IL GORBACIOV DI HERZOG
ANALISI DI UN TESTAMENTO POLITICO E
MORALE
di Alessio Guglielmini
«Che
cosa ci sarà scritto sulla sua
lapide?». Michail Gorbaciov non
risponde subito alla domanda di
Werner Herzog, ma dice di essere
rimasto ispirato dall’iscrizione che
ha visto sulla tomba di un amico:
«Ci abbiamo provato».
È uno degli ultimi momenti del
documentario Herzog incontra
Gorbaciov (2018). Con la scomparsa
dell’ex presidente dell’URSS, il 30
agosto 2022, gli incontri tra l’uomo
che ha fatto cadere l’impero
sovietico e il regista tedesco
assumono, a maggior ragione, il
rilievo del testamento politico e
morale.
Il documentario, inevitabilmente,
ripercorre le fasi salienti della
carriera di Gorbaciov: dall’impronta
riformista di glasnost e perestrojka
al disgelo graduale con l’Occidente,
attraverso il dialogo aperto con
Margaret Thatcher e Ronald Reagan;
dalla crisi di Chernobyl alla caduta
del Muro di Berlino. Eppure, se
mettiamo a confronto quelle immagini
di repertorio con il basso profilo
del Gorbaciov ascoltato da Herzog,
abbiamo l’impressione che l’uomo,
storicamente parlando, sia già
venuto a mancare; che non appartenga
più al mondo dal quale sta
comunicando. Sul Gorbaciov di Herzog
aleggia a tratti
un’indifferenziazione, un’aura
neutra che fa pensare al monolitico
stato sovietico. È come se il
sistema che ha contribuito a
distruggere gli fosse in fondo
rimasto appiccicato addosso.
Gorbaciov, in alcuni frammenti del
documentario, torna alle origini,
nel luogo in cui è nato, nel
villaggio di Privol’noe. Si tratta
di filmati risalenti alla Pasqua del
2000: l’ultimo leader sovietico fa
visita ai cari defunti nel cimitero
locale e va a trovare la zia
Aleksandra, come un uomo comune che
fa rientro a casa dopo un lungo
viaggio. Tuttavia, la curiosità che
suscita attorno al cimitero è ancora
grande. Una donna anziana lo
riconosce: è l’uomo con gli
occhiali.
Quasi vent’anni dopo è un uomo
ammalato, schietto ma visibilmente
provato, che dalle stanze della sua
fondazione incontra un regista
tedesco che, dopotutto, è un
outsider come lui. Lo stesso Herzog,
in un’intervista rilasciata al
Biografilm Festival di Bologna del
2019, lo descrive come un soldato di
88 anni che sta combattendo per la
sua salute. Ma è forse proprio
questa condizione di precarietà a
rendere significativo ogni istante
di quelle che Herzog preferisce
ricordare come “conversazioni”
finalizzate a scendere nell’anima
dell’uomo.
Conversazioni circoscritte da
profonde limitazioni, dal momento
che talvolta Gorbaciov si presenta
alle riprese, direttamente
dall’ospedale nel quale si sta
curando. Inoltre, egli non intende
parlare del presente politico, né di
Trump, né della Brexit, né
ovviamente di Vladimir Putin. Mentre
si può parlare, senza dubbio, della
Germania e della sua riunificazione.
Per un tedesco, ammette Herzog, è un
privilegio poter incontrare
Gorbaciov, quasi un gesto di
gratitudine per aver reso possibile
quel delicato processo.
Durante una di quelle conversazioni,
Gorbaciov auspica del resto un
“destino comune” per Russia e
Germania, designando i tedeschi come
gli “amici più stretti”. È un filo
rosso che unisce le speranze future
di Gorbaciov alla rievocazione
dell’intesa raggiunta a suo tempo
con Helmut Kohl. Nella seconda metà
del documentario, Gorbaciov ricorda
l’inizio difficile con il
Cancelliere tedesco che, sulle
prime, lo paragonò addirittura a
Goebbels. Poi i due strinsero una
forte amicizia e il famoso programma
in dieci punti divenne il paradigma
della Germania unita. Il decalogo
mirava a risolvere questioni interne
agli affari tedeschi, come la
democratizzazione della DDR in vista
di una successiva federazione, e si
apriva, allo stesso tempo, a scenari
di cooperazione su tutto il
continente.
Artefice di quel protocollo fu anche
Horst Teltschik, consigliere
politico di Kohl per l’estero e per
la sicurezza, ascoltato da Herzog
nel documentario come testimone di
quegli eventi, ma non solo.
Teltschik, nei suoi interventi,
tocca molte questioni spinose nelle
relazioni tra la NATO e la Russia di
Putin. A tal proposito, dichiara che
l’Europa è il “problema minore” per
la Russia, rispetto all’India, al
Pakistan e alla Cina. Meglio insomma
avere la NATO alle porte, piuttosto
che delle più, o meno, grandi
potenze dotate di armamenti
nucleari. Teltschik aggiunge,
tuttavia, che le rassicurazioni nei
confronti della Russia sono
fondamentali e che non bisogna
trascurare l’esigenza della Russia
di sentirsi tutelata rispetto
all’espansione della NATO.
D’altro canto, la linea morbida di
Gorbaciov nelle trattative del 1990
con il segretario di Stato James
Baker e il presidente Bush senior,
che acconsentiva appunto alla
riunificazione della Germania sotto
il mantello della NATO, si inseriva
in un più ampio progetto di
demilitarizzazione e di
ricostruzione. Uno dei punti sul
tavolo era il rafforzamento della
CSCE, ossia la Conferenza sulla
sicurezza e sulla cooperazione in
Europa, con l’obiettivo di
realizzare un istituto pan-europeo
che avrebbe dovuto essere, per
l’appunto, complementare alla NATO.
