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N. 26 - Febbraio 2010 (LVII)

GUGLIELMA DI MILANO
un’eretica post mortem - Parte II

di Lorenzo Coccoli

 

Non tutti confessano di credere nell’identificazione Guglielma – Spirito santo, molti sono scettici sulla sua resurrezione dai morti, e nessuno infine pare ritener vero che avesse le stimmate (benché ve ne fosse la fama).

La quasi totalità dei testimoni è invece concorde nell’attribuire questi “insegnamenti” ad Andrea, a Maifreda, o, nella maggior parte dei casi, ad entrambi.

Di una cosa comunque sembrano certi: essi non possono essere fatti risalire fino a Guglielma. Anche lo stesso Andrea Saramita, almeno fino ad un certo punto, cerca di tenerla al riparo dagli inquisitori. E Maifreda riferisce che a chi le chiedeva un miracolo, ella avrebbe ribattuto: “Andate! Io non sono Dio”. Ancora, Danisio la avrebbe sentita dire ad Andrea: “Voi siete fatui poiché dite di me e credete ciò che non è. Io sono nata da un uomo e da una donna”.

Marchisio Secco riporta al riguardo un episodio singolare; essendo venuto a contesa con Andrea sulla questione, i due avevano fatto una scommessa e si erano recati da Guglielma per chiederle se ella riteneva o meno di essere lo Spirito santo. Ma la donna si era molto adirata e aveva risposto loro di essere fatta “di carne e ossa”, e che non era ciò che essi credevano. Marchisio aveva vinto.

Da queste testimonianze si potrebbe forse dedurre che le voci sulla presunta natura divina di Guglielma circolassero già mentre era ancora in vita, ma anche che ella avesse cercato in ogni modo di scoraggiare questa credenza.

Tuttavia, considerati i limiti propri della fonte inquisitoriale, risulta molto difficile stabilire con certezza se ciò corrisponda a verità, o se non sia invece un tentativo dei devoti e delle devote di difendere la memoria della loro “santa” dall’accusa infamante di apostasia: tanto più che Andrea, in una sua deposizione del 22 agosto – che è anche uno dei punti di svolta del processo – confesserà di aver derivato i suoi errori dalla stessa Guglielma (aggiungendovi però molto di suo). Allo stato attuale della documentazione, non è quindi possibile attribuire la paternità o la maternità della (presunta) eresia guglielmita. Forse non sarebbe nemmeno così interessante farlo.

Interessante è invece notare come anche chi dichiara di non credere che Guglielma sia lo Spirito santo, non ha remore ad ammettere la propria partecipazione attiva al culto in suo onore e la propria devozione nei suoi confronti: non ha remore cioè ad ammettere di considerarla santa.

Stefano da Crivella, ad esempio, che pure rimprovera aspramente la moglie per i suoi spropositi, ritenendoli in contrasto con la fede cattolica, riconosce senza esitazioni di aver fatto “quattro dalmatiche senza maniche” in reverenza di Guglielma, di tenere in casa delle assi di legno con cui avrebbero dovuto essere costruiti i gradini per l’altare sul quale si sarebbe dovuta celebrare la messa di canonizzazione della donna, di aver pagato qualcuno per dipingere la sua immagine e di aver illuminato il dipinto a sue spese.

Gerardo da Novazzano, pur permettendo alla moglie di partecipare ai convivi dei devoti e delle devote di Guglielma (e in qualche occasione partecipandovi egli stesso), l’aveva però ammonita di non credere che ella fosse lo Spirito santo.

E Marchisio, di cui abbiamo ricordato la scommessa con Andrea, confessa di aver illuminato il sepolcro della “santa” a Chiaravalle, e che “non gli sarebbe stato di nocumento, se Guglielma fosse stata in paradiso”.

Alla luce delle testimonianze processuali, sembrano insomma emergere due livelli di devozione all’interno del movimento guglielmita, entrambi comunque molto fluidi e senza un confine netto tra di loro.

Nel primo, che abbraccia un numero più limitato di fedeli, Guglielma è effettivamente l’incarnazione dello Spirito santo “in forma di donna”. Nel secondo, che si rivolge invece ad un “pubblico” più ampio, Guglielma ha invece tutti i connotati di una (possibile) santa.

