N. 73 - Gennaio 2014
(CIV)
RITRATTI RINASCIMENTali
CONFRONTO CON L’HAIRDRESSINg CONTEMPORANEO
di Leila Tavi
“Sono
sottoposte
a
possessione
del
demonio
le
donne
e le
ragazze
dai
bei
capelli,
o
perché
si
dedicano
a
curare
e
ornare
i
loro
capelli,
o
perché
con
i
capelli
desiderano,
o
sono
solite
infiammare
gli
uomini”.
(Jacop
Sprenger
e
Heinrich
Institor
Kramer,
Malleus
Maleficarum)
Proponiamo
in
questo
numero
di
InStoria
un
tema
che
è
stato
oggetto
di
una
relazione
al
convegno
internazionale
sul
genio
italiano
organizzato
dalla
Facoltà
di
Lettere
e
Filosofia
dell’Università
Statale
russa
di Chelyabinsk
nel
mese
di
maggio
2013.
Il
Rinascimento
celebrò
nelle
arti
la
riscoperta
della
centralità
dell’uomo.
Alla
figura
maschile
fu
affiancata
quella
femminile,
non
più
solo
come
puro
ideale
di
bellezza,
ma
come
rappresentazione
della
personalità,
esaltata
dal
ritratto.
Il
ritratto
non
fu
più
nel
Rinascimento
prerogativa
dell’aristocrazia,
ma
“stutus
symbol”
anche
dell’alta
borghesia,
la
nuova
classe.
Del
ritratto
sia
i
nobili
che
i
borghesi
riscoprirono
la
funzione
sociale,
in
aggiunta
a
quella
commemorativa.
La
ritrattistica
rinascimentale
è un
pregevole
esempio
del
genio
italiano,
sia
per
l’originalità
e
l’accuratezza
con
cui
maestri
affermati
e
pittori
minori
hanno
immortalato
i
prominenti
dell’epoca,
sia
per
la
notorietà
del
signore
o
della
dama
raffigurati
nei
ritratti.
Il
ritratto
può
essere
annoverato
tra
i
più
diffusi
e
importanti
generi
dell’epoca;
estinto
nei
secoli
dopo
la
caduta
dell’Impero
Romano,
la
sua
“rinascita”
iniziò
nei
primi
anni
del XIV
sec.,
quando
le
figure
storiche
e i
notabili
furono
rappresentati
con
una
certa
frequenza.
All’inizio
del
Rinascimento
non
furono,
in
verità,
i
volti
degli
individui
a
essere
rappresentati,
ma
fu
privilegiata
piuttosto
una
tipizzazione
dei
caratteri
umani:
il
vecchio,
l’affascinante,
il
brutto,…
È
solo
alla
metà
del
XV
sec.
che
gli
artisti
cominciarono,
in
forma
quasi
schematizzata
e
idealizzata,
a
porre
attenzione
ai
tratti
somatici
e
peculiari
del
soggetto
del
loro
ritratto,
riprendendo
lentamente
una
tradizione
dell’arte
romana
antica.
Il
ritratto
tornò
quindi
in
auge,
come
riscoperta
dell’unicità
e
del
valore
dell’individuo
umano.
Quasi
nulla
è
noto
riguardo
all’uso
che
fu
fatto
dei
primi
ritratti
rinascimentali;
erano
sicuramente
esposti
nelle
dimore,
molto
probabilmente
ancora
con
una
funzione
commemorativa,
in
ricordo
di
defunti.
Dipinti
solo
alla
morte
del
committente,
dovevano
preservare
nella
memoria
il
volto
del
caro
scomparso.
I
primi
ritratti
di
scuola
fiorentina
sono
severe
ed
enigmatiche
raffigurazioni
di
profilo,
la
cui
visione
del
soggetto
vis
à
vis
è
preclusa
all’osservatore
di
oggi,
che
perde
così
i
dettagli
dello
sguardo,
senza
poter
intuire
la
personalità
o
l’umore
del
raffigurato.
I
capelli
sono
un
elemento
che
cattura
la
nostra
attenzione,
nell’accuratezza
dell’acconciatura,
in
risalto
rispetto
alle
vesti,
di
cui
vediamo
solo
il
particolare
che
copre
le
spalle.
Nel
Rinascimento
l’ammirazione
per
il
bello
si
rifaceva
ai
canoni
estetici
classici,
come
la
perfezione
e
l’armonia,
ma
non
fu
più
l’essenziale
linearità
di
un
corpo
atletico
a
essere
ricercata;
le
imperfette
e
rotonde
forme
erano,
infatti,
nascoste
da
ampi
broccati
e
velluti
provenienti
dall’Oriente,
mentre
il
viso,
e di
conseguenza
la
capigliatura
come
suo
ornamento,
divennero
oggetto
di
una
maniacale
attenzione
da
parte
sia
delle
donne
che
degli
uomini.
