.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
|
N. 26 - Febbraio 2010
(LVII)
GUGLIELMA DI MILANO
un’eretica post mortem - Parte II
di Lorenzo Coccoli
Non
tutti
confessano
di
credere
nell’identificazione
Guglielma
–
Spirito
santo,
molti
sono
scettici
sulla
sua
resurrezione
dai
morti,
e
nessuno
infine
pare
ritener
vero
che
avesse
le
stimmate
(benché
ve
ne
fosse
la
fama).
La
quasi
totalità
dei
testimoni
è
invece
concorde
nell’attribuire
questi
“insegnamenti”
ad
Andrea,
a
Maifreda,
o,
nella
maggior
parte
dei
casi,
ad
entrambi.
Di
una
cosa
comunque
sembrano
certi:
essi
non
possono
essere
fatti
risalire
fino
a
Guglielma.
Anche
lo
stesso
Andrea
Saramita,
almeno
fino
ad
un
certo
punto,
cerca
di
tenerla
al
riparo
dagli
inquisitori.
E
Maifreda
riferisce
che
a
chi
le
chiedeva
un
miracolo,
ella
avrebbe
ribattuto:
“Andate!
Io
non
sono
Dio”.
Ancora,
Danisio
la
avrebbe
sentita
dire
ad
Andrea:
“Voi
siete
fatui
poiché
dite
di
me e
credete
ciò
che
non
è.
Io
sono
nata
da
un
uomo
e da
una
donna”.
Marchisio
Secco
riporta
al
riguardo
un
episodio
singolare;
essendo
venuto
a
contesa
con
Andrea
sulla
questione,
i
due
avevano
fatto
una
scommessa
e si
erano
recati
da
Guglielma
per
chiederle
se
ella
riteneva
o
meno
di
essere
lo
Spirito
santo.
Ma
la
donna
si
era
molto
adirata
e
aveva
risposto
loro
di
essere
fatta
“di
carne
e
ossa”,
e
che
non
era
ciò
che
essi
credevano.
Marchisio
aveva
vinto.
Da
queste
testimonianze
si
potrebbe
forse
dedurre
che
le
voci
sulla
presunta
natura
divina
di
Guglielma
circolassero
già
mentre
era
ancora
in
vita,
ma
anche
che
ella
avesse
cercato
in
ogni
modo
di
scoraggiare
questa
credenza.
Tuttavia,
considerati
i
limiti
propri
della
fonte
inquisitoriale,
risulta
molto
difficile
stabilire
con
certezza
se
ciò
corrisponda
a
verità,
o se
non
sia
invece
un
tentativo
dei
devoti
e
delle
devote
di
difendere
la
memoria
della
loro
“santa”
dall’accusa
infamante
di
apostasia:
tanto
più
che
Andrea,
in
una
sua
deposizione
del
22
agosto
–
che
è
anche
uno
dei
punti
di
svolta
del
processo
–
confesserà
di
aver
derivato
i
suoi
errori
dalla
stessa
Guglielma
(aggiungendovi
però
molto
di
suo).
Allo
stato
attuale
della
documentazione,
non
è
quindi
possibile
attribuire
la
paternità
o la
maternità
della
(presunta)
eresia
guglielmita.
Forse
non
sarebbe
nemmeno
così
interessante
farlo.
Interessante
è
invece
notare
come
anche
chi
dichiara
di
non
credere
che
Guglielma
sia
lo
Spirito
santo,
non
ha
remore
ad
ammettere
la
propria
partecipazione
attiva
al
culto
in
suo
onore
e la
propria
devozione
nei
suoi
confronti:
non
ha
remore
cioè
ad
ammettere
di
considerarla
santa.
Stefano
da
Crivella,
ad
esempio,
che
pure
rimprovera
aspramente
la
moglie
per
i
suoi
spropositi,
ritenendoli
in
contrasto
con
la
fede
cattolica,
riconosce
senza
esitazioni
di
aver
fatto
“quattro
dalmatiche
senza
maniche”
in
reverenza
di
Guglielma,
di
tenere
in
casa
delle
assi
di
legno
con
cui
avrebbero
dovuto
essere
costruiti
i
gradini
per
l’altare
sul
quale
si
sarebbe
dovuta
celebrare
la
messa
di
canonizzazione
della
donna,
di
aver
pagato
qualcuno
per
dipingere
la
sua
immagine
e di
aver
illuminato
il
dipinto
a
sue
spese.
Gerardo
da
Novazzano,
pur
permettendo
alla
moglie
di
partecipare
ai
convivi
dei
devoti
e
delle
devote
di
Guglielma
(e
in
qualche
occasione
partecipandovi
egli
stesso),
l’aveva
però
ammonita
di
non
credere
che
ella
fosse
lo
Spirito
santo.
E
Marchisio,
di
cui
abbiamo
ricordato
la
scommessa
con
Andrea,
confessa
di
aver
illuminato
il
sepolcro
della
“santa”
a
Chiaravalle,
e
che
“non
gli
sarebbe
stato
di
nocumento,
se
Guglielma
fosse
stata
in
paradiso”.
