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N. 25 - Gennaio 2010 (LVI)

GUGLIELMA DI MILANO
un’eretica post mortem - Parte I

di Lorenzo Coccoli

 

Le speranze di chi volesse ricostruire la vera vicenda storica, biografica e spirituale, di “santa” Guglielma (Guglielma la Boema? Guglielma di Milano?) e delle sue e dei suoi fedeli, consumatasi a Milano negli ultimi decenni del XIII secolo, rischiano di rimanere frustrate per più di un motivo.

Innanzitutto, per la limitatezza e incompletezza della base documentaria: in effetti, la fonte principale (e pressoché unica) di cui disponiamo a riguardo – i quattro quaderni delle imbreviature del notaio Beltramo Salvagno (manoscritto A. 227 inf. della Biblioteca Ambrosiana di Milano), che riportano gli atti del processo inquisitoriale del 1300 contro i devoti e le devote di Guglielma – non contiene che una parte dei documenti redatti in quell’occasione.

Abbiamo notizia di almeno un altro notaio che in quel periodo operava al servizio dell’Inquisizione milanese: Maifredo da Cera, il quale compare spesso nei nostri quaderni anche in qualità di testimone. Più volte nel testo si accenna ad atti da lui trascritti, e in un caso si fa esplicita menzione di un “quaternus Mayfredi de Cera”, che quasi certamente doveva servire da completamento alle imbreviature del notaio Beltramo: lì erano contenuti con ogni probabilità i documenti che mancano nel manoscritto pervenutoci, tra cui le registrazioni di alcune deposizioni e tutti i testi delle sentenze emanate dagli inquisitori.

Oltre a questo dato, per così dire, contingente, legato cioè alla conservazione e alla trasmissione delle fonti, c’è un limite più strutturalmente dipendente dal carattere peculiare della documentazione inquisitoriale.

Il punto è che qui noi non abbiamo a che fare con le esatte parole pronunciate dagli inquisiti e dalle inquisite nel corso degli interrogatori, ma solo con una loro registrazione notarile, per di più nella forma del discorso indiretto: così, nel passaggio dall’oralità alla scrittura, l’intervento della mediazione culturale e ideologica degli inquisitori e del notaio diventa inevitabile.

Certo, non siamo in grado di accertare con precisione il peso di una tale mediazione: ma è difficile allontanare il sospetto che il filtro inquisitoriale, che entra in gioco con le sue categorie teologiche e le sue formule procedurali al momento della trascrizione, abbia almeno in parte deformato le testimonianze delle devote e dei devoti chiamati a deporre, inficiandone dunque l’attendibilità letterale.

Ma c’è di più. I discorsi e le esperienze dei e delle testimoni non ci arrivano filtrati solamente dalla lente dottrinale dei frati titolari dell’ufficio dell’inquisizione. Non bisogna dimenticare infatti che le fedeli e i fedeli di Guglielma prendono parte al processo soprattutto nelle vesti di imputati, necessitati dunque ad elaborare una strategia difensiva.

Questa strategia, a volte improvvisata, a volte premeditata, li porta in qualche misura – che, come sopra, non possiamo stabilire con certezza – a nascondere o ad alterare la “realtà” dei fatti, nel tentativo di tirarsi fuori da una situazione sicuramente difficile.

In questo caso, dire la verità non paga, e Maifreda da Pirovano e Andrea Saramita, i due protagonisti della (presunta) eresia guglielmita, sembrano esserne ben consapevoli. Invitando Sibilla dei Malconzati, una delle devote, a mentire agli inquisitori, essi le avrebbero detto: “Se voi direte la verità, noi siamo morti”. Colpisce la drammatica vividicità della testimonianza.