Con
un
nuovo
ideale
di
bellezza
femminile,
il
volto
rappresentò
nel
Rinascimento
un
segno
esteriore
dell’anima.
I
nuovi
canoni
della
bellezza
furono
il
compromesso
tra
l’irraggiungibile
ideale
classico
e la
morale
religiosa
medievale,
con
una
funzione
mediatrice
dell’arte.
Il
ritratto
femminile
nel
Rinascimento
non
commemora,
ovviamente,
gesta
o
vittorie,
ma
immortala
un
momento
significativo
della
vita
di
una
donna
ammirata
e
stimata,
dei
suoi
tratti
peculiari,
di
un
suo
modo
di
essere,
di
abbigliarsi
e di
pettinarsi,
a
cui
le
altre
donne
della
corte
si
rifacevano
o
prendevano
ispirazione.
Nonostante
la
rappresentazione
della
donna
nei
ritratti
di
profilo
dovesse
riprodurre
un
modello
di
moglie
fedele
e
devota,
eterea
e
austera
allo
stesso
tempo,
un
osservatore
attento
di
oggi
nota
dallo
sguardo
fisso
verso
un
infinito
lontano
e
irraggiungibile,
dalla
contrazione
dei
muscoli
del
collo,
la
sofferenza
e la
sottomissione
a
cui
le
donne
erano
costrette.
L’educazione
femminile
fu
una
delle
innovazioni
sociali
del
Rinascimento;
le
figlie
dei
nobili
trascorrevano
l’infanzia
in
convento
fino
ai
dodici
anni,
età
da
marito;
quando
iniziavano
la
loro
formazione
per
diventare
una
moglie
“perfetta”,
che
doveva
racchiudere
in
sé
doti
quali
la
discrezione,
la
modestia
e
l’onestà.
Pur
essendo
alle
donne
preclusa
una
vera
e
propria
possibilità
di
“rivoluzione”
culturale
nel
pensiero
e
nello
stile
di
vita,
a
causa
delle
privazioni
sociali
e
delle
restrizioni
alla
libertà
personale
che
subivano
da
parte
della
famiglia
e
delle
autorità,
molte
nobildonne
non
accettarono
passivamente
il
loro
ruolo
di
sottomesse,
ma
iniziarono
a
studiare
le
scienze
e le
arti,
ottenendo
il
riconoscimento
e
l’ammirazione
degli
uomini.
Era
in
voga
in
quel
tempo
l’amore
platonico,
come
quello
di
Lorenzo
il
Magnifico
per
Lucrezia
Donati,
in
grado,
a
detta
del
Signore
di
Firenze,
di
trasformare
e
purificare
la
sua
anima
di
uomo
peccaminoso.
Secondo
Marsilio
Ficino
l’amore
rappresentava
uno
dei
quattro
furori
dell’anima,
accessibile
nel
mondo
materiale
attraverso
la
percezione
della
bellezza.
Il
ritratto
rinascimentale
con
il
passare
del
tempo
si
adeguò
al
mutare
della
filosofia,
che
interpretò
il
motto
dell’essere
umano
al
centro
dell’universo,
come
perno
della
vita
sociale
e
politica
delle
città.
Tale
adeguamento
dell’ideale
rinascimentale
alle
esigenze
economiche
di
un’Italia
delle
corti,
frammentata
politicamente,
ma
unita
da
un
inconfondibile
gusto
artistico,
lo
ritroviamo
anche
nel
ritratto.
Nella
rappresentazione
pittorica
l’occhio
smette
di
essere
la
ieratica
rappresentazione
di
un
simbolo
lineare
e
diventa,
attraverso
una
visione
frontale,
il
riflesso
della
personalità
dell’individuo;
la
bocca
smette
di
essere
un
segmento
indifferenziato
della
texture
del
viso
per
diventare
un’area
sensibile
e in
primo
piano,
che
attraverso
la
contrazione
e la
rilassatezza
dei
muscoli
delle
labbra
è
veicolo
di
mille
risposte
e di
mille
misteri.
Nella
Gioconda
di
Leonardo,
per
esempio,
il
naso
smette
di
essere
il
punto
che
divide
il
viso
in
due
emisferi.
