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N. 73 - Gennaio 2014 (CIV)

RITRATTI RINASCIMENTali

CONFRONTO CON L’HAIRDRESSINg CONTEMPORANEO
di Leila Tavi

 

“Sono sottoposte a possessione del demonio le donne e le ragazze dai bei capelli, o perché si dedicano a curare e ornare i loro capelli, o perché con i capelli desiderano, o sono solite infiammare gli uomini”. (Jacop Sprenger e Heinrich Institor Kramer, Malleus Maleficarum)

 

Proponiamo in questo numero di InStoria un tema che è stato oggetto di una relazione al convegno internazionale sul genio italiano organizzato dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Statale russa di Chelyabinsk nel mese di maggio 2013.

 

Il Rinascimento celebrò nelle arti la riscoperta della centralità dell’uomo. Alla figura maschile fu affiancata quella femminile, non più solo come puro ideale di bellezza, ma come rappresentazione della personalità, esaltata dal ritratto.

 

Il ritratto non fu più nel Rinascimento prerogativa dell’aristocrazia, ma “stutus symbol” anche dell’alta borghesia, la nuova classe. Del ritratto sia i nobili che i borghesi riscoprirono la funzione sociale, in aggiunta a quella commemorativa.

 

La ritrattistica rinascimentale è un pregevole esempio del genio italiano, sia per l’originalità e l’accuratezza con cui maestri affermati e pittori minori hanno immortalato i prominenti dell’epoca, sia per la notorietà del signore o della dama raffigurati nei ritratti. Il ritratto può essere annoverato tra i più diffusi e importanti generi dell’epoca; estinto nei secoli dopo la caduta dell’Impero Romano, la sua “rinascita” iniziò nei primi anni del XIV sec., quando le figure storiche e i notabili furono rappresentati con una certa frequenza.

 

All’inizio del Rinascimento non furono, in verità, i volti degli individui a essere rappresentati, ma fu privilegiata piuttosto una tipizzazione dei caratteri umani: il vecchio, l’affascinante, il brutto,… È solo alla metà del XV sec. che gli artisti cominciarono, in forma quasi schematizzata e idealizzata, a porre attenzione ai tratti somatici e peculiari del soggetto del loro ritratto, riprendendo lentamente una tradizione dell’arte romana antica.

 

Il ritratto tornò quindi in auge, come riscoperta dell’unicità e del valore dell’individuo umano. Quasi nulla è noto riguardo all’uso che fu fatto dei primi ritratti rinascimentali; erano sicuramente esposti nelle dimore, molto probabilmente ancora con una funzione commemorativa, in ricordo di defunti. Dipinti solo alla morte del committente, dovevano preservare nella memoria il volto del caro scomparso.

 

I primi ritratti di scuola fiorentina sono severe ed enigmatiche raffigurazioni di profilo, la cui visione del soggetto vis à vis è preclusa all’osservatore di oggi, che perde così i dettagli dello sguardo, senza poter intuire la personalità o l’umore del raffigurato. I capelli sono un elemento che cattura la nostra attenzione, nell’accuratezza dell’acconciatura, in risalto rispetto alle vesti, di cui vediamo solo il particolare che copre le spalle.

 

Nel Rinascimento l’ammirazione per il bello si rifaceva ai canoni estetici classici, come la perfezione e l’armonia, ma non fu più l’essenziale linearità di un corpo atletico a essere ricercata; le imperfette e rotonde forme erano, infatti, nascoste da ampi broccati e velluti provenienti dall’Oriente, mentre il viso, e di conseguenza la capigliatura come suo ornamento, divennero oggetto di una maniacale attenzione da parte sia delle donne che degli uomini.

 

Con un nuovo ideale di bellezza femminile, il volto rappresentò nel Rinascimento un segno esteriore dell’anima. I nuovi canoni della bellezza furono il compromesso tra l’irraggiungibile ideale classico e la morale religiosa medievale, con una funzione mediatrice dell’arte.