In conclusione, negli atti del processo che ci sono pervenuti, possiamo intravedere l’azione conflittuale di due ordini di discorso: quello inquisitoriale, operante secondo schemi interpretativi piuttosto rigidi, elaborati all’interno delle disquisizioni teologiche medievali, e quello devozionale, in cui invece sembra attivo un pastiche di elementi di cultura popolare (religiosa e non), di esperienze nate nell’orizzonte della comune reverenza a Guglielma, di passi biblici ed evangelici, nonché forse di qualche nozione di quella stessa scienza teologica adoperata dagli inquisitori. E nonostante il primo sia dotato senza dubbio di maggior forza istituzionale, il secondo cerca comunque di tenergli testa con varie forme di “resistenza”, che cercherò di illustrare in seguito.

Tuttavia, in questo complesso di mediazioni culturali contrapposte e sovrapposte, quello che si fa più oscuro, più indecifrabile, più ostile alla ricostruzione storica è il “fatto”: come in un Rashômon occidentale, qui l’oggettività dei fatti – ammesso e non concesso che una tale oggettività si possa mai dare – scompare dietro la molteplicità delle prospettive.

Ciò risulta evidente proprio nel caso di Guglielma, che paradossalmente sembra essere il personaggio più in ombra nelle domande degli inquisitori e nelle risposte degli inquisiti e delle inquisite. A meno di un qualche clamoroso ampliamento della base documentaria, lo storico si deve rassegnare: negli atti del processo abbiamo solo una Guglielma ricordata e raccontata, una Guglielma immaginata, una Guglielma santificata o condannata.

Ma una cosa di certo non abbiamo (e non possiamo avere): Guglielma.

Il contesto storico del processo

Il processo dell’ufficium fidei contro i devoti e le devote di Guglielma si apre a Milano nel luglio del 1300 e si chiude probabilmente nel novembre dello stesso anno (benché l’ultima deposizione presente nei quaderni di Beltramo, quella di Marchisio Secco, sia datata al febbraio del 1302).

I titolari dell’inchiesta, “nominati inquisitori degli eretici in Lombardia e Marca di Genova” dalla sede apostolica, sono due frati dell’Ordine dei Predicatori che conducono gli interrogatori per lo più alternando la loro presenza: Rainerio da Pirovano e Guido da Cocconato, quest’ultimo personaggio di spicco della repressione antiereticale lombarda in quel periodo.

Oltre a questi due personaggi, che restano comunque i protagonisti dell’azione inquisitoriale, va ricordato almeno il frate domenicano Lanfranco “de Amiziis” da Bergamo, titolare della sede pavese dell’ufficium, che compare in qualche occasione nella nostra fonte (soprattutto in qualità di auditore): è lui che riceve la deposizione di Gerardo da Novazzano, frater del Terz’Ordine, la cui confessione sembra essere la pietra angolare su cui si fonda tutta l’inchiesta.

Il nome di Lanfranco ci permette per un momento di ampliare la nostra prospettiva ad un contesto un po’ più esteso: in effetti, l’inquisitore pavese aveva collaborato in quello stesso anno al processo che aveva portato alla condanna per eresia di Gherardo Segarelli, bruciato sul rogo a Parma proprio nello stesso giorno (il 18 luglio) in cui Gerardo viene interrogato a Milano.

È un caso? Forse sì. Resta il fatto che il 1300 è anche l’anno del primo Giubileo, e che proprio la fine del Duecento vede l’inizio della crisi dei movimenti ereticali e un parallelo intensificarsi delle attività inquisitoriali.

Per quanto riguarda invece la situazione politica milanese sullo scorcio del XIII secolo, la città nel 1300 è in mano a Matteo Visconti, “Signore” di Milano su nomina del Consiglio cittadino dal 1291 e vicario imperiale per la Lombardia dal 1294.

Sembra che una delle imputate principali nel processo inquisitoriale, soror Maifreda da Pirovano, fosse imparentata piuttosto strettamente con Matteo, la cui madre era Anastasia da Pirovano (alcune fonti di poco successive indicano i due come cugini).

Inoltre, nell’inchiesta sono coinvolti anche due gruppi parentali di grande rilievo nella società milanese dell’epoca, vicini ai Visconti: i Cotica, che accolgono Maifreda quando questa è costretta ad abbandonare il convento delle Umiliate di Biassono, e i Garbagnate.

