N. 41 - Maggio 2011
(LXXII)
habemus papam
invito all'umiltà
di Giovanna D’Arbitrio
Chi si aspetta una satira sferzante sul
Papato
senza
dubbio
rimarrà
deluso,
o
quanto
meno
sorpreso,
nel
vedere
l’ultimo
film
di
Nanni
Moretti,
una
sorta
di
commedia
surreale
sul
tema
della
fragilità
umana
di
fronte
a
scelte
che
implicano
enormi
responsabilità.
“Habemus Papam” (che sarà presentato al
prossimo
Festival
di
Cannes),
inizia
con
i
funerali
di
Giovanni
Paolo
II
seguiti
dal
fantasioso
racconto
dell’
elezione
del
nuovo
papa.
Sotto la volta della Cappella Sistina i
cardinali
si
apprestano
ad
eleggere
il
pontefice
senza
alcun
sentimento
di
competizione,
anzi
invocano
Dio
per
non
essere
scelti,
dicendo
“Signore,
ti
prego,
non
io”.
Alla fine, dopo due fumate nere, dalle
schede
emerge
il
nome
inatteso
del
cardinale
Melville
(Michel
Piccoli)
che
tuttavia,
nel
momento
cruciale
della
sua
presentazione
ai
fedeli
che
affollano
Piazza
S.
Pietro,
viene
preso
da
un
attacco
di
panico
e
rifiuta
di
mostrarsi
sul
balcone
sentendosi
inadeguato
a
ricoprire
l’importante
incarico.
Viene convocato in fretta uno strano psicologo,
il
dott.
Branzi
ritenuto
il
più
bravo
di
Roma
(Nanni
Moretti),
che
purtroppo
non
riesce
a
placare
i
suoi
timori,
ma
gli
parla
di
sua
moglie,
anch’ella
psicologa,
ossessionata
dalla
teoria
del
“
deficit
di
accudimento”
nei
primi
tre
anni
di
vita,
causa
di
depressione
e di
altri
disturbi
psichici.
Melville allora fugge e cerca di farsi
curare
dalla
donna
(Margherita
Buy),
ma
non
trovando
le
risposte
giuste
vaga
per
la
città,
riflette,
si
mescola
alla
gente
comune,
incontra
una
compagnia
di
attori
e li
segue
affascinato
in
teatro,
pensando
alla
sua
gioventù
quando
sognava
di
diventare
attore.
Viene ritrovato e ricondotto in Vaticano,
appare
finalmente
sul
balcone,
affronta
la
folla
e
con
sincerità
confessa
timori
e
senso
di
inadeguatezza.
Senz’altro il film presenta un Vaticano
anomalo:
cardinali
che
nell’attesa
delle
decisioni
del
neoeletto
giocano
a
scopone
scientifico,
partecipano
a un
torneo
di
pallavolo,
leggono
Grisham,
usano
la
cyclette,
prendono
psicofarmaci
per
dormire,
insomma
in
fondo
esseri
umani
normali
con
tante
debolezze,
ma
non
certo
ossessionati
dalla
brama
di
potere
temporale.
Alla fine suscitano nello spettatore solo
qualche
sorriso
e
tanta
simpatia,
come
lo
stesso
Melville
col
suo
sguardo
tormentato
e il
sorriso
innocente,
umile,
che
ci
fa
venire
in
mente
Papa
Wojtyla.
Buonismo di Moretti oppure sottile ironia
che
comunque
vuol
colpire
per
contrapposizione
fasto,
pompa
magna,
orgoglio
e
pregiudizi?
Ecco forse è proprio questo il messaggio
che
ci
viene
da
questo
film
un
po’
pazzo
e
così
surreale,
così
lontano
dalla
realtà
da
non
poter
essere
considerato
blasfemo:
solo
“un
invito
all’
umiltà”
attraverso
il
riconoscimento
dei
limiti
e
delle
fragilità
umane,
davanti
alle
quali
anche
religione
e
psicologia
talvolta
si
rivelano
poco
efficaci.
C’è una scena del film in cui Melville si
rifugia
in
una
chiesa
e un
semplice
prete
nella
sua
omelia,
parlando
dei
grandi
mutamenti
epocali
che
ci
travolgono,
afferma
che
tutti
dovremmo
riflettere
e
ritrovare
un
po’
di
umiltà
di
fronte
ai
recenti
drammatici
eventi.
In effetti a distanza di anni, Moretti
torna
in
qualche
modo
sullo
stesso
tema
già
in
parte
espresso
in
“La
Messa
è
finita”
(1985)
in
cui
un
giovane
prete,
don
Giulio,
abbandona
deluso
la
sua
parrocchia
romana
per
diventare
missionario
in
Patagonia
seguendo
l’esempio
di
un
frate
“francescano”,
per
recuperare
la
sua
fede
nel
sacerdozio
a
contatto
con
gente
semplice
e
povera.