 

Il ritratto femminile nel Rinascimento non commemora, ovviamente, gesta o vittorie, ma immortala un momento significativo della vita di una donna ammirata e stimata, dei suoi tratti peculiari, di un suo modo di essere, di abbigliarsi e di pettinarsi, a cui le altre donne della corte si rifacevano o prendevano ispirazione.

 

Nonostante la rappresentazione della donna nei ritratti di profilo dovesse riprodurre un modello di moglie fedele e devota, eterea e austera allo stesso tempo, un osservatore attento di oggi nota dallo sguardo fisso verso un infinito lontano e irraggiungibile, dalla contrazione dei muscoli del collo, la sofferenza e la sottomissione a cui le donne erano costrette.

                                       

L’educazione femminile fu una delle innovazioni sociali del Rinascimento; le figlie dei nobili trascorrevano l’infanzia in convento fino ai dodici anni, età da marito; quando iniziavano la loro formazione per diventare una moglie “perfetta”, che doveva racchiudere in sé doti quali la discrezione, la modestia e l’onestà.

 

Pur essendo alle donne preclusa una vera e propria possibilità di “rivoluzione” culturale nel pensiero e nello stile di vita, a causa delle privazioni sociali e delle restrizioni alla libertà personale che subivano da parte della famiglia e delle autorità, molte nobildonne non accettarono passivamente il loro ruolo di sottomesse, ma iniziarono a studiare le scienze e le arti, ottenendo il riconoscimento e l’ammirazione degli uomini.

 

Era in voga in quel tempo l’amore platonico, come quello di Lorenzo il Magnifico per Lucrezia Donati, in grado, a detta del Signore di Firenze, di trasformare e purificare la sua anima di uomo peccaminoso. Secondo Marsilio Ficino l’amore rappresentava uno dei quattro furori dell’anima, accessibile nel mondo materiale attraverso la percezione della bellezza.

 

Il ritratto rinascimentale con il passare del tempo si adeguò al mutare della filosofia, che interpretò il motto dell’essere umano al centro dell’universo, come perno della vita sociale e politica delle città. Tale adeguamento dell’ideale rinascimentale alle esigenze economiche di un’Italia delle corti, frammentata politicamente, ma unita da un inconfondibile gusto artistico, lo ritroviamo anche nel ritratto.

 

Nella rappresentazione pittorica l’occhio smette di essere la ieratica rappresentazione di un simbolo lineare e diventa, attraverso una visione frontale, il riflesso della personalità dell’individuo; la bocca smette di essere un segmento indifferenziato della texture del viso per diventare un’area sensibile e in primo piano, che attraverso la contrazione e la rilassatezza dei muscoli delle labbra è veicolo di mille risposte e di mille misteri.

 

Nella Gioconda di Leonardo, per esempio, il naso smette di essere il punto che divide il viso in due emisferi. L’osservatore riesce perfino a percepire come respira e annusa in quell’aria che, con la pittura Rinascimentale, trova il suo spazio nella composizione pittorica, riconoscibile nel punto di fuga del paesaggio in secondo piano.

 

Se la Gioconda è la rappresentazione femminile del Rinascimento per eccellenza agli occhi di un nostro contemporaneo, la donna più venerata e rappresentata dell’epoca fu Simonetta Cattaneo Vespucci, la prima top model della storia e amore platonico di Giuliano de’ Medici.

 

Ricordata come una delle più affascinanti dame del primo Rinascimento fiorentino, di origine genovese, sposò Marco Vespucci, nipote del famoso navigatore Amerigo. Ottenne il soprannome di “Regina di bellezza” in occasione della Giostra del 1475, che fu vinta da Giuliano, fratello miniore di Lorenzo il Magnifico.