Per questo motivo, alcuni storici hanno voluto vedere nell’azione dell’ufficium contro i Guglielmiti un ulteriore capitolo delle annose lotte intestine tra i Visconti e i della Torre, combattute anche a colpi di accuse reciproche di eresia.

Tuttavia, allo stato attuale della documentazione, non ci è dato sapere se il processo avesse o meno un movente politico. Anzi, la partecipazione di un esponente visconteo (Matteo Visconti preposito di Desio) al consilium su soror Giacoma da Nova, una delle devote di Guglielma, e il suo assenso alla condanna di quest’ultima (nemine discrepante), sembrerebbero in contraddizione con tale ipotesi.

Comunque sia, quel che è certo è che il contesto politico di quegli anni è molto agitato: nel 1302 Matteo Visconti sarà costretto dai “Torriani” ad abbandonare la città, per farvi ritorno solo nel 1311.

Guglielma

Quando il processo ha inizio, Guglielma è morta da poco meno di venti anni. Nei quaderni del notaio Beltramo, di lei resta ben poco: più che ricostruire la sua vita, gli inquisitori vogliono indagare su ciò che attorno a lei si è sviluppato dopo la sua morte.

Inoltre, le scarse notizie di cui possiamo disporre sono sempre incerte, a volte contraddittorie, e avvolte dall’indeterminatezza caratteristica delle dicerie: spesso negli atti le informazioni sul suo conto sono introdotte da un dicitur. Ma cosa “si dice” di Guglielma?

Guglielma sarebbe arrivata a Milano forse negli anni Sessanta del Duecento, portando con sé anche un figlio. Da quel momento avrebbe dimorato in Bregogna e nella Pusterla Nuova, prima di stabilirsi definitivamente in una camera presso la parrocchia di San Pietro all’Orto, di proprietà del monastero di Chiaravalle – forse acquistata appositamente per lei.

Qui muore il 24 agosto del 1281 o del 1282, mentre cioè “era in corso la guerra tra Milanesi e Lodigiani”. Inizialmente tumulata nella stessa chiesa di San Pietro, circa un mese dopo la morte viene traslata (con una processione solenne che ha tutti i caratteri dell’ufficialità) nell’abbazia cistercense di Chiaravalle, dove il suo corpo viene lavato con acqua e vino, vestito con abiti fatti per l’occasione, e nuovamente sepolto. Qui rimane all’incirca fino al settembre del 1300, quando gli inquisitori esumano i suoi resti per disperderli e bruciarli.

Questi gli elementi (quasi) certi. Possiamo aggiungere che prima di essere nota col nome di Guglielma “era stata chiamata Felice”, e che era una donna di “buona” condizione sociale, anche se è difficile precisare cosa ciò voglia concretamente dire.

Merita un accenno la questione della sua provenienza. Tra i devoti e le devote girava la voce che fosse figlia del re di Boemia. Andrea Saramita, forse la persona più vicina a Guglielma quando essa era ancora in vita, nonché uno dei principali animatori del suo “culto”, lo avrebbe addirittura accertato in un viaggio intrapreso con prete Mirano da Garbagnate alla corte boema.

Lo scopo sarebbe stato quello di informare il re della morte della “figlia” (mentre gli inquisitori sospettano che in realtà Andrea cercasse appoggi per la causa di canonizzazione di Guglielma). Giunti in Boemia, avevano scoperto che nel frattempo anche il sovrano era morto, ma avevano potuto comunque avere informazioni certe sulle nobili origini della donna di cui erano devoti.

Negli atti processuali non si fa mai cenno al nome del re boemo in questione. Ma in un’altra deposizione Andrea afferma che la madre di Guglielma era la regina Costanza: il che riporterebbe dunque al nome di Ottocaro I, re di Boemia dal 1198 al 1230.