L’osservatore
riesce
perfino
a
percepire
come
respira
e
annusa
in
quell’aria
che,
con
la
pittura
Rinascimentale,
trova
il
suo
spazio
nella
composizione
pittorica,
riconoscibile
nel
punto
di
fuga
del
paesaggio
in
secondo
piano.
Se
la
Gioconda
è la
rappresentazione
femminile
del
Rinascimento
per
eccellenza
agli
occhi
di
un
nostro
contemporaneo,
la
donna
più
venerata
e
rappresentata
dell’epoca
fu
Simonetta
Cattaneo
Vespucci,
la
prima
top
model
della
storia
e
amore
platonico
di
Giuliano
de’
Medici.
Ricordata
come
una
delle
più
affascinanti
dame
del
primo
Rinascimento
fiorentino,
di
origine
genovese,
sposò
Marco
Vespucci,
nipote
del
famoso
navigatore
Amerigo.
Ottenne
il
soprannome
di
“Regina
di
bellezza”
in
occasione
della
Giostra
del
1475,
che
fu
vinta
da
Giuliano,
fratello
miniore
di
Lorenzo
il
Magnifico.
Giuliano
e
Simonetta
divennero
amanti,
ma
la
loro
struggente
storia
ebbe
presto
fine,
a
causa
della
polmonite
fulminante
che
fu
la
causa
della
morte
della
ragazza
a
soli
ventidue
anni,
nel
1476.
Maestri
quali
Sandro
Botticelli,
che
ne
fece
la
sua
musa
ispiratrice
per
la
Primavera
e la
Nascita
di
Venere,
o
Piero
di
Cosimo
e
Angelo
Poliziano
la
ritrassero
esaltandone
il
fascino
e la
grazia,
che
fecero
di
lei
una
vera
e
propria
diva
del
tempo.
Gli
artisti
non
lavoravano
però
solo
con
le
muse
ispiratrici;
quando
avevano
a
che
fare
con
committenti
pretenziosi,
erano
i
“clienti”
stessi
a
fornire
indicazioni
e
suggerimenti
agli
artisti
su
come
essere
ritratti,
per
ottenere
un
effetto
“al
naturale”,
il
più
verosimile
possibile.
In
controtendenza
rispetto
alla
tipizzazione
dei
visi
di
stampo
classico,
anche
un
vistoso
difetto
serviva
a
connotare
immediatamente
la
persona
ritratta,
proprio
per
quella
sua
caratteristica
unica
e
peculiare,
come
nel
doge
Francesco
Venier
di
Tiziano,
con
la
sua
inconfondibile
couperose.
Una
verosimiglianza
che
doveva,
per
convenzione,
essere
presentata
come
un’ideale
“guise”.
Se
in
precedenza
furono
i
canoni
estetici
a
giudicare
la
qualità
dell’arte
e,
di
conseguenza,
l’ideale
di
bellezza,
nella
dialettica
rinascimentale
il
nuovo
canone
era
“contrattato”
tra
l’artista,
estimatori
delle
proporzioni
classiche,
e
colui
o
colei
in
posa,
influenzati
dalle
convenzioni
sociali.
Ancora
più
della
pittura
la
scultura
rinascimentale
riprese
la
tradizione
romana
per
quanto
riguarda
la
ritrattistica.
I
visi
scolpiti
dal
veneziano
Tullio
Lombardo
non
sono,
infatti,
idealizzati,
come
nei
primi
ritratti
pittorici
rinascimentali
fiorentini,
ma
rappresentano
degli
ideali
che
sono
espressione
della
verosimiglianza
rinascimentale,
anche
se
non
necessariamente
legata
alla
contemporaneità
del
soggetto.
Lo
scultore
rinascimentale
spesso
trovava
la
sua
forma
espressiva
in
un’opera
d’arte
concepita
per
stupire
un
pubblico,
che
conosceva
e
giudicava
tutti
i
tratti
somatici
e
caratteriali
della
personalità
raffigurata.
In
Lombardo,
invece,
ritroviamo
un’ambiguità
temporale
quasi
shakespeariana,
dove
l’emulazione
della
scultura
antica
si
fonde
all’utilizzo
di
particolari
moderni
nei
costumi
e
nelle
pettinature,
che
contrastano
con
l’identità
antica
che
riconosciamo
nei
drappeggi
delle
vesti
e
nella
nudità,
se
pur
allusivamente
erotica.
Una
combinazione
di
bellezza
sensuale
e di
espressioni
misteriose
caratterizza
la
scultura
di
Lombardo,
i
cui
soggetti
sono
raffigurati
con
labbra
socchiuse
e
sguardi
inquieti,
fatti
di
occhi
intrigantemente
spalancati,
che
provocano
nell’osservatore
il
desiderio
ardente
di
qualcosa
che
è
fuori
dalla
sua
portata,
qualcosa
di
lontano
nello
spazio
e
nel
tempo,
il
mondo
antico.