 

Giuliano e Simonetta divennero amanti, ma la loro struggente storia ebbe presto fine, a causa della polmonite fulminante che fu la causa della morte della ragazza a soli ventidue anni, nel 1476. Maestri quali Sandro Botticelli, che ne fece la sua musa ispiratrice per la Primavera e la Nascita di Venere, o Piero di Cosimo e Angelo Poliziano la ritrassero esaltandone il fascino e la grazia, che fecero di lei una vera e propria diva del tempo.

 

Gli artisti non lavoravano però solo con le muse ispiratrici; quando avevano a che fare con committenti pretenziosi, erano i “clienti” stessi a fornire indicazioni e suggerimenti agli artisti su come essere ritratti, per ottenere un effetto “al naturale”, il più verosimile possibile.

 

In controtendenza rispetto alla tipizzazione dei visi di stampo classico, anche un vistoso difetto serviva a connotare immediatamente la persona ritratta, proprio per quella sua caratteristica unica e peculiare, come nel doge Francesco Venier di Tiziano, con la sua inconfondibile couperose. Una verosimiglianza che doveva, per convenzione, essere presentata come un’ideale “guise”.

 

Se in precedenza furono i canoni estetici a giudicare la qualità dell’arte e, di conseguenza, l’ideale di bellezza, nella dialettica rinascimentale il nuovo canone era “contrattato” tra l’artista, estimatori delle proporzioni classiche, e colui o colei in posa, influenzati dalle convenzioni sociali.

          

Ancora più della pittura la scultura rinascimentale riprese la tradizione romana per quanto riguarda la ritrattistica. I visi scolpiti dal veneziano Tullio Lombardo non sono, infatti, idealizzati, come nei primi ritratti pittorici rinascimentali fiorentini, ma rappresentano degli ideali che sono espressione della verosimiglianza rinascimentale, anche se non necessariamente legata alla contemporaneità del soggetto.

 

Lo scultore rinascimentale spesso trovava la sua forma espressiva in un’opera d’arte concepita per stupire un pubblico, che conosceva e giudicava tutti i tratti somatici e caratteriali della personalità raffigurata.

 

In Lombardo, invece, ritroviamo un’ambiguità temporale quasi shakespeariana, dove l’emulazione della scultura antica si fonde all’utilizzo di particolari moderni nei costumi e nelle pettinature, che contrastano con l’identità antica che riconosciamo nei drappeggi delle vesti e nella nudità, se pur allusivamente erotica.

 

Una combinazione di bellezza sensuale e di espressioni misteriose caratterizza la scultura di Lombardo, i cui soggetti sono raffigurati con labbra socchiuse e sguardi inquieti, fatti di occhi intrigantemente spalancati, che provocano nell’osservatore il desiderio ardente di qualcosa che è fuori dalla sua portata, qualcosa di lontano nello spazio e nel tempo, il mondo antico.

 

Lombardo riesce nel tentativo di creare qualcosa di originale e alla moda allo stesso tempo, attraverso l’esaltazione dei canoni estetici dell’epoca classica, con figure che sembrano presenti fisicamente e distanti spiritualmente. Nella fusione dei due ideali di bello, quello antico e quello moderno, Lombardo elabora un canone universale, da utilizzare sia per le committenze private che per opere destinate alla pubblica contemplazione, dove la scultura diventa indipendente e centrale, piuttosto che decorativa.

 

Lombardo e i suoi seguaci produssero immagini ideali che richiamano alla mente l’ambiguità di Giorgione, apprezzate da conoscitori dell’epoca, estimatori ancor prima che dell’arte di monete e di gemme antiche.

 

I busti del Lombardo furono per l’epoca la sintesi perfetta di tutte le qualità fisiche e morali che erano richieste ai giovani dalle convenzioni sociali di allora e non furono mai, come nel caso del ritratto del doge Venier, la rappresentazione di una personalità in particolare. È come se l’osservatore fosse improvvisamente catapultato nel mondo antico e allo stesso tempo in quello fantastico della fanciullezza, dove la contemplazione di un’anonima bellezza, è privilegiata all’osannata esaltazione della verosimiglianza del contemporaneo.