A questi due livelli corrispondono anche due differenti forme di predicazione. La prima, i cui protagonisti sembrano essere Andrea e Maifreda, è a carattere privato, personale, a tratti quasi segreto: quando ad esempio frater Gerardo – che evidentemente non rientrava nella cerchia più ristretta del “culto” – aveva cercato di leggere “i libri e le scritture” di Andrea su Guglielma, questi non glielo aveva permesso, “chiudendole”.

Maifreda, che pure proclamava la natura divina della “santa”, “non lo diceva pubblicamente, se non davanti ad alcuni in modo privato”, ovvero nella sua camera del convento di Biassono, privatamente. Non è un caso che l’episodio, già ricordato, del solenne annuncio di Maifreda circa la divinità di Guglielma, si fosse svolto non in un luogo pubblico, ma nella casa di un privato.

Pubblica è invece la seconda forma di predicazione, affidata soprattutto ai monaci dell’abbazia di Chiaravalle: questi, spesso in occasione delle feste in suo onore, davanti anche a più di un centinaio di persone, “proponevano ed esponevano vari esempi di santi e dopo adattavano alla stessa santa Guglielma ciò che poteva così essere riferito a santa Guglielma”.

Di lei dicevano anche che era stata “buona, santa e devota, e cose simili”. L’interesse attivo (già osservato in precedenza) che lo stesso abate aveva manifestato nei confronti della “devozione” guglielmita, lascia pensare che egli, come altri, si attendesse una relativamente prossima canonizzazione della “santa”, e avesse previsto il prestigio che ne sarebbe venuto al suo monastero (il quale, non lo si dimentichi, ospitava il sepolcro di Guglielma).

In effetti, ci sono molti degli elementi che nella tradizione cristiana contribuiscono a formare la fama sanctitatis: una fama che, se non fosse stata trasformata in notitia criminis dall’intervento dell’inquisizione, avrebbe forse potuto davvero almeno avviare le procedure di santificazione.

Ma quali sono questi elementi che vorrebbero fare di Guglielma una santa? C’è la festa in suo onore, celebrata, in conformità a quella di tutti gli altri santi della Chiesa, nel giorno della sua morte, il 24 agosto. C’è il culto del luogo in cui è sepolta. C’è la conservazione delle reliquie.

C’è la cosiddetta “canonizzazione effettuata mediante le immagini”: prete Mirano ad esempio dipinge l’immagine di Guglielma nelle chiese milanesi di Santa Maria Minore e di Sant’Eufemia, ma sub nomine di santa Caterina. Ci sono testimonianze di una vita buona, pia e devota, fatta di parole oneste e religiose.

Ma soprattutto ci sono i miracoli: o, meglio, c’è il racconto dei miracoli. Anche qui, la tipologia miracolistica è piuttosto tradizionale, e i “poteri” sovrannaturali di Guglielma sono soprattutto taumaturgici. Andrea riferisce che in vita la “santa” avrebbe guarito Beltramo da Ferno da un segno che aveva in un occhio, e Albertone da Novate da una fistola. Ma anche dopo la sua morte, i miracoli non erano cessati: Andrea ha sentito “di alcune nobildonne che si erano votate a santa Guglielma e con le preghiere di lei avevano ottenuto ciò che esse chiedevano”.

Anche Sibilla dei Malconzati dice di essersi votata alla “santa” per una malattia dalla quale fu liberata. Questo potere taumaturgico si trasmette anche ad alcuni oggetti che hanno a che fare in qualche modo con Guglielma: ad esempio, secondo prete Mirano, il liquido con cui il suo corpo era stato lavato prima della sepoltura a Chiaravalle, sarebbe stato raccolto e portato nella casa delle sorores di Biassono, dove Maifreda ne avrebbe fatto distribuzione, versandolo sulle “infermità”.

Gli stessi monaci dell’abbazia cistercense, nelle loro predicazioni, “lodavano Guglielma dicendo che Guglielma era di buona e santa vita e di onesta conversazione e aveva fatto molti miracoli anche nei confronti di frati del monastero infermi”: e si noti che “vita santa” e “miracoli” sono proprio i due elementi che tradizionalmente connotano la santità. Ma le guarigioni prodigiose non sono le sole esperienze che collegano la sua figura alla dimensione del trascendente.