Lombardo
riesce
nel
tentativo
di
creare
qualcosa
di
originale
e
alla
moda
allo
stesso
tempo,
attraverso
l’esaltazione
dei
canoni
estetici
dell’epoca
classica,
con
figure
che
sembrano
presenti
fisicamente
e
distanti
spiritualmente.
Nella
fusione
dei
due
ideali
di
bello,
quello
antico
e
quello
moderno,
Lombardo
elabora
un
canone
universale,
da
utilizzare
sia
per
le
committenze
private
che
per
opere
destinate
alla
pubblica
contemplazione,
dove
la
scultura
diventa
indipendente
e
centrale,
piuttosto
che
decorativa.
Lombardo
e i
suoi
seguaci
produssero
immagini
ideali
che
richiamano
alla
mente
l’ambiguità
di
Giorgione,
apprezzate
da
conoscitori
dell’epoca,
estimatori
ancor
prima
che
dell’arte
di
monete
e di
gemme
antiche.
I
busti
del
Lombardo
furono
per
l’epoca
la
sintesi
perfetta
di
tutte
le
qualità
fisiche
e
morali
che
erano
richieste
ai
giovani
dalle
convenzioni
sociali
di
allora
e
non
furono
mai,
come
nel
caso
del
ritratto
del
doge
Venier,
la
rappresentazione
di
una
personalità
in
particolare.
È
come
se
l’osservatore
fosse
improvvisamente
catapultato
nel
mondo
antico
e
allo
stesso
tempo
in
quello
fantastico
della
fanciullezza,
dove
la
contemplazione
di
un’anonima
bellezza,
è
privilegiata
all’osannata
esaltazione
della
verosimiglianza
del
contemporaneo.
Oltre
a
essere
il
fulcro
del
ritratto,
la
testa
è
sempre
stata
un
elemento
chiave
nella
storia
del
costume
rinascimentale
italiano,
quando
la
moda
era
considerata
un
vero
e
proprio
“instrumentum
regnii”
per
il
forte
potere
comunicativo,
così
le
acconciature
erano
eleganti
e
curate,
senza
però
emulare
la
stravaganza
delle
corti
del
Nord
Europa,
con
un’attenzione
invece
all’armonia,
piuttosto
che
allo
sfarzo.
In
Italia,
come
confermato
dalla
ritrattistica,
non
s’importò
la
moda
degli
alti
copricapo
a
corna,
a
pinnacolo
o a
cuspide,
che
si
ritrovano
nei
ritratti
di
borghesi
della
pittura
fiamminga
del
periodo.
L’attenzione
e la
cura
erano
riservate
ai
capelli,
che
diventarono
un
vero
e
proprio
status
sociale.
Solo
le
cortigiane
di
basso
rango
lasciavano
i
capelli
sciolti
sulle
spalle;
erano
chiamate
“da
candela”,
o
ancora
“da
lume”
o
“da
gelosia”,
perché
la
loro
prestazione
durava
il
tempo
che
occorreva
a
una
candela
per
consumarsi.
Durante
i
banchetti
di
corte
erano
le
cortigiane
più
belle
a
servire
a
tavola,
seminude
e
con
i
capelli
sciolti
come
le
spose
alla
prima
notte
di
nozze.
Le
cortigiane
“honorate”
erano
invece
donne
colte,
che
suonavano
il
liuto,
componevano
versi,
si
sapevano
comportare
a
corte
e
portavano
sempre
i
capelli
raccolti,
in
segno
di
distinzione
e
raffinatezza.
Tra
le
donne
della
nobiltà
e
dell’alta
borghesia
solo
alle
giovani
donne
da
marito
era
concesso
lasciare
sciolte
le
folte
chiome,
mentre
le
signore
preferivano
acconciature
con
i
capelli
abilmente
pettinati,
intrecciati
o
raccolti,
tra
cui,
spesso
erano
applicati
fili
e
reticelle
di
perle
insieme
a
qualche
rubino;
Lucrezia
Borgia
amava
raccogliere
le
sue
folte
chiome
bionde
in
reticelle
di
perle,
mentre
Isabelle
d’Este
inanellava
i
capelli
a
schiacciole
e
calmistri.
Esistevano
poi
le
pettinature
a
cincinni,
a
cercine
e a
capigliara,
un
copricapo
a
parrucca
che
raccoglieva
i
capelli
in
modo
da
farli
rimanere
in
vista
sulla
fronte
e
sulle
tempie,
secondo
una
moda
veneziana
lanciata
nelle
corti
italiane
da
Isabella
d’Este.
