[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

177 / SETTEMBRE 2022 (CCVIII)


attualità

IL GORBACIOV DI HERZOG
ANALISI DI UN TESTAMENTO POLITICO E MORALE

di Alessio Guglielmini

 

«Che cosa ci sarà scritto sulla sua lapide?». Michail Gorbaciov non risponde subito alla domanda di Werner Herzog, ma dice di essere rimasto ispirato dall’iscrizione che ha visto sulla tomba di un amico: «Ci abbiamo provato».

 

È uno degli ultimi momenti del documentario Herzog incontra Gorbaciov (2018). Con la scomparsa dell’ex presidente dell’URSS, il 30 agosto 2022, gli incontri tra l’uomo che ha fatto cadere l’impero sovietico e il regista tedesco assumono, a maggior ragione, il rilievo del testamento politico e morale.
 
Il documentario, inevitabilmente, ripercorre le fasi salienti della carriera di Gorbaciov: dall’impronta riformista di glasnost e perestrojka al disgelo graduale con l’Occidente, attraverso il dialogo aperto con Margaret Thatcher e Ronald Reagan; dalla crisi di Chernobyl alla caduta del Muro di Berlino. Eppure, se mettiamo a confronto quelle immagini di repertorio con il basso profilo del Gorbaciov ascoltato da Herzog, abbiamo l’impressione che l’uomo, storicamente parlando, sia già venuto a mancare; che non appartenga più al mondo dal quale sta comunicando. Sul Gorbaciov di Herzog aleggia a tratti un’indifferenziazione, un’aura neutra che fa pensare al monolitico stato sovietico. È come se il sistema che ha contribuito a distruggere gli fosse in fondo rimasto appiccicato addosso.
 
Gorbaciov, in alcuni frammenti del documentario, torna alle origini, nel luogo in cui è nato, nel villaggio di Privol’noe. Si tratta di filmati risalenti alla Pasqua del 2000: l’ultimo leader sovietico fa visita ai cari defunti nel cimitero locale e va a trovare la zia Aleksandra, come un uomo comune che fa rientro a casa dopo un lungo viaggio. Tuttavia, la curiosità che suscita attorno al cimitero è ancora grande. Una donna anziana lo riconosce: è l’uomo con gli occhiali.
 
Quasi vent’anni dopo è un uomo ammalato, schietto ma visibilmente provato, che dalle stanze della sua fondazione incontra un regista tedesco che, dopotutto, è un outsider come lui. Lo stesso Herzog, in un’intervista rilasciata al Biografilm Festival di Bologna del 2019, lo descrive come un soldato di 88 anni che sta combattendo per la sua salute. Ma è forse proprio questa condizione di precarietà a rendere significativo ogni istante di quelle che Herzog preferisce ricordare come “conversazioni” finalizzate a scendere nell’anima dell’uomo.
 
Conversazioni circoscritte da profonde limitazioni, dal momento che talvolta Gorbaciov si presenta alle riprese, direttamente dall’ospedale nel quale si sta curando. Inoltre, egli non intende parlare del presente politico, né di Trump, né della Brexit, né ovviamente di Vladimir Putin. Mentre si può parlare, senza dubbio, della Germania e della sua riunificazione. Per un tedesco, ammette Herzog, è un privilegio poter incontrare Gorbaciov, quasi un gesto di gratitudine per aver reso possibile quel delicato processo.
 
Durante una di quelle conversazioni, Gorbaciov auspica del resto un “destino comune” per Russia e Germania, designando i tedeschi come gli “amici più stretti”. È un filo rosso che unisce le speranze future di Gorbaciov alla rievocazione dell’intesa raggiunta a suo tempo con Helmut Kohl. Nella seconda metà del documentario, Gorbaciov ricorda l’inizio difficile con il Cancelliere tedesco che, sulle prime, lo paragonò addirittura a Goebbels. Poi i due strinsero una forte amicizia e il famoso programma in dieci punti divenne il paradigma della Germania unita. Il decalogo mirava a risolvere questioni interne agli affari tedeschi, come la democratizzazione della DDR in vista di una successiva federazione, e si apriva, allo stesso tempo, a scenari di cooperazione su tutto il continente.
 
Artefice di quel protocollo fu anche Horst Teltschik, consigliere politico di Kohl per l’estero e per la sicurezza, ascoltato da Herzog nel documentario come testimone di quegli eventi, ma non solo. Teltschik, nei suoi interventi, tocca molte questioni spinose nelle relazioni tra la NATO e la Russia di Putin. A tal proposito, dichiara che l’Europa è il “problema minore” per la Russia, rispetto all’India, al Pakistan e alla Cina. Meglio insomma avere la NATO alle porte, piuttosto che delle più, o meno, grandi potenze dotate di armamenti nucleari. Teltschik aggiunge, tuttavia, che le rassicurazioni nei confronti della Russia sono fondamentali e che non bisogna trascurare l’esigenza della Russia di sentirsi tutelata rispetto all’espansione della NATO.
 
D’altro canto, la linea morbida di Gorbaciov nelle trattative del 1990 con il segretario di Stato James Baker e il presidente Bush senior, che acconsentiva appunto alla riunificazione della Germania sotto il mantello della NATO, si inseriva in un più ampio progetto di demilitarizzazione e di ricostruzione. Uno dei punti sul tavolo era il rafforzamento della CSCE, ossia la Conferenza sulla sicurezza e sulla cooperazione in  Europa, con l’obiettivo di realizzare un istituto pan-europeo che avrebbe dovuto essere, per l’appunto, complementare alla NATO.
 
