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N. 12 - Dicembre 2008 (XLIII)

Gustavo Herling
UN omaggio

di Arturo Capasso

 

Recentemente, in un convegno a Napoli, è stato ricordato Gustavo Herling, scrittore polacco vissuto a lungo nella città partenopea.

L’ho conosciuto negli anni sessanta, presentato da suo cognato Leonardo Cammarano.

Ambedue accettarono con entusiasmo di collaborare alla rivista Sovietica, edita dalla Esi. Così ci vedevamo spesso per articoli, recensioni, interviste, appelli disperati di intellettuali dell’Est, visite di scrittori appena usciti dall’Urss.

Era, la nostra, un impegno civile,una esigenza sentita e sofferta a denunciare, documentare, anche a costo di infastidire l’intellighenzia che a quei tempi era
ostaggio di una sinistra con molti paraocchi.

I risultati del nostro impegno? Sono scritti, anzi scolpiti nella mente di chi operò nel bene. E certamente le nostre battaglie saranno ricordate – qualche volta – da quanti frapponevano continui ostacoli alla verità e alla libertà, ma che poi dopo qualche decennio sarebbero stati spazzati via dalla "pattumiera della storia", come giustamente diceva Leone Trotskij.

Herling divideva il suo tempo fra Napoli, Roma e Parigi, dove collaborava a Kultura, prestigiosa rivista polacca.

Desidero ricordarlo con la sua opera maggiore – Un mondo a parte – che rimane ancora oggi una testimonianza unica.
 

Più di un secolo fa Fidor Dostojevskij, deportato in Siberia, descrisse la sua esperienza in Memorie di una casa di morti. Con quel lavoro egli si metteva definitivamente in luce; un'ascesa continua, con opere che hanno conquistato lettori d'ogni Paese. Ma in Urss Dostojevskij è stato sempre tenuto in disparte per la sua concezione tutta personale dell'Uomo, per le sue idee religiose, per le scaturigini del suo pensiero dall'esistenzialismo di pretta impronta occidentale.

 

Solo pochi anni fa è stata pubblicata l'edizione completa delle sue opere, in dieci volumi. La casa da lui abitata, dove fu completato I fratelli Karamazov, in una larga strada di Leningrado, conserva solo una lapide sulla facciata dell'edificio. Nel suo appartamento di cinque camere si sono installate cinque famiglie. Rispondono con fa­stidio quando si va a chiedere di visitare la casa: allo scrittore non appartiene più niente. Ciò è appunto spiegabile con la poca popolarità di Dostojevskij presso le autorità del Cremlino; a scrittori di minore importanza sono state dedicate intere ville come case-musei. Memorie d'una casa di morti è diventato un classico della letteratura sulla vita dei detenuti in Siberia. Ma purtroppo dal regime zarista a quello stalinista non c'è stata una differenza sostanziale e questo ha dato la possibilità allo scrittore iugoslavo Mihajlo Mihailov di fare un parallelo fra l'opera di Dostojevskij e quella di Solzhenitsyn, La giornata dì Ivan Denissovic.


Negli ultimi anni, dopo il cosiddetto "disgelo", s'è avuto in Russia un certo fiorire di opere sui campi staliniani; troppi erano i deportati che volevano far conoscere ai "compagni" quale fosse stata la loro sorte per un numero più o meno lungo di anni.

 

Ma anche il nihil obstat alla stampa di tali lavori aveva un fine politico, ben individuato: si voleva buttare odio sulla memoria - di un uomo che per decenni era stato il capo indiscusso. Poi, dopo Kruscev, tale corsa pare si sia rallentata, riflettendo la fase di transizione che l'Urss sta avendo nella guida politica.


Un'altra testimonianza sulla vita (e la morte) nelle prigioni staliniane ci giunge da uno scrittore polacco, che da anni ha trovato nel nostro Paese la sua seconda patria: Gu­stavo Herling.

 

Il suo libro Un mondo a parte è uscito in questi giorni presso Rizzoli. Ma fu originariamente pubblicato in inglese nel 1951: questa data è molto importante, perché a quei tempi era sistematicamente negata l'esistenza di campi di lavoro forzato per milioni di sovietici; come si ricorderà, c'era stato Viktor Kravchenko che nel suo lavoro Ho scelto la libertà ne aveva parlato più volte.