 

Oltre a essere il fulcro del ritratto, la testa è sempre stata un elemento chiave nella storia del costume rinascimentale italiano, quando la moda era considerata un vero e proprio “instrumentum regnii” per il forte potere comunicativo, così le acconciature erano eleganti e curate, senza però emulare la stravaganza delle corti del Nord Europa, con un’attenzione invece all’armonia, piuttosto che allo sfarzo.

 

In Italia, come confermato dalla ritrattistica, non s’importò la moda degli alti copricapo a corna, a pinnacolo o a cuspide, che si ritrovano nei ritratti di borghesi della pittura fiamminga del periodo. L’attenzione e la cura erano riservate ai capelli, che diventarono un vero e proprio status sociale.

 

Solo le cortigiane di basso rango lasciavano i capelli sciolti sulle spalle; erano chiamate “da candela”, o ancora “da lume” o “da gelosia”, perché la loro prestazione durava il tempo che occorreva a una candela per consumarsi. Durante i banchetti di corte erano le cortigiane più belle a servire a tavola, seminude e con i capelli sciolti come le spose alla prima notte di nozze.

 

Le cortigiane “honorate” erano invece donne colte, che suonavano il liuto, componevano versi, si sapevano comportare a corte e portavano sempre i capelli raccolti, in segno di distinzione e raffinatezza.

 

Tra le donne della nobiltà e dell’alta borghesia solo alle giovani donne da marito era concesso lasciare sciolte le folte chiome, mentre le signore preferivano acconciature con i capelli abilmente pettinati, intrecciati o raccolti, tra cui, spesso erano applicati fili e reticelle di perle insieme a qualche rubino; Lucrezia Borgia amava raccogliere le sue folte chiome bionde in reticelle di perle, mentre Isabelle d’Este inanellava i capelli a schiacciole e calmistri.

 

Esistevano poi le pettinature a cincinni, a cercine e a capigliara, un copricapo a parrucca che raccoglieva i capelli in modo da farli rimanere in vista sulla fronte e sulle tempie, secondo una moda veneziana lanciata nelle corti italiane da Isabella d’Este.

 

Il colore dei capelli doveva essere rigorosamente chiaro, biondo o ramato, per completare un look che doveva dare alla donna quell’aspetto di dea con la pelle rigorosamente bianca e le labbra e le guance rosse.

 

Per tingere i capelli di biondo erano utilizzate sostanze chimiche come l’allume, zolfo e soda, uniti al rabarbaro, attraverso un procedimento simile a quello per la tintura delle stoffe; un’altra tecnica era quella di esporsi per lunghi periodi al sole con un impacco di camomilla o limone; diffuse erano ancora tinture a base di fiori di lupino o zafferano. Inoltre furono sperimentate una serie di procedure per preservare la salute dei capelli, attraverso lozioni a base di olio di rosmarino, camomilla e timo e infusi di malva, trifoglio e prezzemolo.

 

Per quanto riguarda i gioielli che ornavano il capo, vogliamo ricordare la resilla, una retina fatta di perle e la ferronière o lenza, o più semplicemente ancora nastro, un gioiello da capo di delicata manifattura, che era utilizzato per ornare la fronte, oltre che tenere in ordine la pettinatura, ed era formato da una sottile catena di metallo o nastro di stoffa con una gemma al centro. Il nome deriva dal dipinto di Leonardo in cui dovrebbe essere raffigurata Lucrezia Crivelli.

 

Un’acconciatura che si diffuse intorno alla metà del XV sec. è il balzo, originario di Firenze, che presentava una forma rotondeggiante ed era fatto con tessuti preziosi avvolti a mo’ di turbante, oppure con capelli disposti verso l’alto, come a formare un’aureola, tipica di molti ritratti eseguiti da Pisanello.

