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N. 148 - Aprile 2020 (CLXXIX)

L’afono appello di Guterres

I conflitti non conoscono pausa

di Gian Marco Boellisi

 

In questi tempi di pandemia globale, sono innumerevoli le attività umane che hanno conosciuto uno stop repentino e improvviso. A causa delle direttive emanate dai singoli governi o per il senso civico dei cittadini all’interno degli Stati, molti ambiti della convivenza nazionale e internazionale sono stati completamente rivisti alla luce della preoccupante epidemia di Covid-19 ormai dilagante in tutto il globo. Nonostante ciò, l’unica attività umana che sembra non aver conosciuto alcuna interruzione o pausa è la guerra. Compiendo un rapido giro del globo, si può notare infatti come esso sia ancora oggi costellato da un grande numero di conflitti tra le più disparate parti coinvolte e per le più diverse ragioni.

 

Proprio allo scopo di evitare una tragedia nella tragedia, ovvero di aggravare il numero di vittime della pandemia anche in aree già interessate dalle violenze dei conflitti armati, il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres ha lanciato un appello per un immediato cessate il fuoco per tutti i conflitti attualmente in corso. Tale richiesta tuttavia non è stata presa in considerazione da molte parti belligeranti. Per questo motivo è interessante analizzare alcuni tra i maggiori conflitti presenti attualmente nel globo e comprendere quale potrebbe essere l’influenza del Covid-19 nel loro esito.

 

Partiamo da un’overview generale. Attualmente nel mondo sono presenti tra i 30 e i 50 conflitti armati, a seconda delle diverse classificazioni delle ostilità, ognuno di essi caratterizzato da una certa intensità e durata. Molti di essi rientrano in quadri di tensione regionali ben più ampi e coinvolgono attori esterni che cercano di espandere la propria influenza al di fuori dei confini nazionali. Insomma, una storia vecchia come il mondo. Questa situazione di tensione generale è stata definita da alcuni analisti come una “guerra mondiale a pezzi”, considerando l’elevato numero di conflitti per procura che vede collidere interessi diametralmente opposti e spesso inconciliabili.

 

In Africa, continente sconquassato ormai da tempo immemore da un elevato numero di conflitti di media e alta intensità, la proposta di Guterres non ha riscontrato un grande successo. Nell’ambito della lotta al gruppo terroristico Boko Haram, qualche settimana fa si sono registrate più di 100 vittime tra le truppe regolari dell’esercito del Ciad in un attacco a sorpresa nelle vicinanze dei confini nigeriani. Oltre alle perdite di vite umane, più di 24 veicoli militari sarebbero stati distrutti e svariati depositi di armi sarebbero stati svuotati dal gruppo terroristico. Il tutto rientra perfettamente nella strategia del gruppo, ormai annoverato tra i più sanguinosi del mondo, atta ad aumentare la tensione lungo i confini di Nigeria-Ciad-Niger-Mali, in modo da coinvolgere sempre maggiormente truppe regolari e portare il conflitto a una situazione insostenibile per i rispettivi governi centrali.

 

In Mali la situazione non sembra essere migliorata nell’ultimo periodo. Portato allo sfinimento dalle eterne lotte politico-religiose tra il governo centrale presente nel sud del paese e le forze ribelli presenti nel nord, il Mali sta affrontando una delle crisi umanitarie più gravi degli ultimi decenni. Recentemente la Francia e diversi suoi alleati hanno istituito una nuova task force chiamata Takuba, la quale avrà il compito di combattere i gruppi armati ribelli e islamisti nella regione del Sahel insieme agli eserciti regolari di Mali e Niger. Essa opererà nella regione di Liptako, tra Burkina Faso, Niger e Mali essendo qui residenti svariati gruppi armati estremisti. Ad oggi, nonostante la pandemia, lo scenario di conflitto del Mali non risulta essersi attenuato neanche un po’.

 

Una nota positiva invece spetta alla situazione in Camerun, dove le forze separatiste anglofone del Southern Cameroons defence forces (Socadef) hanno deciso di interrompere le ostilità per 14 giorni così da permettere alle autorità del governo centrale di Paul Biya di effettuare i test per il Covid-19. Per quanto sia un segnale decisamente positivo rispetto alla richiesta fatta da Guterres, gli altri gruppi ribelli non hanno mostrato un tale spirito conciliatorio e attualmente si attende ancora una dichiarazione da parte loro.