Il
colore
dei
capelli
doveva
essere
rigorosamente
chiaro,
biondo
o
ramato,
per
completare
un
look
che
doveva
dare
alla
donna
quell’aspetto
di
dea
con
la
pelle
rigorosamente
bianca
e le
labbra
e le
guance
rosse.
Per
tingere
i
capelli
di
biondo
erano
utilizzate
sostanze
chimiche
come
l’allume,
zolfo
e
soda,
uniti
al
rabarbaro,
attraverso
un
procedimento
simile
a
quello
per
la
tintura
delle
stoffe;
un’altra
tecnica
era
quella
di
esporsi
per
lunghi
periodi
al
sole
con
un
impacco
di
camomilla
o
limone;
diffuse
erano
ancora
tinture
a
base
di
fiori
di
lupino
o
zafferano.
Inoltre
furono
sperimentate
una
serie
di
procedure
per
preservare
la
salute
dei
capelli,
attraverso
lozioni
a
base
di
olio
di
rosmarino,
camomilla
e
timo
e
infusi
di
malva,
trifoglio
e
prezzemolo.
Per
quanto
riguarda
i
gioielli
che
ornavano
il
capo,
vogliamo
ricordare
la
resilla,
una
retina
fatta
di
perle
e la
ferronière
o
lenza,
o
più
semplicemente
ancora
nastro,
un
gioiello
da
capo
di
delicata
manifattura,
che
era
utilizzato
per
ornare
la
fronte,
oltre
che
tenere
in
ordine
la
pettinatura,
ed
era
formato
da
una
sottile
catena
di
metallo
o
nastro
di
stoffa
con
una
gemma
al
centro.
Il
nome
deriva
dal
dipinto
di
Leonardo
in
cui
dovrebbe
essere
raffigurata
Lucrezia
Crivelli.
Un’acconciatura
che
si
diffuse
intorno
alla
metà
del
XV
sec.
è il
balzo,
originario
di
Firenze,
che
presentava
una
forma
rotondeggiante
ed
era
fatto
con
tessuti
preziosi
avvolti
a
mo’
di
turbante,
oppure
con
capelli
disposti
verso
l’alto,
come
a
formare
un’aureola,
tipica
di
molti
ritratti
eseguiti
da
Pisanello.
Una
variante
del
balzo,
anche
se
più
piatta,
era
la
ghirlanda
di
penne
di
pavone,
che
aveva
dato
il
nome
a un
mestiere
in
voga
a
Firenze,
il
ghirlandaio,
da
cui
deriva
il
soprannome
del
famoso
pittore.
Accompagnata
alla
moda
di
slanciare
il
capo
con
acconciature
alte
era
l’usanza
di
rasare
la
fronte
e le
sopracciglia,
come
segno
di
alta
intelligenza;
tale
tecnica
era
detta
a
raschiatoio,
spesso
associata
all’utilizzo
dei
benducci,
bende
che
erano
intrecciate
tra
i
capelli,
come
testimoniato
da
alcuni
dipinti
di
Piero
della
Francesca.
Molto
usati
furono
l’hennin,
un
alto
copricapo
a
forma
di
cono,
utilizzato
principalmente
in
Francia
e a
Venezia,
e la
sella,
una
pettinatura
di
probabile
origine
francese,
che
divideva
i
capelli
in
due
ali
o
“corna”
sopraelevate,
che
avevano
una
sorta
di
castelletto
metallico
per
sorreggerle.
Più
precisamente
nell’acconciatura
detta
a
“corna”
i
capelli
erano
prima
arricciati
e
poi
sollevati
ai
lati
della
scriminatura
centrale,
prendendo
la
forma
di
una
mezzaluna
con
le
punte
in
su.
Un’altra
pettinatura
tipica
del
Rinascimento
e
attribuita
all’estro
di
Beatrice
d’Este
è il
coazzone,
una
lunga
treccia
che
univa
capelli
veri
e
posticci,
avvolti
con
nastri
e
adornati
da
perle,
che
spesso
partiva
da
una
preziosa
cuffia
gemmata.
Le
popolane
e le
anziane
usavano
coprire
la
testa
con
stoffe
di
lino,
o
cuffie,
o
turbanti
che
decoravano
da
sé
con
semplici
motivi
geometrici.
Le
fanciulle
e le
madonne
non
sposate
della
nobiltà
adornavano
i
capelli
sciolti
o le
trecce
con
fiori
freschi
o di
seta;
i
capelli
lasciati
liberi
sulle
spalle
avevano
un
grande
potenziale
di
seduzione.