 

Una variante del balzo, anche se più piatta, era la ghirlanda di penne di pavone, che aveva dato il nome a un mestiere in voga a Firenze, il ghirlandaio, da cui deriva il soprannome del famoso pittore.

 

Accompagnata alla moda di slanciare il capo con acconciature alte era l’usanza di rasare la fronte e le sopracciglia, come segno di alta intelligenza; tale tecnica era detta a raschiatoio, spesso associata all’utilizzo dei benducci, bende che erano intrecciate tra i capelli, come testimoniato da alcuni dipinti di Piero della Francesca.

 

Molto usati furono l’hennin, un alto copricapo a forma di cono, utilizzato principalmente in Francia e a Venezia, e la sella, una pettinatura di probabile origine francese, che divideva i capelli in due ali o “corna” sopraelevate, che avevano una sorta di castelletto metallico per sorreggerle. Più precisamente nell’acconciatura detta a “corna” i capelli erano prima arricciati e poi sollevati ai lati della scriminatura centrale, prendendo la forma di una mezzaluna con le punte in su.

 

Un’altra pettinatura tipica del Rinascimento e attribuita all’estro di Beatrice d’Este è il coazzone, una lunga treccia che univa capelli veri e posticci, avvolti con nastri e adornati da perle, che spesso partiva da una preziosa cuffia gemmata. Le popolane e le anziane usavano coprire la testa con stoffe di lino, o cuffie, o turbanti che decoravano da sé con semplici motivi geometrici.

 

Le fanciulle e le madonne non sposate della nobiltà adornavano i capelli sciolti o le trecce con fiori freschi o di seta; i capelli lasciati liberi sulle spalle avevano un grande potenziale di seduzione. Come copricapo erano usati berretti rotondi di velluto, ornati da penne o pennacchi, e cappelli a tesa o cappucci; questi ultimi per obbligo di legge.

 

Il copricapo femminile rinascimentale rappresenta un simbolo identitario di genere come supporto semantico dell’apparenza, con effetti religiosi e sociali; secondo le leggi del tempo, ispirate a una lettera di San Paolo (1 Cor. 11, 3), la donna era obbligata a tenere sempre il capo coperto in chiesa e per le strade cittadine.

 

Un testo di riferimento per le acconciature dell’epoca fu quello del pittore Giovanni Guerra detto il Modenese, Varie acconciature di teste usate da nobilissime dame in diuerse cittadi d’Italia, con interessanti illustrazioni che riprendono le varie mode di acconciare i capelli nelle diverse corti italiane in voga tra Quattrocento e Cinquecento, periodo in cui gli Stati italiani poterono godere di una relativa indipendenza politica, nonostante le lotte intestine e la discesa di Carlo VIII.

 

Nelle sue prediche Bernardino da Siena deplorava la moda delle acconciature: “So’ anche di quelle [donne] che fanno più capi che ‘l diavolo; […] Io veggo tale che porta il capo a trippa, chi il porta a fritella, chi a taglieri, chi a frappole, chi l’avviluppa in su, chi in giù”.

 

Con l’avvento del regno di Carlo V e del figlio Filippo II la corona spagnola estese il suo dominio su gran parte dell’Italia, modificando radicalmente il clima culturale delle corti italiane e introducendo anche nei costumi sobrietà e austerità, che caratterizzarono in seguito la Controriforma e che portarono in auge una moda dai colori scuri, emblema di uno status sociale e non espressione del gusto e dell’estro del singolo individuo, come nel Rinascimento.

 

La libertà delle forme e dei colori nella moda fu messa al bando, come conseguenza della dominazione borbonica, che impose anche nel costume la sua supremazia, come un incunabolo di velluto nero a lutto.

 

Le vesti di foggia spagnola erano rigorosamente nere, con alti colletti, in una forma di assoluta e drammatica glorificazione della dinastia regnante; le pettinature divennero allora torreggianti, come quelle à la fontange e à hurluberlu, che furono portate ai loro eccessi con un crescendo di posticci e artifici nell’ultimo quarto del XVII sec., per arrivare fino al Settecento, quando le parrucche divennero un irrinunciabile ornamento.