 

Il libro di Herling è stato fin dal 1951 pubblicato in diverse lingue; una edizione italiana andò rapidamente esaurita... perché introvabile.


Un mondo a parte è un mondo diverso, tutto brutto e pieno di mestizia; ma con qualche filo di speranza in chi riesce ancora ad essere se stesso dopo interrogatori estenuanti, condotti con arte e sadismo. Un mondo fatto di gente che forse credeva pure in qualcosa, ma che è presa e por­tata via a forza. Vi troviamo chi credeva nella Rivoluzione d'Ottobre e invece è stato accusato di deviazionismo; vi troviamo chi credeva nella supremazia della polizia segreta NKVD e s'era arruolato, diventando aguzzino di merito. Ma poi anch'egli era caduto in disgrazia e ora i suoi giustiziati diventano suoi giustizieri.

Un mondo dove nel triste grigiore della baracca un gruppo di deportati attende le ombre della sera per intrappolare una donna, anch'essa deportata; la lotta disperata per conservare quello che di buono era rimasto del proprio corpo; e poi un donarsi al più malvagjo di essi, quasi per essere almeno protetta verso gli altri: i molti altri.


Un affollarsi di immagini convulse, di uomini incartapecoriti dal dolore e dalla fame, una visita prolungata a un lazzaretto di manzoniana memoria. Ma almeno quelli a-vevano la peste... almeno quelli potevano essere nocivi al prossimo. Lì no; era solo questione di offesa per sopravvivere; la lotta per l'esistenza avveniva senza esclusione di colpi.


Quando si leggono queste pagine, più che soffermarsi sul valore letterario dell'opera viene voglia di meditare - e a lungo - su quelle che sono le atrocità inventate dagli uomini per eliminarsi.


« Circa i tre quarti dei prigionieri andavano al lavoro vestiti di stracci, che lasciavano mezzo scoperte le braccia e il petto. Non v'era dunque da stupirsi che molti non si spogliassero di notte per timore che i loro indumenti, messi insieme con difficoltà, addirittura si disfacessero. La sveglia del mattino era per essi come un segnale di treno nella sala d'aspetto di una stazione ferroviaria. Si scuotevano dal sonno, si trascinavano fuori dalle cuccette, inumidivano gli occhi e la bocca nell'angolo della baracca, e si muovevano verso la cucina. Lasciavano il recinto con la segreta speranza che questa volta il congelamento delle parti scoperte dei loro corpi fosse giunto a tal punto da meritare alfine un giorno di dispensa dal lavoro ».


Dopo ore di lavoro continuo e di stretta sorveglianza, si tornava al campo:


« Alle sei, da tutti i lati della vuota bianca pianura, le brigate convergevano al campo, come processioni funebri di ombre trasportanti i loro corpi sulle spalle. Percorrendo i sentieri tortuosi sembravano le gambe di un enorme mostro nero, la cui testa infilzata nel recinto dalle quattro lance luminose dei riflettori mostrava i denti - le finestre delle baracche - che brillavano al cielo. Nel profondo silenzio della sera si udiva solo il calpestio degli stivali nella neve interrotto dagli ordini sferzanti della scorta: "Svelti! Svelti!". Ma non potevamo andare più in fretta; marciavamo silenziosi, quasi schiacciati l'un contro l'altro, come se, avanzando insieme, potessimo più facilmente raggiungere i cancelli illuminati del campo. Ancora poche centinaia di metri, un ultimo sforzo, ed ecco il recinto, un mestolo di minestra, un boccone di pane, una cuccetta e la solitu­dine: la bramata, ma quanto deludente, solitudine ».


Ben a ragione Gustavo Herling ha citato - quasi come introduzione - un breve ma significativo passo di Memorie d'una casa di morti:

 

« Questo è un mondo a parte, che non somiglia a nessun altro, con le sue leggi speciali, i suoi usi, i suoi costumi, le sue abitudini: una casa di morte vivente, una vita come non esiste in nessun altro luogo, e gente che non ha pari ».


Ma questo mondo, ahimè, dopo cinque generazioni ancora esiste...

 

 

 

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