Come
copricapo
erano
usati
berretti
rotondi
di
velluto,
ornati
da
penne
o
pennacchi,
e
cappelli
a
tesa
o
cappucci;
questi
ultimi
per
obbligo
di
legge.
Il
copricapo
femminile
rinascimentale
rappresenta
un
simbolo
identitario
di
genere
come
supporto
semantico
dell’apparenza,
con
effetti
religiosi
e
sociali;
secondo
le
leggi
del
tempo,
ispirate
a
una
lettera
di
San
Paolo
(1
Cor.
11,
3),
la
donna
era
obbligata
a
tenere
sempre
il
capo
coperto
in
chiesa
e
per
le
strade
cittadine.
Un
testo
di
riferimento
per
le
acconciature
dell’epoca
fu
quello
del
pittore
Giovanni
Guerra
detto
il
Modenese,
Varie
acconciature
di
teste
usate
da
nobilissime
dame
in
diuerse
cittadi
d’Italia,
con
interessanti
illustrazioni
che
riprendono
le
varie
mode
di
acconciare
i
capelli
nelle
diverse
corti
italiane
in
voga
tra
Quattrocento
e
Cinquecento,
periodo
in
cui
gli
Stati
italiani
poterono
godere
di
una
relativa
indipendenza
politica,
nonostante
le
lotte
intestine
e la
discesa
di
Carlo
VIII.
Nelle
sue
prediche
Bernardino
da
Siena
deplorava
la
moda
delle
acconciature:
“So’
anche
di
quelle
[donne]
che
fanno
più
capi
che
‘l
diavolo;
[…]
Io
veggo
tale
che
porta
il
capo
a
trippa,
chi
il
porta
a
fritella,
chi
a
taglieri,
chi
a
frappole,
chi
l’avviluppa
in
su,
chi
in
giù”.
Con
l’avvento
del
regno
di
Carlo
V e
del
figlio
Filippo
II
la
corona
spagnola
estese
il
suo
dominio
su
gran
parte
dell’Italia,
modificando
radicalmente
il
clima
culturale
delle
corti
italiane
e
introducendo
anche
nei
costumi
sobrietà
e
austerità,
che
caratterizzarono
in
seguito
la
Controriforma
e
che
portarono
in
auge
una
moda
dai
colori
scuri,
emblema
di
uno
status
sociale
e
non
espressione
del
gusto
e
dell’estro
del
singolo
individuo,
come
nel
Rinascimento.
La
libertà
delle
forme
e
dei
colori
nella
moda
fu
messa
al
bando,
come
conseguenza
della
dominazione
borbonica,
che
impose
anche
nel
costume
la
sua
supremazia,
come
un
incunabolo
di
velluto
nero
a
lutto.
Le
vesti
di
foggia
spagnola
erano
rigorosamente
nere,
con
alti
colletti,
in
una
forma
di
assoluta
e
drammatica
glorificazione
della
dinastia
regnante;
le
pettinature
divennero
allora
torreggianti,
come
quelle
à
la
fontange
e
à
hurluberlu,
che
furono
portate
ai
loro
eccessi
con
un
crescendo
di
posticci
e
artifici
nell’ultimo
quarto
del
XVII
sec.,
per
arrivare
fino
al
Settecento,
quando
le
parrucche
divennero
un
irrinunciabile
ornamento.
Lunghi
boccoli
dominati
da
toupet
che
si
elevavano
in
altezza
e si
espandevano
in
volume
erano
il
punto
migliore
d’esposizione
per
i
gioielli.
Ricordiamo
la
figura
di
Costanza
Brusati,
marchesa
Fagnani,
che
era
chiacchierata
in
tutte
le
corti
europee
alla
fine
del
XVIII
sec.
per
le
sue
esagerate
parrucche,
da
cui,
in
occasione
delle
sue
entrate
nei
salotti
e
saloni
da
ballo,
si
levavano
addirittura
uccelli
e
farfalle.
La
libertà
delle
forme
e
dei
colori
rinascimentale
ritorna
prepotentemente
ai
nostri
giorni
in
Angelo
Seminara,
considerato
uno
dei
migliori
hairdresser
contemporanei
a
livello
mondiale.
Intrapreso
il
mestiere
di
parrucchiere
come
apprendista
del
barbiere
del
suo
paese
natale
in
Calabria
all’età
di
soli
undici
anni,
approda
a
Roma
a
quindici
anni
con
un
contratto
per
Toni
&
Guy;
a
sedici
il
suo
precoce
talento
lo
porta
a
Londra,
dove
diventa,
nel
1995,
il
protegé
di
Trevor
Sorbie.