Alla
luce
delle
testimonianze
processuali,
sembrano
insomma
emergere
due
livelli
di
devozione
all’interno
del
movimento
guglielmita,
entrambi
comunque
molto
fluidi
e
senza
un
confine
netto
tra
di
loro.
Nel
primo,
che
abbraccia
un
numero
più
limitato
di
fedeli,
Guglielma
è
effettivamente
l’incarnazione
dello
Spirito
santo
“in
forma
di
donna”.
Nel
secondo,
che
si
rivolge
invece
ad
un
“pubblico”
più
ampio,
Guglielma
ha
invece
tutti
i
connotati
di
una
(possibile)
santa.
A
questi
due
livelli
corrispondono
anche
due
differenti
forme
di
predicazione.
La
prima,
i
cui
protagonisti
sembrano
essere
Andrea
e
Maifreda,
è a
carattere
privato,
personale,
a
tratti
quasi
segreto:
quando
ad
esempio
frater
Gerardo
–
che
evidentemente
non
rientrava
nella
cerchia
più
ristretta
del
“culto”
–
aveva
cercato
di
leggere
“i
libri
e le
scritture”
di
Andrea
su
Guglielma,
questi
non
glielo
aveva
permesso,
“chiudendole”.
Maifreda,
che
pure
proclamava
la
natura
divina
della
“santa”,
“non
lo
diceva
pubblicamente,
se
non
davanti
ad
alcuni
in
modo
privato”,
ovvero
nella
sua
camera
del
convento
di
Biassono,
privatamente.
Non
è un
caso
che
l’episodio,
già
ricordato,
del
solenne
annuncio
di
Maifreda
circa
la
divinità
di
Guglielma,
si
fosse
svolto
non
in
un
luogo
pubblico,
ma
nella
casa
di
un
privato.
Pubblica
è
invece
la
seconda
forma
di
predicazione,
affidata
soprattutto
ai
monaci
dell’abbazia
di
Chiaravalle:
questi,
spesso
in
occasione
delle
feste
in
suo
onore,
davanti
anche
a
più
di
un
centinaio
di
persone,
“proponevano
ed
esponevano
vari
esempi
di
santi
e
dopo
adattavano
alla
stessa
santa
Guglielma
ciò
che
poteva
così
essere
riferito
a
santa
Guglielma”.
Di
lei
dicevano
anche
che
era
stata
“buona,
santa
e
devota,
e
cose
simili”.
L’interesse
attivo
(già
osservato
in
precedenza)
che
lo
stesso
abate
aveva
manifestato
nei
confronti
della
“devozione”
guglielmita,
lascia
pensare
che
egli,
come
altri,
si
attendesse
una
relativamente
prossima
canonizzazione
della
“santa”,
e
avesse
previsto
il
prestigio
che
ne
sarebbe
venuto
al
suo
monastero
(il
quale,
non
lo
si
dimentichi,
ospitava
il
sepolcro
di
Guglielma).
In
effetti,
ci
sono
molti
degli
elementi
che
nella
tradizione
cristiana
contribuiscono
a
formare
la
fama
sanctitatis:
una
fama
che,
se
non
fosse
stata
trasformata
in
notitia
criminis
dall’intervento
dell’inquisizione,
avrebbe
forse
potuto
davvero
almeno
avviare
le
procedure
di
santificazione.
Ma
quali
sono
questi
elementi
che
vorrebbero
fare
di
Guglielma
una
santa?
C’è
la
festa
in
suo
onore,
celebrata,
in
conformità
a
quella
di
tutti
gli
altri
santi
della
Chiesa,
nel
giorno
della
sua
morte,
il
24
agosto.
C’è
il
culto
del
luogo
in
cui
è
sepolta.
C’è
la
conservazione
delle
reliquie.
C’è
la
cosiddetta
“canonizzazione
effettuata
mediante
le
immagini”:
prete
Mirano
ad
esempio
dipinge
l’immagine
di
Guglielma
nelle
chiese
milanesi
di
Santa
Maria
Minore
e di
Sant’Eufemia,
ma
sub
nomine
di
santa
Caterina.
Ci
sono
testimonianze
di
una
vita
buona,
pia
e
devota,
fatta
di
parole
oneste
e
religiose.
Ma
soprattutto
ci
sono
i
miracoli:
o,
meglio,
c’è
il
racconto
dei
miracoli.
Anche
qui,
la
tipologia
miracolistica
è
piuttosto
tradizionale,
e i
“poteri”
sovrannaturali
di
Guglielma
sono
soprattutto
taumaturgici.
Andrea
riferisce
che
in
vita
la
“santa”
avrebbe
guarito
Beltramo
da
Ferno
da
un
segno
che
aveva
in
un
occhio,
e
Albertone
da
Novate
da
una
fistola.
Ma
anche
dopo
la
sua
morte,
i
miracoli
non
erano
cessati:
Andrea
ha
sentito
“di
alcune
nobildonne
che
si
erano
votate
a
santa
Guglielma
e
con
le
preghiere
di
lei
avevano
ottenuto
ciò
che
esse
chiedevano”.