 

Nonostante questa temporanea tregua, è importante sottolineare che nessuna delle parti in conflitto ha abbandonato le proprie posizioni strategiche. La guerra in Camerun, per quanto invisibile agli occhi dei grandi media, sta lentamente devastando il paese da quando le provincie anglofone nel nord-ovest e sud-ovest hanno iniziato una strenua battaglia per la propria indipendenza, portando a quelli che sono secondo alcune stime 30mila morti e 700mila sfollati.

 

In Somalia, analogamente a quanto visto in Nigeria, il conflitto tra le forze del gruppo terroristico di Al-Shabaab e il governo centrale non sembra arrestarsi minimamente neanche di fronte alla pandemia globale. È solo notizia dei primi giorni di aprile dell’uccisione di un importante leader del movimento terroristico da parte di un drone statunitense. Dall’altro lato, gli attacchi dinamitardi nonché gli assalti armati perpetrati dal gruppo armato non sembrano avere interruzione nonostante la presenza del Covid-19 in maniera sempre più importante in Africa.

 

Un aspetto singolare di questo conflitto ormai in corso da svariati anni è l’elevato numero di vittime civili, causato sia dai vili attacchi di Al-Shabaab sia dai droni statunitensi che colpiscono cosiddetti “obiettivi strategici” senza curarsi di eventuali danni collaterali. Per quanto il Covid-19 sia presente anche in quest’area del globo, sarà estremamente difficile assistere a un abbassamento dell’intensità del conflitto.

 

Come ultimo scenario d’analisi per il continente africano come non poter parlare della Libia, paese dilaniato da una guerra civile senza una prospettiva di risoluzione ormai da quasi 10 anni. Nonostante la richiesta globale di Guterres e i vari cessate il fuoco proclamati ripetutamente da entrambe le parti in conflitto, gli scontri tra le due fazioni continuano a insanguinare senza sosta le coste del Mediterraneo, coinvolgendo sempre più profondamente anche attori esterni. Sono stati infatti testimoniati nelle scorse settimane voli sospetti provenienti da Istanbul e diretti a Tripoli e Misurata, come anche altri voli provenienti da Damasco e diretti a Bengasi, Al Abraq e Tobruk.

 

Le due parti in conflitto, sfruttando la tregua temporanea siglata circa un mese fa, hanno cercato di far affluire armi e uomini dai rispettivi sponsor internazionali, ovvero Turchia e Siria. Alcuni osservatori internazionali hanno anche segnalato, con tutti i benefici del dubbio del caso, l’afflusso di mercenari russi e sudanesi nei ranghi del generale Haftar e di mercenari siriani arruolati dalla Turchia nelle fila del presidente Al-Sarraj. Tutti questi segnali portano a dedurre che gli scontri e le violenze sono ben lontane dal fermarsi, anzi tutto il contrario. Le parti in conflitto stanno sfruttando questo stop temporaneo dell’attenzione globale verso le loro coste per lanciare le rispettive controffensive in modo da mettere al sicuro i propri obiettivi strategici. Proprio per questa mancanza di focus internazionale causata dalla pandemia, sia Haftar che Al-Sarraj probabilmente sperano che lo stallo globale dovuto al Covid-19 possa durare il più a lungo possibile.

 

In Medio Oriente, e più in generale in Asia, la situazione non è migliorativa rispetto a quella africana. Nonostante gli accordi tra Russia e Turchia stipulati tra febbraio e marzo, i combattimenti in Siria tra forze governative e le ultime sacche di ribelli islamisti proseguono, anche se isolatamente. Il conflitto sembra aver raggiunto un punto di stallo e difficilmente si raggiungerà un equilibrio stabile nel breve termine. Il tutto è ulteriormente complicato dall’ingerenza di interessi stranieri all’interno dei confini siriani, quali quelli di Russia, Turchia e Stati Uniti, da movimenti indipendentisti trans-regionali quali quelli del popolo curdo e dalla presenza di movimenti islamisti supportati più o meno direttamente da potenze estere. Un’unione di fattori di una tale complessità che difficilmente trova analoghi al giorno d’oggi.