Altri (racconti di) fatti oltre-naturali si allacciano all’altro discorso devozionale, quello in cui Guglielma è lo Spirito santo. Qualcuno aveva detto a Giacomo da Ferno di averla vista in spetie columbe. Sibilla riferisce di aver sentito Andrea raccontare di aver assistito alla levitazione di Guglielma.

E anche nell’episodio già ricordato della riunione in casa di Giacomo da Ferno, alla solenne dichiarazione di Maifreda aveva fatto seguito quello che ai presenti era apparso come un magnum miraculum: Carabella aveva trovato nelle fibule del suo mantello tre nodi, che prima non c’erano.

La “congregazione” guglielmita risulta insomma in bilico tra la devozione verso una Guglielma santa, all’interno quindi dell’ortodossia cattolica, e l’adorazione di una Guglielma divina, manifestamente (almeno per gli inquisitori) eterodossa. Sarà proprio l’intervento dell’ufficium fidei a far pendere la bilancia da una sola parte, facendo entrare in scena una nuova versione di Guglielma: una Guglielma eretica.

Il discorso inquisitoriale e il discorso devozionale

Abbiamo già fatto qualche osservazione a proposito del carattere peculiare della fonte che stiamo utilizzando. E abbiamo visto come in essa non sia in gioco tanto la realtà storica, quanto la sua articolazione tramite il confronto di due discorsi contrapposti: quello degli inquisitori e quello dei devoti e delle devote (quest’ultimo attraversato però da quella sorta di dualismo che abbiamo cercato di illustrare sopra).

La vittoria – in parte scontata – del primo sul secondo determinerà infine il destino (della memoria) di Guglielma e dei “guglielmiti”.

Cominciamo dal discorso inquisitoriale. Esso, in ultima analisi, è anche quello che dà forma ai quaderni di Beltramo Salvagno: quando leggiamo gli atti del processo, stiamo leggendo una storia scritta e sistemata dai vincitori. E proprio nella costruzione stessa del documento si può scorgere la prima evidente manifestazione della strategia degli inquisitori.

Innanzitutto, nel manoscritto dell’ambrosiana gli atti non sono disposti in ordine cronologico, ma secondo una logica compositiva di tipo didascalico: gli interrogatori degli imputati principali, Andrea e Maifreda, sono posti per lo più in posizione “forte”, all’inizio o alla fine dei vari quaderni; le rivelazioni che invece permettono l’avvio del processo, quelle di Gerardo da Novazzano in data 18 luglio, sono relegate in una collocazione senza rilievo; infine, nel primo quaderno le deposizioni di alcuni testimoni sono fatte seguire, immediatamente ed esemplarmente, dalle loro rispettive confessioni.

Ma l’intervento del filtro inquisitoriale è ben visibile anche nel linguaggio adoperato dal notaio nel trascrivere le risposte degli interrogati: è qui che vengono alla luce le categorie teologiche e le formule canonistico-giuridiche di cui quel filtro è composto.

Ad esempio, nella sua deposizione, frater Gerardo aveva informato Lanfranco da Bergamo che i devoti e le devote di Guglielma attendevano la sua resurrezione. Ma nelle domande degli inquisitori, questa indicazione si arricchisce di un’ulteriore specificazione, ripetuta poi formularmente nella maggior parte degli interrogatori: i frati Predicatori chiedono cioè a chi si trovano di fronte se egli mai abbia sentito o creduto che Guglielma avrebbe dovuto risorgere “prima della resurrezione generale”.

È evidente come la precisazione teologica contribuisca nel contempo a sottolineare l’enormità di una simile credenza (almeno per gli standard dell’ortodossia cattolica). Ma l’intervento della cultura filosofica dei titolari dell’ufficium (e forse dello stesso Beltramo) si fa palese quando nelle confessioni di alcuni personaggi compaiono inaspettatamente formule di sapore scolastico: è il caso ad esempio delle domine Pietra di Alzate e Catella dei Giozi, le quali avrebbero dichiarato – il notaio non fa distinzioni, redigendo un unico atto per entrambe – di credere che Guglielma “era lo Spirito santo e in lei vi era la sostanza [substantia] dello Spirito santo e della Divinità”.

