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filosofia & religione


N. 116 - Agosto 2017 (CXLVII)

filosofia greca vs pensiero occidentale
quando heideger demolì aristotele

di Gaetano Cellura

 

Negli anni Venti desta molta curiosità un giovane professore che propone una lettura radicalmente nuova della filosofia aristotelica. Dall’Università di Marburgo, dove ha vinto una cattedra grazie a un lavoro proprio su Aristotele, mette in discussione il primato del filosofo greco sul pensiero occidentale.

 

“Non vi aspettate da me – disse Martin Heidegger agli allievi – il solito punto di vista sulla lezione aristotelica. Il mio compito è un altro”. Tra i suoi allievi c’erano Hans Jonas, Leo Strauss, Hans Georg Gadamer, Hannah Arendt, Günther Anders.

 

Ognuno di questi giovani filosofi avrebbe fatto parlare di sé. Quasi tutti sono costretti a lasciare la Germania e a trasferirsi in Francia e poi in America.

 

Jonas legherà il proprio pensiero al “principio di responsabilità” dell’uomo verso la natura e l’umanità minacciate dallo sviluppo tecnico e scientifico portato a situazioni estreme. Strauss rifiuterà sia l’ideologia democratica che la liberale in quanto incapaci di riconoscere il primato della morale sulla tecnica nel governo elitario e illuminato della polis.

 

Gadamer sarà il padre dell’ermeneutica contemporanea e Günther Anders il teorico dell’uomo come novello Prometeo che si vergogna d’essere dominato dalla macchina tecnica da lui stesso creata. Hannah Arendt ci parlerà delle concezioni teologiche e metafisiche del male nel tempo estremo dei totalitarismi.

 

Quando tiene il seminario a Marburgo, nell’estate del 1924, Heidegger ha trentacinque anni. Ha letto Aristotele, l’ha tradotto e dunque interpretato sul piano filologico e cioè sul piano del linguaggio, della parola, del logos. Lo stesso metodo – della filologia applicata al pensiero – consiglia ai suoi allievi per l’interpretazione di tutti i filosofi antichi.

 

Le tesi di quel seminario sono ora raccolte in un testo – di 441 pagine e d’impervia lettura – pubblicato da Adelphi col titolo Concetti fondamentali della filosofia aristotelica. Heidegger vi demolisce tutto l’edificio costruito dalla filosofia fino al 1924.

 

“Noi – dice a chi lo ascolta – crediamo di conoscere il mondo antico. In realtà conosciamo soltanto le cose ovvie diffuse sul suo conto”.

 

Era questo il compito di cui parlava? Rileggere Aristotele per liberare la nostra conoscenza del mondo antico dalle sue tante ovvietà?

 

Una di queste è che, per Aristotele e per il mondo greco, logos e polis devono sempre coincidere. Stare insieme. Altrimenti l’uomo non è uomo. Non è autenticamente uomo se non vive nella polis. Non è uomo se non vive insieme agli altri attraverso l’esercizio della politica. E del logos (inteso come parola, come comunicazione) che ne è alla base.

 

Il principale punto di contestazione heideggeriana è l’autenticità della parola.

 

“Può la parola, può il linguaggio – chiede dubbioso il filosofo ai propri allievi – costituirsi come la manifestazione dell’Essere? – In quanto parola non è soggetta al fraintendimento, alla menzogna e alla chiacchiera, elementi della vita inautentica”?

 

Tre anni dopo Heidegger svilupperà meglio queste problematiche in Essere e tempo. Libro eterno della storia della filosofia, per Emmanuel Levinas, malgrado tutto l’orrore associato al nome del suo autore.

 

Antonio Gnoli, che ha recensito Concetti fondamentali della filosofia aristotelica, si chiede perché mai Heidegger senta il bisogno di rottamare il pensiero occidentale e di riformulare la “sentenza aristotelica” dell’uomo come animale politico. E dà una convincente risposta.

 

Siamo nella prima metà degli anni Venti. E anche se nel seminario di Marburgo non si fa alcun riferimento a quanto accade in Germania, non è detto che non sia il phobos, la paura, a spingere Heidegger a ripensare “l’essere dell’uomo insieme agli altri”. Non più animale politico, ma uomo che ha bisogno di una guida politica.