Proprio James Baker compare per un
attimo nel documentario di Herzog
per avvalorare le paure di Gorbaciov
rispetto a una nuova proliferazione
degli armamenti nucleari. George P.
Shultz, Segretario di Stato
dell’amministrazione Reagan,
sostiene la stessa visione,
invitando a usare l’esempio di
Gorbaciov per aprire un nuovo
dialogo tra gli Stati Uniti e la
Russia di Putin.
Teltschik, in effetti, ricorda come
Gorbaciov ritirasse 500.000 soldati
sovietici dalle basi russe in Europa
centrale e di come il mondo,
finalmente, sembrasse poter vivere
in pace da Vancouver a Vladivostok.
La visione di Teltschik e Gorbaciov
chiaramente è agli antipodi rispetto
alla piega che hanno preso gli
eventi dopo l’inizio dell’invasione
russa dell’Ucraina, lo scorso
febbraio. La Germania di Scholz, nei
mesi scorsi, ha deciso di investire
il 2% del PIL nelle forze armate,
con un fondo speciale di 100
miliardi destinato a rinnovare le
strutture militari. Si tratta di un
programma ambizioso, e che non
troverà compimento in tempi brevi,
che nondimeno ribalta
perentoriamente le istanze del 1990.
L’idea di un collaborativo asse
Germania-Russia, come sappiamo, è
venuta meno anche dall’altra parte,
a favore di una concezione
euroasiatica, in cui la Russia, non
solo sulla scorta di Dugin, ma anche
dei meno recenti Solov’ëv, Il’in e
Berdjaev, ambisce a un imperialismo
imbevuto di tradizionalismo che la
pone in conflitto con l’Europa del
Patto Atlantico e con la UE.
Una profonda cesura che può essere
indagata in senso cinematografico,
citando un altro caso, per certi
versi parallelo al documentario di
Herzog, ossia quello di The Putin
Interviews (2017). La fotografia
tenue, intima,riservata delle
conversazioni tra Herzog e Gorbaciov
stona infatti con l’assetto scenico
spettacolare che ha fatto da sfondo
alle interviste di Oliver Stone a
Putin, tra il 2015 e il 2017.
Gorbaciov, artefice della caduta
dell’impero sovietico, scivola
nell’oscurità della storia mentre
Putin, negli incontri con il regista
americano, apre le stanze più
sfarzose dei suoi palazzi e gioca
con la sua umanizzazione in chiave
propagandistica, per mandare
messaggi all’Occidente e alimentare
la sua vocazione alla leadership.
Gli ambivalenti progetti di Herzog e
Stone, raccontando il passato e il
presente della Russia, ne riflettono
in parte l’ambigua natura, tra
melanconia crepuscolare e una
rinnovata volontà di potenza.
Il finale del documentario di Herzog
non può che essere lirico. Gorbaciov
recita a memoria una poesia di
Michail Lermontov, Sulla strada esco
solo. È un inno intimo alla ricerca
di un sollievo personale, a contatto
con Dio, per una morte che diventa
il preludio dolce dell’immortalità.
I versi di Lermontov fanno pensare a
un altro grande statista del
Novecento, Nelson Mandela, e alla
poesia di William Ernest Henley,
Invictus, riportata agli onori della
cronaca dall’omonimo film di Clint
Eastwood del 2009.
In entrambe le composizioni i leader
diventano uomini comuni, naufraghi
del loro destino, in cerca di
redenzione e pace spirituale. A
essere evocato è un nascondiglio
segreto che li tiene protetti dalle
gravose scelte che hanno attuato e
che verranno consegnate al tribunale
della storia.
Herzog, in chiusura, parla della
natura tragica di Gorbaciov, del suo
essere “quasi un personaggio
tragico” e coinvolge ancora una
volta Teltschik in queste
riflessioni. L’ex consigliere di
Kohl sottolinea come Gorbaciov
volesse “realizzare il suo sogno di
una casa comune europea”, una casa
sicura senza NATO e Patto di
Varsavia.
Poche ore dopo la morte del leader
sovietico, Lucio Caracciolo,
direttore di Limes, ha ripercorso la
sua figura in un approfondimento
intitolato proprio “La tragedia di
Gorbaciov”, ribadendo come il piano
di un’Europa pacificata, unificata e
stabile abbia esaurito ogni sua
velleità, fino alle estreme
conseguenze della crisi attuale.
La scomparsa di Gorbaciov, nell’anno
in cui la geopolitica continentale
ricambia volto, segna, anche dal
punto di vista simbolico, il
definitivo tracollo di visioni e
idee che, a conti fatti, si sono
rivelate utopiche.
Riferimenti bibliografici:
M. Gorbačëv, Ogni cosa a suo
tempo. Storia della mia vita,
Feltrinelli, Milano 2013.
J.R. Itzkowitz Shifrinson, Deal
or No Deal? The End of the Cold War
and the U.S. Offer to Limit NATO
Expansion, International Security,
vol. 40. n. 4., pp. 7-44, Mit
Press, Cambridge 2016.
M.E. Sarotte, Not One Inch:
America, Russia, and the Making of
Post-Cold War Stalemate, Yale
University Press, New Haven 2021.
M.E. Sarotte, 1989: The Struggle
to Create Post–Cold War Europe,
Princeton University Press,
Princeton 2014.