Ma, oltre al loro linguaggio, anche la logica stessa del discorso inquisitoriale sembra procedere secondo un andamento scolastico-sillogistico. Sia Maifreda che Andrea ammettono (o meglio sono costretti ad ammettere dallo stringente ragionamento degli inquisitori) di ritenere che Guglielma fosse “di maggiore perfezione” della Vergine Maria.

L’inferenza che è all’opera dietro queste confessioni, e che emerge qui e là nelle deposizioni, è all’incirca la seguente: se Guglielma è lo Spirito santo, e se lo Spirito santo (in quanto Terza Persona della Trinità) è di maggior perfezione rispetto alla Vergine, allora Guglielma deve essere superiore alla stessa Madre di Dio.

Ancora una volta, la loro superiore cultura serve ai frati Predicatori per mettere in evidenza le assurdità delle posizioni eterodosse.

In questo modo, le voci, le dicerie, i dicitur che circolavano in maniera disomogenea tra i devoti e le devote, vengono raccolti negli interrogatori, fatti passare attraverso il vaglio inquisitoriale, e qui riorganizzati secondo gli schemi della cultura teologica e filosofica occidentale della fine del XIII secolo (o almeno secondo quanto di quella cultura era in possesso degli inquisitori): alla fine il risultato è qualcosa di assolutamente nuovo, qualcosa però che la macchina processuale dell’ufficium costringe gli inquisiti a fare proprio.

Ecco ad esempio che Giacoma da Nova confessa “di aver detto e creduto che santa Guglielma era lo Spirito santo e che doveva risorgere prima del giorno del giudizio, e che doveva ascendere in cielo visibilmente e corporalmente, e che per lei dovevano essere salvati Giudei e Saraceni”: un insieme variegato di informazioni, fornite ora dall’uno ora dall’altro testimone, è stato trasformato in un corpus dottrinale unitario, strutturato attorno a diversi articoli di fede, che Giacoma deve accettare per intero senza distinguo.

Più che punto di passaggio dalla realtà alla metarealtà, qui il processo diventa occasione di spostamento dal discorso (quello frammentario e discorde dei devoti e delle devote) al metadiscorso (quello ordinato e sistematizzato dagli inquisitori).

Sembra addirittura possibile individuare negli atti il momento preciso in cui questo spostamento si fa definitivo. In una deposizione del 22 agosto, Andrea confessa a frate Rainerio di aver derivato i suoi “errori” dottrinali direttamente da domina Guglielma.

Segue un’elencazione di detti errori che è praticamente identica a quella già incontrata con Giacoma da Nova. La svolta è decisiva: fino a quel momento nessuno, nemmeno Andrea, aveva attribuito a Guglielma la responsabilità dell’eresia.

Ora invece, per il tramite del Saramita, Guglielma parla il metadiscorso degli inquisitori. Il precario equilibrio tra santa ed eretica è spezzato a favore della seconda: negli stessi quaderni di Beltramo, l’attributo di “santa”, che fino al 22 agosto aveva accompagnato (anche nelle domande dei frati domenicani) il nome di Guglielma, a partire da quella data scompare, sostituito qualche volta da “domina”.

Persino nel linguaggio della fonte, la presunta figlia del re di Boemia è ormai esclusa dalla categoria culturale della santità, ed inclusa invece in quella dell’eresia.

Ma il discorso inquisitoriale non si esaurisce tutto nei suoi schemi ideologici e nelle sue conoscenze teologiche.

C’è di più: in quanto nominati direttamente “dalla sede apostolica”, i titolari dell’ufficium sono anche i rappresentanti dell’autorità (spirituale) legittima e hanno di conseguenza una reale capacità di coercizione. E, benché non sembri abusarne, anche in questa occasione l’inquisizione fa ricorso all’intimidazione e alla violenza: emblematica al riguardo è la seconda deposizione di Gerardo, in cui egli riferisce di aver avvertito Andrea di guardarsi dai frati Predicatori poiché essi “fanno minacce”.

È proprio questo binomio di potere e uso della forza a far sì che il discorso inquisitoriale acquisti una concreta incidenza performativa nei confronti della realtà: ecco allora che la condanna di Guglielma e dei suoi “complici” sul piano del metadiscorso, si traduce sul piano del reale nella riesumazione e distruzione dei resti della “santa”, e nel (probabile) rogo di Andrea e Maifreda. Ora la vittoria degli inquisitori è davvero completa.