L’enfant
prodige
è
stato
tre
volte
“British
Hairdresser
of
the
year”
nel
2007,
2011
e
2012.
L’artista
delle
acconciature
femminili
rappresenta
il
punto
di
riferimento
per
tanti
hairstylist
in
tutto
il
mondo.
Maneggia
il
rasoio
o le
forbici
con
velocità
e
sicurezza,
facendo
delle
teste
delle
donne
vere
e
proprie
opere
d’arte.
Nel
2010
ha
lavorato
come
freelance
insegnando
e
facendo
sfilate
da
Parigi
a
New
York,
passando
per
Sydney
e
Tokyo,
per
divenire
dal
15
gennaio
2011
il
direttore
artistico
della
Davines,
una
ditta
fondata
a
Parma
nel
1983
dalla
famiglia
Bollati
e
che
adesso
ha
distribuisce
i
suoi
prodotti
per
capelli
su
scala
mondiale.
Le
performance
sulle
passerelle
di
moda
dell’hairdresser
nel
tempo
sono
innumerevoli
e
prestigiose;
stabile
è la
sua
collaborazione
con
lo
stilista
Eugene
Soulieman,
ma
ha
lavorato
anche
con
Burberry,
Chanel,
Dolce
&
Gabbana,
Alberta
Ferretti,
Gucci,
Hermes,
Donna
Karan,
Kenzo,
Ralph
Lauren,
MaxMara,
Moschino,
Sonia
Rykiel,
Jil
Sander,
Valentino,
Vivienne
Westwood,
Luis
Vuitton
e
molti
altri
ancora.
Le
sue
creazioni
sono
state
pubblicate
nelle
maggiori
riviste
del
settore
tra
cui
Harpers
Bazaar,
Vanity
Fair
e
Vogue.
Ha
pettinato
nel
corso
della
sua
carriera
tra
i
tanti
l’ex
Beatle
Ringo
Star
e la
cantante
inglese
Kate
Bush,
l’attrice
statunitense
Gweneth
Paltrow
e le
top
model
Naomi
Campbell,
Eva
Herzigova
e
Natalia
Vodianova.
Come
una
scultura
sul
viso
delle
donne,
soprattutto
nelle
collezioni
Fine
tresse
[Tavv.
X-XI]
e
Heroines
(Hemp),
con
foto
in
bianco
e
nero,
i
capelli
acquisiscono
fluidità;
al
tempo
stesso
intrecciati
e
svolazzanti
intorno
al
viso,
ricordano
gli
intrecci
e i
vortici
d’acqua
che
affascinavano
Leonardo
da
Vinci.
Angelo
cerca
nelle
sue
creazioni
la
natura
naturata,
come
nel
Rinascimento,
mai
la
natura
naturans.
Senza
aver
studiato
gli
artisti
del
Rinascimento
o
essersi
a
loro
ispirato,
l’estetica
delle
sue
acconciature
ricorda
in
modo
eccezionale
i
canoni
estetici
di
quell’epoca.
La
forma
dei
capelli
è
l’oggetto
di
una
storia
che
non
è
solo
storia
del
costume,
ma è
una
ricostruzione
del
linguaggio,
dell’espressività
e
delle
forme
estetiche
delle
varie
epoche.
Mai
altro
stilista
dei
capelli
è
stato
così
rinascimentale
come
Seminara,
che
ha
posto
la
natura
al
centro
della
sua
teoria
estetica
e,
sorprendentemente,
ha
avuto
un
modo
di
osservare
e
riprodurre
la
natura
simile
a
quella
che
ricercarono
gli
artisti
del
Rinascimento.
Così
ha
rovesciato
la
sua
prospettiva
e
non
è
più
la
natura
a
essere
il
mezzo
di
conoscenza
del
mondo
sensibile,
ponendosi
in
quella
categoria
di
artisti
che
non
hanno
voluto
interpretare
e
superare
i
limiti
della
materia
per
arrivare
al
sublime,
ma
hanno
voluto,
al
contrario,
comprendere
gli
stadi
della
conoscenza
della
materia
e
delle
sue
forme
per
generare
un
linguaggio
comprensibile
all’uomo.
È
per
questo
che,
l’arte
di
Seminara,
perché
di
arte
contemporanea
possiamo
parlare
guardando
le
sue
creazioni
e le
foto
che
le
immortalano,
è
capace
di
creare
quell’effetto
“naturale”,
che
tanto
piaceva
ai
committenti
rinascimentali
e
che
quegli
artisti
del
passato
si
sono
sforzati
di
ricreare.