Proprio James Baker compare per un attimo nel documentario di Herzog per avvalorare le paure di Gorbaciov rispetto a una nuova proliferazione degli armamenti nucleari. George P. Shultz, Segretario di Stato dell’amministrazione Reagan, sostiene la stessa visione, invitando a usare l’esempio di Gorbaciov per aprire un nuovo dialogo tra gli Stati Uniti e la Russia di Putin.
 
Teltschik, in effetti, ricorda come Gorbaciov ritirasse 500.000 soldati sovietici dalle basi russe in Europa centrale e di come il mondo, finalmente, sembrasse poter vivere in pace da Vancouver a Vladivostok. La visione di Teltschik e Gorbaciov chiaramente è agli antipodi rispetto alla piega che hanno preso gli eventi dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, lo scorso febbraio. La Germania di Scholz, nei mesi scorsi, ha deciso di investire il 2% del PIL nelle forze armate, con un fondo speciale di 100 miliardi destinato a rinnovare le strutture militari. Si tratta di un programma ambizioso, e che non troverà compimento in tempi brevi, che nondimeno ribalta perentoriamente le istanze del 1990.
 
L’idea di un collaborativo asse Germania-Russia, come sappiamo, è venuta meno anche dall’altra parte, a favore di una concezione euroasiatica, in cui la Russia, non solo sulla scorta di Dugin, ma anche dei meno recenti Solov’ëv, Il’in e Berdjaev, ambisce a un imperialismo imbevuto di tradizionalismo che la pone in conflitto con l’Europa del Patto Atlantico e con la UE.
 
Una profonda cesura che può essere indagata in senso cinematografico, citando un altro caso, per certi versi parallelo al documentario di Herzog, ossia quello di The Putin Interviews (2017). La fotografia tenue, intima,riservata delle conversazioni tra Herzog e Gorbaciov stona infatti con l’assetto scenico spettacolare che ha fatto da sfondo alle interviste di Oliver Stone a Putin, tra il 2015 e il 2017. Gorbaciov, artefice della caduta dell’impero sovietico, scivola nell’oscurità della storia mentre Putin, negli incontri con il regista americano, apre le stanze più sfarzose dei suoi palazzi e gioca con la sua umanizzazione in chiave propagandistica, per mandare messaggi all’Occidente e alimentare la sua vocazione alla leadership. Gli ambivalenti progetti di Herzog e Stone, raccontando il passato e il presente della Russia, ne riflettono in parte l’ambigua natura, tra melanconia crepuscolare e una rinnovata volontà di potenza.
 
Il finale del documentario di Herzog non può che essere lirico. Gorbaciov recita a memoria una poesia di Michail Lermontov, Sulla strada esco solo. È un inno intimo alla ricerca di un sollievo personale, a contatto con Dio, per una morte che diventa il preludio dolce dell’immortalità. I versi di Lermontov fanno pensare a un altro grande statista del Novecento, Nelson Mandela, e alla poesia di William Ernest Henley, Invictus, riportata agli onori della cronaca dall’omonimo film di Clint Eastwood del 2009.
 
In entrambe le composizioni i leader diventano uomini comuni, naufraghi del loro destino, in cerca di redenzione e pace spirituale. A essere evocato è un nascondiglio segreto che li tiene protetti dalle gravose scelte che hanno attuato e che verranno consegnate al tribunale della storia.
 
Herzog, in chiusura, parla della natura tragica di Gorbaciov, del suo essere “quasi un personaggio tragico” e coinvolge ancora una volta Teltschik in queste riflessioni. L’ex consigliere di Kohl sottolinea come Gorbaciov volesse “realizzare il suo sogno di una casa comune europea”, una casa sicura senza NATO e Patto di Varsavia.
 
Poche ore dopo la morte del leader sovietico, Lucio Caracciolo, direttore di Limes, ha ripercorso la sua figura in un approfondimento intitolato proprio “La tragedia di Gorbaciov”, ribadendo come il piano di un’Europa pacificata, unificata e stabile abbia esaurito ogni sua velleità, fino alle estreme conseguenze della crisi attuale.
 
La scomparsa di Gorbaciov, nell’anno in cui la geopolitica continentale ricambia volto, segna, anche dal punto di vista simbolico, il definitivo tracollo di visioni e idee che, a conti fatti, si sono rivelate utopiche.
 

Riferimenti bibliografici:
 
M. Gorbačëv, Ogni cosa a suo tempo. Storia della mia vita, Feltrinelli, Milano 2013.
J.R. Itzkowitz Shifrinson, Deal or No Deal? The End of the Cold War and the U.S. Offer to Limit NATO Expansion, International Security, vol. 40. n. 4., pp. 7-44, Mit Press, Cambridge 2016.
M.E. Sarotte, Not One Inch: America, Russia, and the Making of Post-Cold War Stalemate, Yale University Press, New Haven 2021.
M.E. Sarotte, 1989: The Struggle to Create Post–Cold War Europe, Princeton University Press, Princeton 2014.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]