 

Lunghi boccoli dominati da toupet che si elevavano in altezza e si espandevano in volume erano il punto migliore d’esposizione per i gioielli. Ricordiamo la figura di Costanza Brusati, marchesa Fagnani, che era chiacchierata in tutte le corti europee alla fine del XVIII sec. per le sue esagerate parrucche, da cui, in occasione delle sue entrate nei salotti e saloni da ballo, si levavano addirittura uccelli e farfalle.

 

La libertà delle forme e dei colori rinascimentale ritorna prepotentemente ai nostri giorni in Angelo Seminara, considerato uno dei migliori hairdresser contemporanei a livello mondiale.

 

Intrapreso il mestiere di parrucchiere come apprendista del barbiere del suo paese natale in Calabria all’età di soli undici anni, approda a Roma a quindici anni con un contratto per Toni & Guy; a sedici il suo precoce talento lo porta a Londra, dove diventa, nel 1995, il protegé di Trevor Sorbie. L’enfant prodige è stato tre volte “British Hairdresser of the year” nel 2007, 2011 e 2012.

 

L’artista delle acconciature femminili rappresenta il punto di riferimento per tanti hairstylist in tutto il mondo. Maneggia il rasoio o le forbici con velocità e sicurezza, facendo delle teste delle donne vere e proprie opere d’arte. Nel 2010 ha lavorato come freelance insegnando e facendo sfilate da Parigi a New York, passando per Sydney e Tokyo, per divenire dal 15 gennaio 2011 il direttore artistico della Davines, una ditta fondata a Parma nel 1983 dalla famiglia Bollati e che adesso ha distribuisce i suoi prodotti per capelli su scala mondiale.

 

Le performance sulle passerelle di moda dell’hairdresser nel tempo sono innumerevoli e prestigiose; stabile è la sua collaborazione con lo stilista Eugene Soulieman, ma ha lavorato anche con Burberry, Chanel, Dolce & Gabbana, Alberta Ferretti, Gucci, Hermes, Donna Karan, Kenzo, Ralph Lauren, MaxMara, Moschino, Sonia Rykiel, Jil Sander, Valentino, Vivienne Westwood, Luis Vuitton e molti altri ancora. Le sue creazioni sono state pubblicate nelle maggiori riviste del settore tra cui Harpers Bazaar, Vanity Fair e Vogue. Ha pettinato nel corso della sua carriera tra i tanti l’ex Beatle Ringo Star e la cantante inglese Kate Bush, l’attrice statunitense Gweneth Paltrow e le top model Naomi Campbell, Eva Herzigova e Natalia Vodianova.

 

Come una scultura sul viso delle donne, soprattutto nelle collezioni Fine tresse [Tavv. X-XI] e Heroines (Hemp), con foto in bianco e nero, i capelli acquisiscono fluidità; al tempo stesso intrecciati e svolazzanti intorno al viso, ricordano gli intrecci e i vortici d’acqua che affascinavano Leonardo da Vinci.

 

Angelo cerca nelle sue creazioni la natura naturata, come nel Rinascimento, mai la natura naturans. Senza aver studiato gli artisti del Rinascimento o essersi a loro ispirato, l’estetica delle sue acconciature ricorda in modo eccezionale i canoni estetici di quell’epoca.

 

La forma dei capelli è l’oggetto di una storia che non è solo storia del costume, ma è una ricostruzione del linguaggio, dell’espressività e delle forme estetiche delle varie epoche. Mai altro stilista dei capelli è stato così rinascimentale come Seminara, che ha posto la natura al centro della sua teoria estetica e, sorprendentemente, ha avuto un modo di osservare e riprodurre la natura simile a quella che ricercarono gli artisti del Rinascimento.