Anche
Sibilla
dei
Malconzati
dice
di
essersi
votata
alla
“santa”
per
una
malattia
dalla
quale
fu
liberata.
Questo
potere
taumaturgico
si
trasmette
anche
ad
alcuni
oggetti
che
hanno
a
che
fare
in
qualche
modo
con
Guglielma:
ad
esempio,
secondo
prete
Mirano,
il
liquido
con
cui
il
suo
corpo
era
stato
lavato
prima
della
sepoltura
a
Chiaravalle,
sarebbe
stato
raccolto
e
portato
nella
casa
delle
sorores
di
Biassono,
dove
Maifreda
ne
avrebbe
fatto
distribuzione,
versandolo
sulle
“infermità”.
Gli
stessi
monaci
dell’abbazia
cistercense,
nelle
loro
predicazioni,
“lodavano
Guglielma
dicendo
che
Guglielma
era
di
buona
e
santa
vita
e di
onesta
conversazione
e
aveva
fatto
molti
miracoli
anche
nei
confronti
di
frati
del
monastero
infermi”:
e si
noti
che
“vita
santa”
e
“miracoli”
sono
proprio
i
due
elementi
che
tradizionalmente
connotano
la
santità.
Ma
le
guarigioni
prodigiose
non
sono
le
sole
esperienze
che
collegano
la
sua
figura
alla
dimensione
del
trascendente.
Altri
(racconti
di)
fatti
oltre-naturali
si
allacciano
all’altro
discorso
devozionale,
quello
in
cui
Guglielma
è lo
Spirito
santo.
Qualcuno
aveva
detto
a
Giacomo
da
Ferno
di
averla
vista
in
spetie
columbe.
Sibilla
riferisce
di
aver
sentito
Andrea
raccontare
di
aver
assistito
alla
levitazione
di
Guglielma.
E
anche
nell’episodio
già
ricordato
della
riunione
in
casa
di
Giacomo
da
Ferno,
alla
solenne
dichiarazione
di
Maifreda
aveva
fatto
seguito
quello
che
ai
presenti
era
apparso
come
un
magnum
miraculum:
Carabella
aveva
trovato
nelle
fibule
del
suo
mantello
tre
nodi,
che
prima
non
c’erano.
La
“congregazione”
guglielmita
risulta
insomma
in
bilico
tra
la
devozione
verso
una
Guglielma
santa,
all’interno
quindi
dell’ortodossia
cattolica,
e
l’adorazione
di
una
Guglielma
divina,
manifestamente
(almeno
per
gli
inquisitori)
eterodossa.
Sarà
proprio
l’intervento
dell’ufficium
fidei
a
far
pendere
la
bilancia
da
una
sola
parte,
facendo
entrare
in
scena
una
nuova
versione
di
Guglielma:
una
Guglielma
eretica.
Il
discorso
inquisitoriale
e il
discorso
devozionale
Abbiamo
già
fatto
qualche
osservazione
a
proposito
del
carattere
peculiare
della
fonte
che
stiamo
utilizzando.
E
abbiamo
visto
come
in
essa
non
sia
in
gioco
tanto
la
realtà
storica,
quanto
la
sua
articolazione
tramite
il
confronto
di
due
discorsi
contrapposti:
quello
degli
inquisitori
e
quello
dei
devoti
e
delle
devote
(quest’ultimo
attraversato
però
da
quella
sorta
di
dualismo
che
abbiamo
cercato
di
illustrare
sopra).
La
vittoria
– in
parte
scontata
–
del
primo
sul
secondo
determinerà
infine
il
destino
(della
memoria)
di
Guglielma
e
dei
“guglielmiti”.
Cominciamo
dal
discorso
inquisitoriale.
Esso,
in
ultima
analisi,
è
anche
quello
che
dà
forma
ai
quaderni
di
Beltramo
Salvagno:
quando
leggiamo
gli
atti
del
processo,
stiamo
leggendo
una
storia
scritta
e
sistemata
dai
vincitori.
E
proprio
nella
costruzione
stessa
del
documento
si
può
scorgere
la
prima
evidente
manifestazione
della
strategia
degli
inquisitori.
Innanzitutto,
nel
manoscritto
dell’ambrosiana
gli
atti
non
sono
disposti
in
ordine
cronologico,
ma
secondo
una
logica
compositiva
di
tipo
didascalico:
gli
interrogatori
degli
imputati
principali,
Andrea
e
Maifreda,
sono
posti
per
lo
più
in
posizione
“forte”,
all’inizio
o
alla
fine
dei
vari
quaderni;
le
rivelazioni
che
invece
permettono
l’avvio
del
processo,
quelle
di
Gerardo
da
Novazzano
in
data
18
luglio,
sono
relegate
in
una
collocazione
senza
rilievo;
infine,
nel
primo
quaderno
le
deposizioni
di
alcuni
testimoni
sono
fatte
seguire,
immediatamente
ed
esemplarmente,
dalle
loro
rispettive
confessioni.