 

Per quanto riguarda l’Afghanistan, i recenti accordi di pace firmati a Doha tra Stati Uniti e talebani sembravano aver in qualche modo ridotto le ostilità nel paese mediorientale e si sperava ciò fornisse una tregua a questa terra insanguinata di continuo da ormai 19 anni. Per quanto le aspettative iniziali fossero più che positive, con il passare delle settimane si è andati incontro alle prime difficoltà e ciò ha riportato in parte la violenza nel paese. Infatti tra le prime clausole del trattato vi era la liberazione di prigionieri da parte delle autorità governative di Kabul, le quali si sono dimostrate molto reticenti nello scarcerare combattenti contro i quali hanno lottato fino a due mesi fa. Alcune frange del movimento combattente talebano hanno interpretato ciò come un atto di malafede da parte del governo, portando al ritorno degli attacchi dinamitardi nel paese, seppur isolatamente.

 

Arrivati a questo punto di stallo, nessuna delle due parti è intenzionata a muoversi nei confronti dell’altra. Per questo motivo è notizia recente che le due delegazioni si sono rincontrate per evitare la deriva definitiva di un lavoro diplomatico durato svariati mesi. I risultati di questi incontri sono ancora tutti da vedere, tuttavia è improbabile che la spirale di violenza si fermi a causa della pandemia globale, essendo entrambe le parti disposte a tutto pur di prevalere sugli avversari.

 

Un altro conflitto spesso dimenticato è quello in Yemen, da alcuni definito una delle più grandi tragedie umanitarie del nuovo millennio. In barba alla pandemia globale, negli ultimi giorni di marzo sono stati intercettati sui cieli della capitale saudita Ryad dei missili balistici probabilmente lanciati dai ribelli Houthi dallo Yemen. Questo atto si somma all’ormai infinito numero di violenze perpetrate da entrambe le parti in conflitto in oltre cinque anni di guerra.

 

All’interno del quadro regionale mediorientale, questa guerra è uno dei pochi scenari dove si è registrato un ufficiale cessate il fuoco tra le parti a causa della pandemia. Episodi di violazione della suddetta tregua sono tuttavia all’ordine del giorno, come riportato poco sopra, ma si ritiene che la temporanea interruzione delle ostilità sia interpretabile come un’implicita ammissione di sconfitta da parte delle forze della coalizione saudita, le quali non riescono ad avere la meglio sui ribelli Houthi nella regione. Questa situazione di stallo non potrà che peggiorare nei mesi a seguire, ed è molto probabile che i ribelli Houthi, appoggiati dall’Iran, sfruttino questo momentaneo momento di debolezza del nemico per rincarare la dose e aumentare di conseguenza la pressione sulle forze avversarie. Per lo Yemen, un paese flagellato da cinque anni di guerra civile nonché da una carestia di proporzione bibliche e da un’epidemia di colera inarrestabile, il Covid-19 non risulta essere altro che un ulteriore problema tra i problemi.

 

Per quanto in altre zone dell’Asia invece non si abbiano conflitti aperti, si registrano comunque dati preoccupanti per la stabilità di diverse regioni che potrebbero portare un domani a ulteriori violenze. Si prenda ad esempio la Corea del Nord, la quale di recente ha testato svariati missili a corto raggio dirigendoli verso il mare del Giappone. Questa pratica non è nuova all’interno del contesto coreano, tuttavia si va a ad aggiungere a un Estremo Oriente quasi completamente concentrato sull’arresto del Covid-19.

 

Al momento, né Corea del Sud né Giappone né tantomeno gli alleati statunitensi hanno le forze per concentrarsi sulla questione nordcoreana. Risulta quindi estremamente preoccupante questa provocazione, la quale necessiterà sicuramente maggiore attenzione nelle prossime settimane da parte della comunità internazionale.

 

Analogamente degno di attenzione è il continuo acquisto e installazione da parte della Turchia nelle ultime settimane di missili terra-aria S-400 dalla Russia. Per quanto questo evento possa sembrare una normale fornitura bellica da un paese produttore a un paese terzo, questa compra-vendita si traduce in tensioni geopolitiche estremamente rilevanti. Infatti la Turchia fa parte della NATO da tempo immemore, e in virtù di questa adesione è anche uno dei principali contribuenti e, teoricamente, end-user dei caccia bombardieri stealth F-35 di produzione statunitense.

 

Ed è proprio qui il problema. Il sistema missilistico russo S-400, sulla carta, sarebbe capace di minacciare questo avanzatissimo sistema aeronautico e quindi la sua installazione in Turchia andrebbe in netto contrasto con l’acquisto degli F-35. Washington ha espresso a più riprese le sue remore riguardo a questa fornitura militare e ha addirittura minacciato il governo di Ankara di sospendere la fornitura dei caccia qualora non facesse dietro-front sugli S-400 russi.