Questo farebbe inoltre della nostra “santa” la sorella di sant’Agnese di Boemia e la cugina di santa Elisabetta di Turingia. Tuttavia, questo dato è molto incerto: non ne abbiamo attestazioni in altre fonti, e anche nei nostri quaderni la notizia compare solo raramente.
Sembra allora più probabile, come sostiene Marina Benedetti, vedere nelle voci sulla presunta provenienza boema di Guglielma non tanto una realtà genealogica, quanto una invenzione agiografica, funzionale a quella sorta di canonizzazione popolare di cui la donna è oggetto sin da prima della sua morte.

Infine, a conclusione di questo tentativo di biografia, qualche considerazione sui rapporti di Guglielma e della “devozione” guglielmita con gli enti religiosi locali (e non). Dalle testimonianze emerge chiaramente l’appoggio attivo dell’abate e dei monaci del monastero di Chiaravalle nei confronti suoi e dei suoi “fedeli”.

Come abbiamo visto, è l’abbazia cistercense che provvede ad acquistare “da quelli dei Miracapite” la camera in cui Guglielma abiterà nell’ultima parte della sua vita; e sembra che la stessa Guglielma avesse espresso la sua volontà di essere sepolta in Chiaravalle.

È l’abate a fornire “pane, vino e ceci” per i convivi dei devoti e ad ordinare ad affidare a un monaco, Ubertino, il sepolcro della “santa”. I monaci prendono parte alle feste in suo onore, e predicano in sua lode. Abbiamo addirittura notizia di una contesa tra l’abbazia e la parrocchia di San Pietro all’Orto su dove dovesse venir conservata la cassa in cui originariamente era stata sepolta Guglielma.

Sembra dunque che più di un istituto religioso avesse scommesso sin da subito sull’importanza strategica della sua figura, soprattutto in vista di una sua possibile canonizzazione, data la fama di santità che si andava diffondendo.

Questa relazione positiva con alcuni dei più importanti centri di culto milanesi sembra trovare un’eco nelle istituzioni civili: anche se non sappiamo se il marchese di Monferrato abbia concesso la scorta richiesta da Andrea, è indubbio quantomeno che il rito di traslazione non fu ostacolato dalle autorità cittadine.

Ma non ci sono solo luci. Maifreda ricorda di aver sentito dire che Guglielma, già da viva, era stata citata dagli inquisitori. E ancora, afferma che le sue consorelle Umiliate la rimproveravano per i convivi che essa teneva nella domus di Biassono con i devoti e le devote guglielmite.

Anche se non possiamo essere sicuri dell’attendibilità di queste dichiarazioni, sappiamo con certezza che Maifreda fu allontanata dal convento, forse proprio a causa del suo “impegno” devozionale.

Sembra dunque che non tutti gli enti religiosi milanesi apprezzassero senza riserve il movimento che si era venuto a creare attorno alla figura di “santa” Guglielma.

Santa, eretica o donna divina?

Ma veniamo ora al cuore della vicenda. La questione è spinosa, ma costituisce forse il motivo di maggior interesse del caso che stiamo esaminando.

Il 18 luglio, frater Gerardo da Novazzano, convocato dall’inquisitore Lanfranco da Bergamo, si presenta per testimoniare. La prima domanda del frate domenicano riportata negli atti è piuttosto generica: egli chiede a Gerardo “se sappia o abbia udito qualcosa che sia o appaia essere contro la fede cattolica, e specialmente di una santa Guglielma, che è sepolta nel monastero di Chiaravalle”.

Gerardo – che qualche anno prima era già stato coinvolto in un’altra inchiesta e aveva abiurato nelle mani dell’inquisitore, giurando da quel momento di dire sempre la verità ai titolari dell’ufficium fidei – si abbandona ad una confessione piena e (apparentemente) spontanea, senza che Lanfranco debba più intervenire a sollecitarlo con altre domande (stando almeno alla trascrizione di Beltramo): è facile intuire come siano proprio le informazioni da lui fornite che permettono a Guido da Cocconato e Rainerio da Pirovano di costruire il questionario di base che poi sottoporranno ai testimoni nei loro interrogatori. Circa quindici anni prima, Gerardo avrebbe sentito dire da Andrea Saramita che “santa Guglielma avrebbe dovuto risorgere” e che “della stessa credenza sono molte persone”; che “santa Guglielma aveva le cinque piaghe nel suo corpo simili alle piaghe di Gesù Cristo”; che “Guglielma è lo Spirito santo e che lo Spirito santo sarebbe risorto in lei”. Fermiamoci qui per il momento.