 

C’è Hitler dietro l’angolo. E l’adesione di Heidegger al nazismo. Che gli procura un processo nel dopoguerra, con l’epurazione dalle università; e tante critiche, prese di distanza da parte dei suoi allievi. Hannah Arendt per prima.

 

Ad altri “processi” (postumi) il filosofo sarà sottoposto dal libro del filosofo cileno Victor Farias, poi dal saggio di Emmanuel Faye (Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia) e dalla pubblicazione dei Quaderni neri, considerati antisemiti.

 

Ma perché l’autore di Essere e tempo aderisce al nazismo? C’è in lui del calcolo, dell’opportunismo? E se fu per errore, se ne rese poi conto?

 

Il nazismo al potere lo considerava uno dei suoi e gli permise quella scalata della carriera universitaria in cui il filosofo trovò senz’altro la propria convenienza. Ma ci fu anche una ragione ideale in questa sua adesione. Heidegger vide nel nazismo il contrasto, in nome della metafisica e del suo primato, alla modernizzazione del mondo, alla tecnica e all’industrialismo: una terza via tra l’americanismo e il bolscevismo.

 

Certamente si rese conto dell’errore, ma non tornò mai indietro. Nel processo di modernizzazione il nazismo era pienamente coinvolto: ne veniva usato e lo usava per i suoi fini distruttivi. E come, nel suo momento dominante, spalanca ad Heidegger le porte della carriera universitaria, così con la sua caduta gliele chiude.

 

La commissione epuratrice, composta da intellettuali liberali e antinazisti tra cui gli economisti Adolf Lampe e Franz Böhm, gli muove accuse precise come l’indottrinamento degli studenti al nazionalsocialismo e l’abolizione dell’autonomia dell’università.

 

“Perché – gli viene chiesto – avete ordinato l’affissione del manifesto per la denuncia degli studenti comunisti? Perché non vi siete opposto al saccheggio della sede dell’Associazione degli studenti ebrei”?

 

Heidegger risponde con il silenzio alle accuse. Durante il processo e per tutta la vita. Un silenzio che provoca lo sdegno di Böhm: “Se quest’uomo – dice – sarà reintegrato o anche nominato professore emerito, mi dimetterò da prorettore dell’università”.

 

Poi c’è stato chi, per giustificarlo, – giustificarlo in rapporto alla grandezza del suo pensiero – ha voluto farlo passare per uno sprovveduto. Chi per un doppiogiochista capace di mentire dicendo la verità. Ambiguo e sfuggente.

 

Grande pensatore, Heidegger non era uomo di altrettanto coraggio. Niente obbliga le due cose a stare insieme. Le continue domande sulla “questione dell’essere” segnarono il suo cammino nella filosofia.

 

Si rivelerà più lungo di quanto immaginava, ma gli permise di avere pronto il libro da pubblicare quando il decano della facoltà di Marburgo gli chiese un suo manoscritto “da stampare rapidamente” se voleva occuparne la prima cattedra come professore ordinario.

 

Così nasce Essere e tempo. Così esce dal cassetto della scrivania di Heidegger e viene conosciuta una delle opere più importanti della filosofia moderna. È il 1927.

 

Per il filosofo tedesco, ora che la metafisica si è raccolta, si è “compiuta” nella nuova organizzazione tecnico-scientifica del mondo, il compito del pensiero filosoficamente inteso resta sempre la ricerca della verità assoluta. Ed è quanto si propone Essere e tempo. Cioè di rispondere, in modo parziale o definitivo e in termini di verità e di sapere, alle domande lasciate inevase sia dalla metafisica che dalla scienza e dalla tecnica moderne.

 

L’opera resta incompiuta perché l’assegnazione della cattedra all’università obbliga l’autore a pubblicarla prima del tempo. Ma soprattutto perché Martin Heidegger non ha ancora trovato il linguaggio opportuno per chiarire due concetti dell’analitica esistenziale come essere e tempo.

 

E cioè per chiarire che il nostro esserci, la nostra esistenza, come la nostra soggettività d’altra parte, non sono elementi a-storici: ma sempre connessi alla temporalità, all’hic et nunc in cui agiamo.

 

Troverà questo linguaggio trentacinque anni dopo, con i concetti espressi nella conferenza Tempo e essere. Ma è troppo tardi per ritenerli come la parte mancante alla sua opera.



 

 

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