 

Tuttavia la Turchia ha cercato di mantenere il piede in due scarpe, e finora ci è riuscita. Da un lato vi è il caro alleato statunitense, utilissimo in sede internazionale per legittimare almeno in parte le ingerenze regionali turche. Dall’altro invece vi è Mosca, con la quale il rinnovato matrimonio strategico si sposa perfettamente con la spartizione delle zone di influenza all’interno dello scacchiere mediorientale. Un simile equilibrio è del tutto instabile, e sarà solo il tempo a dire quanto esso potrà mai durare.

 

Per quanto sia impossibile enumerare tutti i conflitti presenti nel mondo e descriverne le dinamiche alla luce della pandemia globale, è importante segnalare la presenza anche di segnali positivi in alcuni teatri. Si prenda ad esempio la situazione nelle Filippine, dove i gruppi di guerriglia hanno annunciato un cessate il fuoco fino al 15 aprile a causa della situazione sanitaria.

 

Oppure si consideri anche il contesto colombiano, dove l’Ejercito de liberación nacional (ELN), principale gruppo combattente contro l’autorità centrale da quando è stata stipulata la tregua con le FARC nel 2016, ha dichiarato una tregua unilaterale di un mese. I leader del gruppo lo hanno definito un “gesto umanitario”.

 

È incoraggiante vedere segnali positivi di questa portata, tuttavia è doveroso ammettere che nella maggior parte dei teatri di conflitto la pandemia globale non porterà a grandi cambiamenti. Anzi, nella remota ipotesi in cui una delle due parti decida di interrompere le ostilità è molto probabile che l’altra parte decida di avvalersi di questa temporanea posizione di forza. Basti ricordare che l’ultima grande pandemia affrontata dall’umanità, ovvero quella dell’influenza spagnola del 1918-1920, non fermò l’ultimo anno di ostilità nella Prima Guerra Mondiale.

 

Oltre all’acuirsi dei conflitti internazionali, in questo periodo si sta assistendo anche a una generale stretta sulle libertà di stampa in molti paesi del mondo. In innumerevoli stati, leader più o meno autoritari o quanto meno tendenti al populismo, hanno più volte accusato la stampa di diffondere notizie false in merito al contagio al fine di minare i pilastri portanti dello stato stesso. Gli esempi potrebbero essere innumerevoli, quali le Filippine, l’Ungheria, il Brasile e perfino i democraticissimi Stati Uniti, dove nelle prime fasi Trump ha accusato ripetutamente la stampa di ingigantire la contagiosità del virus e la sua pericolosità per gli Stati Uniti. Tutti queste nazioni si sono trovate in poche settimane letteralmente sommerse dai contagi, rendendo il dibattito ancora più polarizzato e portando ancora maggiori difficoltà agli organi di stampa nello svolgere il proprio lavoro.    

 

In conclusione, la pandemia globale dovuta al Covid-19 sta influenzando in maniera importante tutti gli scenari di conflitto globale. Nonostante qualche nota positiva all’interno del contesto internazionale, ciò a cui si assiste è una generale omeostasi dei teatri bellici, in cui il virus Covid-19 risulta essere solo un ulteriore fattore di complicazione a situazioni già alla deriva da anni.

 

La verità è che purtroppo questa crisi sanitaria globale è una grande occasione per le guerre. Qualora una delle parti belligeranti decida di fermarsi, di congelare le proprie offensive o di interrompere le proprie attività, l’altra parte può decidere deliberatamente di portarsi in vantaggio rispetto agli avversari. Ciò è valido in particolar modo per quei conflitti che durano ormai da diversi anni e che sono diventati ormai una logorante guerra di posizione difficilmente sbloccabile nel breve-medio termine. Questo può essere uno dei motivi principali per cui la maggior parte dei conflitti stanno procedendo come se nulla fosse cambiato.

 

L’unica speranza è che, laddove i combattimenti si sono fermati, il buonsenso prevalga sulle armi e che questo tipo di approccio si possa estendere a macchia d’olio anche in altre nazioni. Attualmente le parti belligeranti che hanno aderito al cessate il fuoco di Guterres sono molto poche, tuttavia data la serietà della pandemia è lecito sperare che questa adesione possa aumentare, portando un poco di pace laddove questa parola, pace, non ha più un significato da molto tempo. 



 

 

 

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