Ma
l’intervento
del
filtro
inquisitoriale
è
ben
visibile
anche
nel
linguaggio
adoperato
dal
notaio
nel
trascrivere
le
risposte
degli
interrogati:
è
qui
che
vengono
alla
luce
le
categorie
teologiche
e le
formule
canonistico-giuridiche
di
cui
quel
filtro
è
composto.
Ad
esempio,
nella
sua
deposizione,
frater
Gerardo
aveva
informato
Lanfranco
da
Bergamo
che
i
devoti
e le
devote
di
Guglielma
attendevano
la
sua
resurrezione.
Ma
nelle
domande
degli
inquisitori,
questa
indicazione
si
arricchisce
di
un’ulteriore
specificazione,
ripetuta
poi
formularmente
nella
maggior
parte
degli
interrogatori:
i
frati
Predicatori
chiedono
cioè
a
chi
si
trovano
di
fronte
se
egli
mai
abbia
sentito
o
creduto
che
Guglielma
avrebbe
dovuto
risorgere
“prima
della
resurrezione
generale”.
È
evidente
come
la
precisazione
teologica
contribuisca
nel
contempo
a
sottolineare
l’enormità
di
una
simile
credenza
(almeno
per
gli
standard
dell’ortodossia
cattolica).
Ma
l’intervento
della
cultura
filosofica
dei
titolari
dell’ufficium
(e
forse
dello
stesso
Beltramo)
si
fa
palese
quando
nelle
confessioni
di
alcuni
personaggi
compaiono
inaspettatamente
formule
di
sapore
scolastico:
è il
caso
ad
esempio
delle
domine
Pietra
di
Alzate
e
Catella
dei
Giozi,
le
quali
avrebbero
dichiarato
– il
notaio
non
fa
distinzioni,
redigendo
un
unico
atto
per
entrambe
– di
credere
che
Guglielma
“era
lo
Spirito
santo
e in
lei
vi
era
la
sostanza
[substantia]
dello
Spirito
santo
e
della
Divinità”.
Ma,
oltre
al
loro
linguaggio,
anche
la
logica
stessa
del
discorso
inquisitoriale
sembra
procedere
secondo
un
andamento
scolastico-sillogistico.
Sia
Maifreda
che
Andrea
ammettono
(o
meglio
sono
costretti
ad
ammettere
dallo
stringente
ragionamento
degli
inquisitori)
di
ritenere
che
Guglielma
fosse
“di
maggiore
perfezione”
della
Vergine
Maria.
L’inferenza
che
è
all’opera
dietro
queste
confessioni,
e
che
emerge
qui
e là
nelle
deposizioni,
è
all’incirca
la
seguente:
se
Guglielma
è lo
Spirito
santo,
e se
lo
Spirito
santo
(in
quanto
Terza
Persona
della
Trinità)
è di
maggior
perfezione
rispetto
alla
Vergine,
allora
Guglielma
deve
essere
superiore
alla
stessa
Madre
di
Dio.
Ancora
una
volta,
la
loro
superiore
cultura
serve
ai
frati
Predicatori
per
mettere
in
evidenza
le
assurdità
delle
posizioni
eterodosse.
In
questo
modo,
le
voci,
le
dicerie,
i
dicitur
che
circolavano
in
maniera
disomogenea
tra
i
devoti
e le
devote,
vengono
raccolti
negli
interrogatori,
fatti
passare
attraverso
il
vaglio
inquisitoriale,
e
qui
riorganizzati
secondo
gli
schemi
della
cultura
teologica
e
filosofica
occidentale
della
fine
del
XIII
secolo
(o
almeno
secondo
quanto
di
quella
cultura
era
in
possesso
degli
inquisitori):
alla
fine
il
risultato
è
qualcosa
di
assolutamente
nuovo,
qualcosa
però
che
la
macchina
processuale
dell’ufficium
costringe
gli
inquisiti
a
fare
proprio.
Ecco
ad
esempio
che
Giacoma
da
Nova
confessa
“di
aver
detto
e
creduto
che
santa
Guglielma
era
lo
Spirito
santo
e
che
doveva
risorgere
prima
del
giorno
del
giudizio,
e
che
doveva
ascendere
in
cielo
visibilmente
e
corporalmente,
e
che
per
lei
dovevano
essere
salvati
Giudei
e
Saraceni”:
un
insieme
variegato
di
informazioni,
fornite
ora
dall’uno
ora
dall’altro
testimone,
è
stato
trasformato
in
un
corpus
dottrinale
unitario,
strutturato
attorno
a
diversi
articoli
di
fede,
che
Giacoma
deve
accettare
per
intero
senza
distinguo.
Più
che
punto
di
passaggio
dalla
realtà
alla
metarealtà,
qui
il
processo
diventa
occasione
di
spostamento
dal
discorso
(quello
frammentario
e
discorde
dei
devoti
e
delle
devote)
al
metadiscorso
(quello
ordinato
e
sistematizzato
dagli
inquisitori).