A partire da queste notizie fluide, confuse, vaghe, gli inquisitori intervengono a mettere ordine con le loro categorie teologiche e culturali: quello che così ottengono, è un vero e proprio corpus dottrinale, cristallizzato e sistematico, di chiaro stampo ereticale. Il processo contro i “complici” di Andrea può avere inizio.

Come risulta evidente dalle domande che pongono ai personaggi che l’uno dopo l’altro si succedono per deporre davanti a loro, i due frati Predicatori hanno individuato nella convinzione che Guglielma sia lo Spirito santo l’articolo di fede che conferisce alla “congregazione” guglielmita la sua peculiare identità eterodossa.

Ma questa credenza è davvero così diffusa tra i devoti e le devote? E a chi deve essere fatta risalire? Alla stessa Guglielma o ai suoi interpreti postumi, Andrea e Maifreda?

Due testimonianze sembrano far sospettare che su questo punto tra i fedeli non ci fosse una reale unità di vedute. Entrambe si riferiscono al medesimo episodio, avvenuto all’incirca sei o sette anni prima del processo.

Dopo un convivio in casa di Giacomo da Ferno, Maifreda – che era arrivata con altre donne verso la fine del pranzo – aveva riunito tutti i presenti rivolgendosi a loro in questo modo: “La domina nostra – parlando di santa Guglielma – mi dice di dirvi alcune parole che non vi dico volentieri, poiché credo che qui vi saranno molti Tommaso, ossia molti increduli.

Tuttavia, poiché così a lei piace, ve lo dirò. Lei stessa mi dice di dirvi e annunciarvi che è lo Spirito santo”. Su richiesta pressante degli inquisitori, che evidentemente le attribuivano grande importanza nell’economia del loro impianto accusatorio, la scena è rievocata in più di una deposizione, spesso con parole molto simili.

Ma ognuna vi aggiunge, a volte impercettibilmente, una sfumatura diversa. Vari testimoni, ad esempio, riferiscono che tale Adelina avrebbe “risposto” a Maifreda di credere nella natura divina di Guglielma, ma anche che il marito, Stefano da Crimella, l’avrebbe subito “assai ripresa” per quello spontaneo atto di fede. E se lo stesso Stefano afferma che a causa di quel rimprovero era stato cacciato dagli altri devoti e devote, Carabella dei Toscani racconta invece che tutti i presenti si sarebbero uniti nella condanna delle parole di Adelina.

Ancora, Ser Danisio Cotta ricorda che in quell’occasione Maifreda aveva aggiunto: “Voi tutti mangiate lo stesso pane e bevete lo stesso vino, ma non siete tutti di un unico cuore e di un’unica volontà”. È evidente il sapore neotestamentario di questa esternazione. Ma notevole è anche l’interpretazione che ne dà lo stesso Danisio.

Interrogato al proposito da Rainerio da Pirovano, egli “dice di credere che soror Maifreda con quelle parole volesse dire e intendere che non tutti coloro che erano a quel pranzo credevano che Guglielma fosse lo Spirito santo, ma alcuni di loro credevano così, e alcuni di loro non lo credevano”.

Sembra perciò che il quadro sia molto meno uniforme di quello tratteggiato dagli inquisitori. Del resto ciò è visibile anche ad una lettura veloce degli atti processuali. Più d’uno e più d’una, nelle loro disposizioni, prendono le distanze in diversi punti da ciò che i frati Predicatori vorrebbero presentare come una sorta di “Credo” ereticale unitario (ricavato in ultima analisi dalle informazioni fornite da frater Gerardo).



 

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