Ma non bisogna pensare che dall’altra parte ci si arrenda senza cercare di opporre una qualche resistenza: resistenza di cui negli atti rimane traccia in forme discorsive conflittuali più o meno esplicite.

L’episodio più significativo in questo senso si colloca sul piano del diritto, quasi ad evidenziare l’importanza che il fattore giuridico-istituzionale rivestiva anche per i fedeli: Beltramo da Ferno racconta che all’epoca in cui Andrea era stato citato dall’ufficium, insieme allo stesso Saramita si era recato nella casa dei frati Minori di Milano per chiedere consiglio a frate Daniele da Ferno (probabilmente un suo parente).

Questi li aveva informati di alcune lettere “con bolla del dominus papa”, che erano in possesso di frate Pagano da Pietrasanta, nelle quali “si diceva che gli inquisitori erano cassati o sospesi dall’ufficio inquisitoriale in Milano e suo distretto”.

Recatisi da frate Pagano, i due avevano effettivamente trovato tali lettere: su consiglio di frate Daniele e dello stesso abate di Chiaravalle, le avevano fatto trascrivere dal notaio di Pagano. L’abate si era allora rivolto direttamente all’arcivescovo, chiedendogli di avocare a sé l’inchiesta, ottenendo però solo una (vaga) promessa di interessamento.

Il tentativo si risolve in un buco nell’acqua: ma è interessante notare come, ancora prima che il processo entrasse nel vivo, la rete dei devoti si fosse attivata per contestarne all’origine la legittimità (anche se ciò non significava mettere in discussione l’esistenza dell’ufficio dell’inquisizione).

Venuti meno i mezzi giuridici, rimangono tuttavia quelli, per così dire, narrativi. Il discorso devozionale, che nella “congregazione” guglielmita circolava anche in forma scritta, cerca di dare un senso all’evento tragico che stava investendo la comunità dei fedeli. Tanto più che quella non era la prima volta che l’ufficium fidei procedeva contro i devoti e le devote di Guglielma: già circa sedici anni prima, a pochi anni dalla morte della “santa”, il frate Maifreda da Dovera aveva condotto un’inchiesta, che si era conclusa con l’abiura e la successiva assoluzione di tutti i maggiori protagonisti della (presunta) eresia.

In un orizzonte di religiosità biblica ed evangelica, la pesante materialità dei due processi viene interpretata e collocata all’interno dello svolgimento di un destino provvidenziale. Prete Mirano informa gli inquisitori che i devoti e le devote credevano “di sostenere la Passione per amore dello Spirito santo, come gli apostoli l’avevano sostenuta per Cristo”.

E frate Gerardo riferisce che quindici anni prima aveva trovato, in un salterio preso a prestito da Andrea, un foglio in cui era scritto che “i figli dello Spirito santo erano dispersi e posti in carcere”; interrogato a tal proposito, lo stesso frater aveva risposto che “ciò significava che gli inquisitori avevano citato alcuni tra i devoti di santa Guglielma”.

È evidente come il discorso devozionale sia strutturato su parallelismi e linguaggi presi a prestito dai Vangeli: del resto proprio una sorta di imitatio Christi aveva avuto un ruolo determinante nell’articolazione dei tratti peculiari della figura di Guglielma.

Quando poi il sentimento di ineluttabilità del proprio destino lascia spazio alla speranza, allora la ricerca di senso si fa sogno di salvezza: si fa visione, materializzando così l’immaginario delle devote e dei devoti. Sempre secondo prete Mirano, che riporta quanto gli avrebbe raccontato Giacomo da Ferno, Albertone da Novate, sul sepolcro della “santa”, avrebbe visto “che Andrea era legato mani e piedi dai frati e che la beata Guglielma l’aveva liberato”. Sempre ad Albertone sarebbe apparsa Maifreda inseguita dai frati che volevano catturarla, e un angelo che l’aveva difesa brandendo una spada insanguinata.