Sembra
addirittura
possibile
individuare
negli
atti
il
momento
preciso
in
cui
questo
spostamento
si
fa
definitivo.
In
una
deposizione
del
22
agosto,
Andrea
confessa
a
frate
Rainerio
di
aver
derivato
i
suoi
“errori”
dottrinali
direttamente
da
domina
Guglielma.
Segue
un’elencazione
di
detti
errori
che
è
praticamente
identica
a
quella
già
incontrata
con
Giacoma
da
Nova.
La
svolta
è
decisiva:
fino
a
quel
momento
nessuno,
nemmeno
Andrea,
aveva
attribuito
a
Guglielma
la
responsabilità
dell’eresia.
Ora
invece,
per
il
tramite
del
Saramita,
Guglielma
parla
il
metadiscorso
degli
inquisitori.
Il
precario
equilibrio
tra
santa
ed
eretica
è
spezzato
a
favore
della
seconda:
negli
stessi
quaderni
di
Beltramo,
l’attributo
di
“santa”,
che
fino
al
22
agosto
aveva
accompagnato
(anche
nelle
domande
dei
frati
domenicani)
il
nome
di
Guglielma,
a
partire
da
quella
data
scompare,
sostituito
qualche
volta
da
“domina”.
Persino
nel
linguaggio
della
fonte,
la
presunta
figlia
del
re
di
Boemia
è
ormai
esclusa
dalla
categoria
culturale
della
santità,
ed
inclusa
invece
in
quella
dell’eresia.
Ma
il
discorso
inquisitoriale
non
si
esaurisce
tutto
nei
suoi
schemi
ideologici
e
nelle
sue
conoscenze
teologiche.
C’è
di
più:
in
quanto
nominati
direttamente
“dalla
sede
apostolica”,
i
titolari
dell’ufficium
sono
anche
i
rappresentanti
dell’autorità
(spirituale)
legittima
e
hanno
di
conseguenza
una
reale
capacità
di
coercizione.
E,
benché
non
sembri
abusarne,
anche
in
questa
occasione
l’inquisizione
fa
ricorso
all’intimidazione
e
alla
violenza:
emblematica
al
riguardo
è la
seconda
deposizione
di
Gerardo,
in
cui
egli
riferisce
di
aver
avvertito
Andrea
di
guardarsi
dai
frati
Predicatori
poiché
essi
“fanno
minacce”.
È
proprio
questo
binomio
di
potere
e
uso
della
forza
a
far
sì
che
il
discorso
inquisitoriale
acquisti
una
concreta
incidenza
performativa
nei
confronti
della
realtà:
ecco
allora
che
la
condanna
di
Guglielma
e
dei
suoi
“complici”
sul
piano
del
metadiscorso,
si
traduce
sul
piano
del
reale
nella
riesumazione
e
distruzione
dei
resti
della
“santa”,
e
nel
(probabile)
rogo
di
Andrea
e
Maifreda.
Ora
la
vittoria
degli
inquisitori
è
davvero
completa.
Ma
non
bisogna
pensare
che
dall’altra
parte
ci
si
arrenda
senza
cercare
di
opporre
una
qualche
resistenza:
resistenza
di
cui
negli
atti
rimane
traccia
in
forme
discorsive
conflittuali
più
o
meno
esplicite.
L’episodio
più
significativo
in
questo
senso
si
colloca
sul
piano
del
diritto,
quasi
ad
evidenziare
l’importanza
che
il
fattore
giuridico-istituzionale
rivestiva
anche
per
i
fedeli:
Beltramo
da
Ferno
racconta
che
all’epoca
in
cui
Andrea
era
stato
citato
dall’ufficium,
insieme
allo
stesso
Saramita
si
era
recato
nella
casa
dei
frati
Minori
di
Milano
per
chiedere
consiglio
a
frate
Daniele
da
Ferno
(probabilmente
un
suo
parente).
Questi
li
aveva
informati
di
alcune
lettere
“con
bolla
del
dominus
papa”,
che
erano
in
possesso
di
frate
Pagano
da
Pietrasanta,
nelle
quali
“si
diceva
che
gli
inquisitori
erano
cassati
o
sospesi
dall’ufficio
inquisitoriale
in
Milano
e
suo
distretto”.
Recatisi
da
frate
Pagano,
i
due
avevano
effettivamente
trovato
tali
lettere:
su
consiglio
di
frate
Daniele
e
dello
stesso
abate
di
Chiaravalle,
le
avevano
fatto
trascrivere
dal
notaio
di
Pagano.
L’abate
si
era
allora
rivolto
direttamente
all’arcivescovo,
chiedendogli
di
avocare
a sé
l’inchiesta,
ottenendo
però
solo
una
(vaga)
promessa
di
interessamento.
Il
tentativo
si
risolve
in
un
buco
nell’acqua:
ma è
interessante
notare
come,
ancora
prima
che
il
processo
entrasse
nel
vivo,
la
rete
dei
devoti
si
fosse
attivata
per
contestarne
all’origine
la
legittimità
(anche
se
ciò
non
significava
mettere
in
discussione
l’esistenza
dell’ufficio
dell’inquisizione).