L’effetto
che
Seminara
ottiene
è un
linguaggio
artistico
facilmente
comprensibile
all’osservatore.
La
dicotomia
Rinascimento
-
Barocco
è
come
affermare
che
le
acconciature
di
Seminara
sono
agli
antipodi
rispetto
agli
eccessi
del
francese
Charlie
Le
Mindu,
che
tratta
i
capelli
naturali
come
materiale
tessile.
I
due
acconciatori
d’alta
moda
rappresentano,
come
i
due
stili
artistici,
due
categorie
opposte
dell’arte
della
forma,
“caratterizzate
da
orientamenti
formali,
culturali
e
concettuali
in
assoluto
contrasto
tra
di
loro”.
La
prima
corrente
è
identificata
con
la
linearità
e la
semplicità
delle
forme,
mentre
la
seconda
con
la
rotondità
e l’abundantia.
Ecco
allora
il
confronto
per
Seminara
con
il
Rinascimento
e le
acconciature
dell’epoca
semplici
e
allo
stesso
tempo
sofisticate,
nel
rimando
al
naturale,
ispirato
ai
modelli
classici
dell’antichità.
Le
acconciature
del
Barocco,
come
quelle
di
Le
Mindu,
trovano
la
loro
espressione
nell’informe,
nell’esaltazione
dell’asimmetria,
la
ripetizione
ossessiva
dello
stesso
elemento,
la
meraviglia
e
l’effimero
dissolvimento,
nonché
i
colori
artefatti.
In
Seminara
invece
il
gioco
e la
ricerca,
anche
nel
colore,
sono
sempre
legati
a un
gusto
semplice
e
nostalgico
della
sua
campagna
calabrese,
con
i
caldi
colori
del
Meridione
o
della
ricerca
di
nuance
che
richiamano
alla
mente
luoghi
esotici,
dove
ancora
la
natura
è
incontaminata
e
offre
spunti
di
evasione
della
mente.
Le
foto
delle
collezioni
di
Seminara
non
generano
insoddisfazione
nelle
donne
che
le
osservano,
non
creano
aspettative
non
realistiche
di
modelli
di
bellezza
irraggiungibili
tipici
dell’industria
della
moda,
a
cui
la
maggior
parte
delle
donne
non
potrebbero
mai
ambire.
Così
la
moda
di
Seminara
non
è
autoreferenziale,
non
si
riduce
a un
autistico
rispecchiamento
di
se
stessa,
arriva
diretta
alle
donne.
La
sua
modella,
soprattutto
nelle
ultime
campagne
pubblicitarie,
non
è
impassibile
e
altera,
distaccata
e
distante,
è
piuttosto
innocente
e
spregiudicata,
bella
ma
viva;
non
a
caso
Seminara
sceglie
ragazze
peculiari
e
non
guarda
solo
alle
proporzioni
estetiche,
ma
alla
personalità
della
modella
con
cui
lavora:
aspiranti
medici,
giovani
architetti,
sportive,
la
bellezza
che
ti
capita
di
ammirare
per
la
strada
e
che
lui
scopre.
Le
sue
sperimentazioni
portano
a
riprodurre
Escher,
le
venature
del
marmo,
le
polveri
sottili
che
si
levano
in
aria
in
un
campo
di
fiori
baciato
dal
caldo
sole
del
Sud.
Giocare
con
i
colori,
creare
e
ricreare
sfumature
come
i
pittori
rinascimentali:
il
biondo
Tiziano,
il
rosso
delle
dive
degli
anni
Trenta,
la
luminosità
delle
pietre
preziose
che
i
pittori
del
Rinascimento
lavoravano
con
il
colore
per
dare
la
lucentezza
alla
tela.
Perché
il
colore
è
una
categoria
cromatica
del
linguaggio
dell’arte
che
contribuisce
a
creare
un
rapporto
sinergico
tra
linguaggio
verbale
e
visivo,
con
tutta
la
simbologia
che
accompagna
i
colori,
blu
colore
del
cielo
e
dell’acqua,
rosso
della
terra,
verde
della
natura,
giallo
del
sole,
insieme
ai
due
non
colori
il
bianco
e il
nero:
bianco
come
l’amore
platonico
del
Rinascimento,
che
contiene
in
sé
il
dolore,
la
tensione,
la
speranza,
il
ricordo
e
nero,
che
conferisce
un
senso
del
sacrificio,
tenacia
e
risolutezza,
abnegazione,
caratteristiche
del
lavoro
di
Seminara.