 

Così ha rovesciato la sua prospettiva e non è più la natura a essere il mezzo di conoscenza del mondo sensibile, ponendosi in quella categoria di artisti che non hanno voluto interpretare e superare i limiti della materia per arrivare al sublime, ma hanno voluto, al contrario, comprendere gli stadi della conoscenza della materia e delle sue forme per generare un linguaggio comprensibile all’uomo.

 

È per questo che, l’arte di Seminara, perché di arte contemporanea possiamo parlare guardando le sue creazioni e le foto che le immortalano, è capace di creare quell’effetto “naturale”, che tanto piaceva ai committenti rinascimentali e che quegli artisti del passato si sono sforzati di ricreare. L’effetto che Seminara ottiene è un linguaggio artistico facilmente comprensibile all’osservatore.

 

La dicotomia Rinascimento - Barocco è come affermare che le acconciature di Seminara sono agli antipodi rispetto agli eccessi del francese Charlie Le Mindu, che tratta i capelli naturali come materiale tessile. I due acconciatori d’alta moda rappresentano, come i due stili artistici, due categorie opposte dell’arte della forma, “caratterizzate da orientamenti formali, culturali e concettuali in assoluto contrasto tra di loro”. La prima corrente è identificata con la linearità e la semplicità delle forme, mentre la seconda con la rotondità e l’abundantia. Ecco allora il confronto per Seminara con il Rinascimento e le acconciature dell’epoca semplici e allo stesso tempo sofisticate, nel rimando al naturale, ispirato ai modelli classici dell’antichità.

 

Le acconciature del Barocco, come quelle di Le Mindu, trovano la loro espressione nell’informe, nell’esaltazione dell’asimmetria, la ripetizione ossessiva dello stesso elemento, la meraviglia e l’effimero dissolvimento, nonché i colori artefatti.

 

In Seminara invece il gioco e la ricerca, anche nel colore, sono sempre legati a un gusto semplice e nostalgico della sua campagna calabrese, con i caldi colori del Meridione o della ricerca di nuance che richiamano alla mente luoghi esotici, dove ancora la natura è incontaminata e offre spunti di evasione della mente.

 

Le foto delle collezioni di Seminara non generano insoddisfazione nelle donne che le osservano, non creano aspettative non realistiche di modelli di bellezza irraggiungibili tipici dell’industria della moda, a cui la maggior parte delle donne non potrebbero mai ambire.

 

Così la moda di Seminara non è autoreferenziale, non si riduce a un autistico rispecchiamento di se stessa, arriva diretta alle donne. La sua modella, soprattutto nelle ultime campagne pubblicitarie, non è impassibile e altera, distaccata e distante, è piuttosto innocente e spregiudicata, bella ma viva; non a caso Seminara sceglie ragazze peculiari e non guarda solo alle proporzioni estetiche, ma alla personalità della modella con cui lavora: aspiranti medici, giovani architetti, sportive, la bellezza che ti capita di ammirare per la strada e che lui scopre.

 

Le sue sperimentazioni portano a riprodurre Escher, le venature del marmo, le polveri sottili che si levano in aria in un campo di fiori baciato dal caldo sole del Sud. Giocare con i colori, creare e ricreare sfumature come i pittori rinascimentali: il biondo Tiziano, il rosso delle dive degli anni Trenta, la luminosità delle pietre preziose che i pittori del Rinascimento lavoravano con il colore per dare la lucentezza alla tela.

 

Perché il colore è una categoria cromatica del linguaggio dell’arte che contribuisce a creare un rapporto sinergico tra linguaggio verbale e visivo, con tutta la simbologia che accompagna i colori, blu colore del cielo e dell’acqua, rosso della terra, verde della natura, giallo del sole, insieme ai due non colori il bianco e il nero: bianco come l’amore platonico del Rinascimento, che contiene in sé il dolore, la tensione, la speranza, il ricordo e nero, che conferisce un senso del sacrificio, tenacia e risolutezza, abnegazione, caratteristiche del lavoro di Seminara.



 

 

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