Venuti
meno
i
mezzi
giuridici,
rimangono
tuttavia
quelli,
per
così
dire,
narrativi.
Il
discorso
devozionale,
che
nella
“congregazione”
guglielmita
circolava
anche
in
forma
scritta,
cerca
di
dare
un
senso
all’evento
tragico
che
stava
investendo
la
comunità
dei
fedeli.
Tanto
più
che
quella
non
era
la
prima
volta
che
l’ufficium
fidei
procedeva
contro
i
devoti
e le
devote
di
Guglielma:
già
circa
sedici
anni
prima,
a
pochi
anni
dalla
morte
della
“santa”,
il
frate
Maifreda
da
Dovera
aveva
condotto
un’inchiesta,
che
si
era
conclusa
con
l’abiura
e la
successiva
assoluzione
di
tutti
i
maggiori
protagonisti
della
(presunta)
eresia.
In
un
orizzonte
di
religiosità
biblica
ed
evangelica,
la
pesante
materialità
dei
due
processi
viene
interpretata
e
collocata
all’interno
dello
svolgimento
di
un
destino
provvidenziale.
Prete
Mirano
informa
gli
inquisitori
che
i
devoti
e le
devote
credevano
“di
sostenere
la
Passione
per
amore
dello
Spirito
santo,
come
gli
apostoli
l’avevano
sostenuta
per
Cristo”.
E
frate
Gerardo
riferisce
che
quindici
anni
prima
aveva
trovato,
in
un
salterio
preso
a
prestito
da
Andrea,
un
foglio
in
cui
era
scritto
che
“i
figli
dello
Spirito
santo
erano
dispersi
e
posti
in
carcere”;
interrogato
a
tal
proposito,
lo
stesso
frater
aveva
risposto
che
“ciò
significava
che
gli
inquisitori
avevano
citato
alcuni
tra
i
devoti
di
santa
Guglielma”.
È
evidente
come
il
discorso
devozionale
sia
strutturato
su
parallelismi
e
linguaggi
presi
a
prestito
dai
Vangeli:
del
resto
proprio
una
sorta
di
imitatio
Christi
aveva
avuto
un
ruolo
determinante
nell’articolazione
dei
tratti
peculiari
della
figura
di
Guglielma.
Quando
poi
il
sentimento
di
ineluttabilità
del
proprio
destino
lascia
spazio
alla
speranza,
allora
la
ricerca
di
senso
si
fa
sogno
di
salvezza:
si
fa
visione,
materializzando
così
l’immaginario
delle
devote
e
dei
devoti.
Sempre
secondo
prete
Mirano,
che
riporta
quanto
gli
avrebbe
raccontato
Giacomo
da
Ferno,
Albertone
da
Novate,
sul
sepolcro
della
“santa”,
avrebbe
visto
“che
Andrea
era
legato
mani
e
piedi
dai
frati
e
che
la
beata
Guglielma
l’aveva
liberato”.
Sempre
ad
Albertone
sarebbe
apparsa
Maifreda
inseguita
dai
frati
che
volevano
catturarla,
e un
angelo
che
l’aveva
difesa
brandendo
una
spada
insanguinata.
La
dinamica
che
ne
risulta
è
piuttosto
interessante.
Negli
atti
del
processo
assistiamo
al
conflitto
di
due
discorsi
che
cercano
rispettivamente
di
prevalere
o di
resistere,
entrambi
però
tentando
di
assimilare
l’avversario
nella
propria
economia
discorsiva.
Così,
ad
esempio,
gli
inquisitori
fanno
proprio,
almeno
fino
ad
un
certo
punto,
l’appellativo
di
“santa”
che
i
fedeli
attribuivano
a
Guglielma.
A
loro
volta,
questi
ultimi
–
anche
se
dobbiamo
sempre
tener
conto
delle
disomogeneità
interne
al
gruppo
–
cercano
di
inserire
il
dramma
delle
inchieste
degli
inquisitori
all’interno
dei
loro
schemi
provvidenziali
o
salvifici.
Non
c’è
dubbio
su
chi
ne
esca
vincitore:
quel
“di
più”
di
autorità
e di
violenza
di
cui
abbiamo
parlato
determina
il
predominio
del
discorso
inquisitoriale.
L’importante
però
è
non
leggere
questa
vittoria
in
senso
univoco
e
aproblematico.
Uno
specifico
femminile?
Nel
1985
esce
per
le
edizioni
La
Tartaruga
“Guglielma
e
Maifreda.
Storia
di
un’eresia
femminista”,
di
Luisa
Muraro,
esponente
di
spicco
del
pensiero
della
differenza
sessuale.
Il
libro
tenta
di
interpretare
l’esperienza
delle
due
donne
milanesi
come
manifestazione
storica
della
libertà
femminile
e di
un
accesso
femminile
alla
produzione
simbolica:
per
la
filosofa,
Guglielma
sarebbe
stata
“una
donna
divina
che
significava
per
donne
e
uomini
l’incarnazione
femminile
di
Dio”.