La dinamica che ne risulta è piuttosto interessante. Negli atti del processo assistiamo al conflitto di due discorsi che cercano rispettivamente di prevalere o di resistere, entrambi però tentando di assimilare l’avversario nella propria economia discorsiva. Così, ad esempio, gli inquisitori fanno proprio, almeno fino ad un certo punto, l’appellativo di “santa” che i fedeli attribuivano a Guglielma. A loro volta, questi ultimi – anche se dobbiamo sempre tener conto delle disomogeneità interne al gruppo – cercano di inserire il dramma delle inchieste degli inquisitori all’interno dei loro schemi provvidenziali o salvifici. Non c’è dubbio su chi ne esca vincitore: quel “di più” di autorità e di violenza di cui abbiamo parlato determina il predominio del discorso inquisitoriale. L’importante però è non leggere questa vittoria in senso univoco e aproblematico.

Uno specifico femminile?

Nel 1985 esce per le edizioni La Tartaruga “Guglielma e Maifreda. Storia di un’eresia femminista”, di Luisa Muraro, esponente di spicco del pensiero della differenza sessuale. Il libro tenta di interpretare l’esperienza delle due donne milanesi come manifestazione storica della libertà femminile e di un accesso femminile alla produzione simbolica: per la filosofa, Guglielma sarebbe stata “una donna divina che significava per donne e uomini l’incarnazione femminile di Dio”. L’operazione è notevole e ricca di intuizioni, benché si presti qua e là a qualche (a volte anche considerevole) distorsione delle fonti.

Tuttavia, è innegabile che la vicenda umana e spirituale di cui ci stiamo occupando presenti vari elementi di protagonismo femminile. Che questa non fosse la normalità nella Milano del 1300 lo si evince dall’accento che tanto gli inquisitori quanto i testimoni pongono su questa specificità di genere. Il solito prete Mirano dice di aver sentito da Andrea e Maifreda che “come Cristo aveva patito in forma di uomo [in forma hominis], così Guglielma doveva patire in forma di donna [in forma mulieris]”. Sibilla dichiara che, almeno a detta di Andrea, Guglielma gli avrebbe confidato – mentre levitava – di essere “lo Spirito santo che si rivelava in spetie mulieris, precisando […] che, se fosse venuta in spetie hominis, sarebbe morta, come Cristo morì, e tutto il mondo sarebbe perito”.

A volte poi l’eccezionalità del discorso su Guglielma sembra scontrarsi con la consueta formularità della redazione notarile, producendo un corto circuito linguistico. Così, ad esempio, Guido da Cocconato chiede a Maifreda se abbia udito o sia stata edotta che la “santa” sepolta a Chiaravalle “sarebbe stata vero Dio e vero uomo [verus Deus et verus homo] in sesso femminile, come Cristo fu vero Dio e vero uomo in sesso maschile”. Questa formula torna a più riprese nelle domande degli inquisitori, forse perchè non se ne avvertiva la contraddittorietà: o forse proprio perché tale contraddittorietà serviva a sottolineare l’implicita incoerenza della (presunta) eresia.

Comunque sia, la specificità femminile non attraversa solo la figura di Guglielma: dagli interrogatori e dalle deposizioni contenuti negli atti emerge anche il ruolo di primo piano giocato da un’altra donna, soror Maifreda da Pirovano. È lei, insieme ad Andrea, la principale interprete del “culto” guglielmita. È lei che anima le “conventicole” e i convivi dei devoti e delle devote, sia nella domus di Biassono che in casa di privati. È lei che annuncia con toni biblici la natura divina di Guglielma. È lei infine il perno del sistema “ecclesiologico” che costituisce uno degli elementi più spiccatamente eterodossi all’interno del discorso devozionale – o almeno del metadiscorso costruito dagli inquisitori.

La “tesi” centrale, che secondo molti testimoni era sostenuta principalmente da Andrea, era che “soror Maifreda doveva essere papa e vicaria di Guglielma in terra, come il beato Pietro era vicario di Cristo, […] poiché come lo Spirito santo era in forma di donna in Guglielma, così Maifreda doveva essere vicaria di Guglielma in forma di donna”. Questa testimonianza mette bene in evidenza il gioco di parallelismi incrociati che i devoti – o gli inquisitori per loro – stabiliscono tanto tra Guglielma e Maifreda, quanto tra Guglielma e Cristo (e, di conseguenza, tra Maifreda e Pietro). È come se qui il discorso devozionale – o il metadiscorso inquisitoriale – funzionassero come uno specchio al femminile dei Vangeli e delle istituzioni che ne erano (ne sarebbero) derivate. Così, “come Cristo inviò lo Spirito santo agli apostoli, così tutte le devote di santa Guglielma avrebbero dovuto ricevere lo Spirito santo” e “tutte le devote di Guglielma avrebbero dovuto battezzare ed essere apostoli di Cristo”.

