienti.
Ma
il
libro
di
Fest
si
intitola
“Hitler:
una
biografia”,
e
non
può
che
incentrarsi
sul
peso
specifico
del
personaggio
sulla
scena
del
suo
tempo.
A
ogni
buon
conto,
l’autore
è
limpido
nel
riconoscere
ai
fattori
estranei
al
suo
protagonista
un’importanza
decisiva:
“Soltanto
una
coscienza
che
abbia
volutamente
distolto
lo
sguardo
dai
mali
del
suo
tempo,
potrà
definire
Hitler
il
figlio
di
un’unica
nazione,
rifiutandosi
di
riconoscere
che
in
lui
ha
trovato
il
proprio
culmine
una
possente
tendenza
dell’epoca,
quella
sotto
il
cui
segno
si è
svolta
tutta
intera
la
prima
metà
del
secolo.
[...]
Per
avviarla
[l’Europa,
N.d.A]
verso
l’abisso,
occorreva
l’incomparabile
radicalismo
di
Hitler,
le
sue
visioni,
la
febbrile
certezza
della
sua
missione
e,
sulla
scia
di
tutto
questo,
un’esplosione
di
energie
senza
precedenti.
D’altro
canto,
è
innegabile
che,
a
ben
guardare,
Hitler
non
avrebbe
potuto
distruggere
l’Europa
senza
la
cooperazione
dell’Europa
stessa”.
Ecco,
forse,
il
segreto
del
successo
di
Fest:
gli
è
bastato
raccontare
una
vita
per
descrivere,
parallelamente,
un
mondo
e
un’epoca.