L’operazione
è
notevole
e
ricca
di
intuizioni,
benché
si
presti
qua
e là
a
qualche
(a
volte
anche
considerevole)
distorsione
delle
fonti.
Tuttavia,
è
innegabile
che
la
vicenda
umana
e
spirituale
di
cui
ci
stiamo
occupando
presenti
vari
elementi
di
protagonismo
femminile.
Che
questa
non
fosse
la
normalità
nella
Milano
del
1300
lo
si
evince
dall’accento
che
tanto
gli
inquisitori
quanto
i
testimoni
pongono
su
questa
specificità
di
genere.
Il
solito
prete
Mirano
dice
di
aver
sentito
da
Andrea
e
Maifreda
che
“come
Cristo
aveva
patito
in
forma
di
uomo
[in
forma
hominis],
così
Guglielma
doveva
patire
in
forma
di
donna
[in
forma
mulieris]”.
Sibilla
dichiara
che,
almeno
a
detta
di
Andrea,
Guglielma
gli
avrebbe
confidato
–
mentre
levitava
– di
essere
“lo
Spirito
santo
che
si
rivelava
in
spetie
mulieris,
precisando
[…]
che,
se
fosse
venuta
in
spetie
hominis,
sarebbe
morta,
come
Cristo
morì,
e
tutto
il
mondo
sarebbe
perito”.
A
volte
poi
l’eccezionalità
del
discorso
su
Guglielma
sembra
scontrarsi
con
la
consueta
formularità
della
redazione
notarile,
producendo
un
corto
circuito
linguistico.
Così,
ad
esempio,
Guido
da
Cocconato
chiede
a
Maifreda
se
abbia
udito
o
sia
stata
edotta
che
la
“santa”
sepolta
a
Chiaravalle
“sarebbe
stata
vero
Dio
e
vero
uomo
[verus
Deus
et
verus
homo]
in
sesso
femminile,
come
Cristo
fu
vero
Dio
e
vero
uomo
in
sesso
maschile”.
Questa
formula
torna
a
più
riprese
nelle
domande
degli
inquisitori,
forse
perchè
non
se
ne
avvertiva
la
contraddittorietà:
o
forse
proprio
perché
tale
contraddittorietà
serviva
a
sottolineare
l’implicita
incoerenza
della
(presunta)
eresia.
Comunque
sia,
la
specificità
femminile
non
attraversa
solo
la
figura
di
Guglielma:
dagli
interrogatori
e
dalle
deposizioni
contenuti
negli
atti
emerge
anche
il
ruolo
di
primo
piano
giocato
da
un’altra
donna,
soror
Maifreda
da
Pirovano.
È
lei,
insieme
ad
Andrea,
la
principale
interprete
del
“culto”
guglielmita.
È
lei
che
anima
le
“conventicole”
e i
convivi
dei
devoti
e
delle
devote,
sia
nella
domus
di
Biassono
che
in
casa
di
privati.
È
lei
che
annuncia
con
toni
biblici
la
natura
divina
di
Guglielma.
È
lei
infine
il
perno
del
sistema
“ecclesiologico”
che
costituisce
uno
degli
elementi
più
spiccatamente
eterodossi
all’interno
del
discorso
devozionale
– o
almeno
del
metadiscorso
costruito
dagli
inquisitori.
La
“tesi”
centrale,
che
secondo
molti
testimoni
era
sostenuta
principalmente
da
Andrea,
era
che
“soror
Maifreda
doveva
essere
papa
e
vicaria
di
Guglielma
in
terra,
come
il
beato
Pietro
era
vicario
di
Cristo,
[…]
poiché
come
lo
Spirito
santo
era
in
forma
di
donna
in
Guglielma,
così
Maifreda
doveva
essere
vicaria
di
Guglielma
in
forma
di
donna”.
Questa
testimonianza
mette
bene
in
evidenza
il
gioco
di
parallelismi
incrociati
che
i
devoti
– o
gli
inquisitori
per
loro
–
stabiliscono
tanto
tra
Guglielma
e
Maifreda,
quanto
tra
Guglielma
e
Cristo
(e,
di
conseguenza,
tra
Maifreda
e
Pietro).
È
come
se
qui
il
discorso
devozionale
– o
il
metadiscorso
inquisitoriale
–
funzionassero
come
uno
specchio
al
femminile
dei
Vangeli
e
delle
istituzioni
che
ne
erano
(ne
sarebbero)
derivate.
Così,
“come
Cristo
inviò
lo
Spirito
santo
agli
apostoli,
così
tutte
le
devote
di
santa
Guglielma
avrebbero
dovuto
ricevere
lo
Spirito
santo”
e
“tutte
le
devote
di
Guglielma
avrebbero
dovuto
battezzare
ed
essere
apostoli
di
Cristo”.