Ancora, “come il beato Pietro apostolo celebrò la messa e predicò in Gerusalemme, così anche lei [Maifreda], per prima avrebbe dovuto celebrare la messa presso il sepolcro dello Spirito santo, cioè Guglielma […]”. Forse è proprio questa “usurpazione” femminile del sacerdozio e dei sacramenti a scandalizzare maggiormente gli inquisitori: lo si evince dall’insistenza con cui essi cercano di avere informazioni a proposito di alcune ostie conservate a Chiaravalle e che sarebbero state usate da Maifreda per comunicare i fedeli. Ma lo scandalo non tocca solo i frati Predicatori. Quando questi domandano a Giacomo da Ferno se avesse inteso che una “donna chiamata Taria” avrebbe dovuto diventare cardinale, egli confessa di averlo sentito: ma aggiunge che di tutto ciò “aveva grande abominio [magnam abominationem]”. A meno che non si tratti anche qui di una presa di distanze a scopo difensivo, sembra potersi affermare che, pur divisi dal ruolo che in quel momento giocavano nel processo, Giacomo e il frate Guido da Cocconato si collocavano entrambi nell’ambito di una cultura patriarcale che guardava con sospetto il protagonismo femminile. Tanto più che questa rivoluzionaria “dottrina” ecclesiologica sembrava accompagnarsi – o almeno i predicatori volevano che si accompagnasse – ad una predicazione eversiva nei confronti della Chiesa di Roma. Dopo aver già fatto proprio il discorso inquisitoriale, Andrea confessa di aver creduto e insegnato che Maifreda, una volta insediata sulla sede papale, avrebbe dovuto avere “piena e vera giurisdizione e autorità di vero papa” e che di conseguenza “avrebbero dovuto cessare il papa e il papato della chiesa romana, che è in carica, e il suo rito e l’autorità e la curia dei cardinali”. Quella che forse poteva essere un’autentica esigenza di rinnovamento spirituale, sentita dai devoti e dalle devote di Guglielma, diventa, tramite la mediazione inquisitoriale, la caricatura di un disegno sovversivo dell’autorità costituita.
La condanna al rogo di Maifreda (e quella “postuma” di Guglielma), diventano perciò anche un modo per ristabilire l’ordine sociale, spirituale e di genere violato dall’iniziativa femminile. Senza scordare, con le parole della Muraro, che “nel 1300 ci troviamo alla vigilia di un’epoca in cui la società europea che cambia risulterà incapace di rappresentare l’essere donna e l’esperienza femminile senza deformarle. Mi riferisco, è chiaro, ai secoli della caccia alle streghe che doveva coinvolgere gran parte dell’Europa”.

 


Riferimenti bibliografici:


Benedetti, Marina, Io non sono Dio. Guglielma di Milano e i figli dello Spirito santo, Edizioni Biblioteca Francescana, Milano 1998.
Benedetti, Marina (a cura di), Milano 1300. I processi inquisitoriali contro le devote e i devoti di Guglielma, Libri Scheiwiller, Milano 1999.
Merlo, Grado Giovanni, Inquisitori a Milano: intenti e tecniche, in Benedetti, Marina (a cura di), Milano 1300. I processi inquisitoriali contro le devote e i devoti di Guglielma, Libri Scheiwiller, Milano 1999, pp. 15-30.
–, Streghe, il Mulino, Bologna 2006.
Muraro, Luisa, Guglielma e Maifreda. Storia di un’eresia femminista, La Tartaruga, Milano 1985.
–, Prima e dopo nella vita di una donna, nella storia delle donne, in Irigaray, Luce (a cura di), Il respiro delle donne, il Saggiatore, Milano 2000, pp. 45-53.


 

 

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