Ancora,
“come
il
beato
Pietro
apostolo
celebrò
la
messa
e
predicò
in
Gerusalemme,
così
anche
lei
[Maifreda],
per
prima
avrebbe
dovuto
celebrare
la
messa
presso
il
sepolcro
dello
Spirito
santo,
cioè
Guglielma
[…]”.
Forse
è
proprio
questa
“usurpazione”
femminile
del
sacerdozio
e
dei
sacramenti
a
scandalizzare
maggiormente
gli
inquisitori:
lo
si
evince
dall’insistenza
con
cui
essi
cercano
di
avere
informazioni
a
proposito
di
alcune
ostie
conservate
a
Chiaravalle
e
che
sarebbero
state
usate
da
Maifreda
per
comunicare
i
fedeli.
Ma
lo
scandalo
non
tocca
solo
i
frati
Predicatori.
Quando
questi
domandano
a
Giacomo
da
Ferno
se
avesse
inteso
che
una
“donna
chiamata
Taria”
avrebbe
dovuto
diventare
cardinale,
egli
confessa
di
averlo
sentito:
ma
aggiunge
che
di
tutto
ciò
“aveva
grande
abominio
[magnam
abominationem]”.
A
meno
che
non
si
tratti
anche
qui
di
una
presa
di
distanze
a
scopo
difensivo,
sembra
potersi
affermare
che,
pur
divisi
dal
ruolo
che
in
quel
momento
giocavano
nel
processo,
Giacomo
e il
frate
Guido
da
Cocconato
si
collocavano
entrambi
nell’ambito
di
una
cultura
patriarcale
che
guardava
con
sospetto
il
protagonismo
femminile.
Tanto
più
che
questa
rivoluzionaria
“dottrina”
ecclesiologica
sembrava
accompagnarsi
– o
almeno
i
predicatori
volevano
che
si
accompagnasse
– ad
una
predicazione
eversiva
nei
confronti
della
Chiesa
di
Roma.
Dopo
aver
già
fatto
proprio
il
discorso
inquisitoriale,
Andrea
confessa
di
aver
creduto
e
insegnato
che
Maifreda,
una
volta
insediata
sulla
sede
papale,
avrebbe
dovuto
avere
“piena
e
vera
giurisdizione
e
autorità
di
vero
papa”
e
che
di
conseguenza
“avrebbero
dovuto
cessare
il
papa
e il
papato
della
chiesa
romana,
che
è in
carica,
e il
suo
rito
e
l’autorità
e la
curia
dei
cardinali”.
Quella
che
forse
poteva
essere
un’autentica
esigenza
di
rinnovamento
spirituale,
sentita
dai
devoti
e
dalle
devote
di
Guglielma,
diventa,
tramite
la
mediazione
inquisitoriale,
la
caricatura
di
un
disegno
sovversivo
dell’autorità
costituita.
La
condanna
al
rogo
di
Maifreda
(e
quella
“postuma”
di
Guglielma),
diventano
perciò
anche
un
modo
per
ristabilire
l’ordine
sociale,
spirituale
e di
genere
violato
dall’iniziativa
femminile.
Senza
scordare,
con
le
parole
della
Muraro,
che
“nel
1300
ci
troviamo
alla
vigilia
di
un’epoca
in
cui
la
società
europea
che
cambia
risulterà
incapace
di
rappresentare
l’essere
donna
e
l’esperienza
femminile
senza
deformarle.
Mi
riferisco,
è
chiaro,
ai
secoli
della
caccia
alle
streghe
che
doveva
coinvolgere
gran
parte
dell’Europa”.
Riferimenti
bibliografici:
Benedetti,
Marina,
Io
non
sono
Dio.
Guglielma
di
Milano
e i
figli
dello
Spirito
santo,
Edizioni
Biblioteca
Francescana,
Milano
1998.
Benedetti,
Marina
(a
cura
di),
Milano
1300.
I
processi
inquisitoriali
contro
le
devote
e i
devoti
di
Guglielma,
Libri
Scheiwiller,
Milano
1999.
Merlo,
Grado
Giovanni,
Inquisitori
a
Milano:
intenti
e
tecniche,
in
Benedetti,
Marina
(a
cura
di),
Milano
1300.
I
processi
inquisitoriali
contro
le
devote
e i
devoti
di
Guglielma,
Libri
Scheiwiller,
Milano
1999,
pp.
15-30.
–,
Streghe,
il
Mulino,
Bologna
2006.
Muraro,
Luisa,
Guglielma
e
Maifreda.
Storia
di
un’eresia
femminista,
La
Tartaruga,
Milano
1985.
–,
Prima
e
dopo
nella
vita
di
una
donna,
nella
storia
delle
donne,
in
Irigaray,
Luce
(a
cura
di),
Il
respiro
delle
donne,
il
Saggiatore,
Milano
2000,
pp.
45-53.
|
|
|
GBe
edita e pubblica:
.
-
Archeologia e Storia
.
-
Architettura
.
-
Edizioni d’Arte
.
- Libri
fotografici
.
- Poesia
.
-
Ristampe Anastatiche
.
-
Saggi inediti
.
.
InStoria.it
|