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N. 25 - Gennaio 2010
(LVI)
GUGLIELMA DI MILANO
un’eretica post mortem - Parte I
di Lorenzo Coccoli
Le
speranze
di
chi
volesse
ricostruire
la
vera
vicenda
storica,
biografica
e
spirituale,
di
“santa”
Guglielma
(Guglielma
la
Boema?
Guglielma
di
Milano?)
e
delle
sue
e
dei
suoi
fedeli,
consumatasi
a
Milano
negli
ultimi
decenni
del
XIII
secolo,
rischiano
di
rimanere
frustrate
per
più
di
un
motivo.
Innanzitutto,
per
la
limitatezza
e
incompletezza
della
base
documentaria:
in
effetti,
la
fonte
principale
(e
pressoché
unica)
di
cui
disponiamo
a
riguardo
– i
quattro
quaderni
delle
imbreviature
del
notaio
Beltramo
Salvagno
(manoscritto
A.
227
inf.
della
Biblioteca
Ambrosiana
di
Milano),
che
riportano
gli
atti
del
processo
inquisitoriale
del
1300
contro
i
devoti
e le
devote
di
Guglielma
–
non
contiene
che
una
parte
dei
documenti
redatti
in
quell’occasione.
Abbiamo
notizia
di
almeno
un
altro
notaio
che
in
quel
periodo
operava
al
servizio
dell’Inquisizione
milanese:
Maifredo
da
Cera,
il
quale
compare
spesso
nei
nostri
quaderni
anche
in
qualità
di
testimone.
Più
volte
nel
testo
si
accenna
ad
atti
da
lui
trascritti,
e in
un
caso
si
fa
esplicita
menzione
di
un
“quaternus
Mayfredi
de
Cera”,
che
quasi
certamente
doveva
servire
da
completamento
alle
imbreviature
del
notaio
Beltramo:
lì
erano
contenuti
con
ogni
probabilità
i
documenti
che
mancano
nel
manoscritto
pervenutoci,
tra
cui
le
registrazioni
di
alcune
deposizioni
e
tutti
i
testi
delle
sentenze
emanate
dagli
inquisitori.
Oltre
a
questo
dato,
per
così
dire,
contingente,
legato
cioè
alla
conservazione
e
alla
trasmissione
delle
fonti,
c’è
un
limite
più
strutturalmente
dipendente
dal
carattere
peculiare
della
documentazione
inquisitoriale.
Il
punto
è
che
qui
noi
non
abbiamo
a
che
fare
con
le
esatte
parole
pronunciate
dagli
inquisiti
e
dalle
inquisite
nel
corso
degli
interrogatori,
ma
solo
con
una
loro
registrazione
notarile,
per
di
più
nella
forma
del
discorso
indiretto:
così,
nel
passaggio
dall’oralità
alla
scrittura,
l’intervento
della
mediazione
culturale
e
ideologica
degli
inquisitori
e
del
notaio
diventa
inevitabile.
Certo,
non
siamo
in
grado
di
accertare
con
precisione
il
peso
di
una
tale
mediazione:
ma è
difficile
allontanare
il
sospetto
che
il
filtro
inquisitoriale,
che
entra
in
gioco
con
le
sue
categorie
teologiche
e le
sue
formule
procedurali
al
momento
della
trascrizione,
abbia
almeno
in
parte
deformato
le
testimonianze
delle
devote
e
dei
devoti
chiamati
a
deporre,
inficiandone
dunque
l’attendibilità
letterale.
Ma
c’è
di
più.
I
discorsi
e le
esperienze
dei
e
delle
testimoni
non
ci
arrivano
filtrati
solamente
dalla
lente
dottrinale
dei
frati
titolari
dell’ufficio
dell’inquisizione.
Non
bisogna
dimenticare
infatti
che
le
fedeli
e i
fedeli
di
Guglielma
prendono
parte
al
processo
soprattutto
nelle
vesti
di
imputati,
necessitati
dunque
ad
elaborare
una
strategia
difensiva.
Questa
strategia,
a
volte
improvvisata,
a
volte
premeditata,
li
porta
in
qualche
misura
–
che,
come
sopra,
non
possiamo
stabilire
con
certezza
– a
nascondere
o ad
alterare
la
“realtà”
dei
fatti,
nel
tentativo
di
tirarsi
fuori
da
una
situazione
sicuramente
difficile.
In
questo
caso,
dire
la
verità
non
paga,
e
Maifreda
da
Pirovano
e
Andrea
Saramita,
i
due
protagonisti
della
(presunta)
eresia
guglielmita,
sembrano
esserne
ben
consapevoli.
Invitando
Sibilla
dei
Malconzati,
una
delle
devote,
a
mentire
agli
inquisitori,
essi
le
avrebbero
detto:
“Se
voi
direte
la
verità,
noi
siamo
morti”.
Colpisce
la
drammatica
vividicità
della
testimonianza.
In
conclusione,
negli
atti
del
processo
che
ci
sono
pervenuti,
possiamo
intravedere
l’azione
conflittuale
di
due
ordini
di
discorso:
quello
inquisitoriale,
operante
secondo
schemi
interpretativi
piuttosto
rigidi,
elaborati
all’interno
delle
disquisizioni
teologiche
medievali,
e
quello
devozionale,
in
cui
invece
sembra
attivo
un
pastiche
di
elementi
di
cultura
popolare
(religiosa
e
non),
di
esperienze
nate
nell’orizzonte
della
comune
reverenza
a
Guglielma,
di
passi
biblici
ed
evangelici,
nonché
forse
di
qualche
nozione
di
quella
stessa
scienza
teologica
adoperata
dagli
inquisitori.
E
nonostante
il
primo
sia
dotato
senza
dubbio
di
maggior
forza
istituzionale,
il
secondo
cerca
comunque
di
tenergli
testa
con
varie
forme
di
“resistenza”,
che
cercherò
di
illustrare
in
seguito.
Tuttavia,
in
questo
complesso
di
mediazioni
culturali
contrapposte
e
sovrapposte,
quello
che
si
fa
più
oscuro,
più
indecifrabile,
più
ostile
alla
ricostruzione
storica
è il
“fatto”:
come
in
un
Rashômon
occidentale,
qui
l’oggettività
dei
fatti
–
ammesso
e
non
concesso
che
una
tale
oggettività
si
possa
mai
dare
–
scompare
dietro
la
molteplicità
delle
prospettive.
Ciò
risulta
evidente
proprio
nel
caso
di
Guglielma,
che
paradossalmente
sembra
essere
il
personaggio
più
in
ombra
nelle
domande
degli
inquisitori
e
nelle
risposte
degli
inquisiti
e
delle
inquisite.
A
meno
di
un
qualche
clamoroso
ampliamento
della
base
documentaria,
lo
storico
si
deve
rassegnare:
negli
atti
del
processo
abbiamo
solo
una
Guglielma
ricordata
e
raccontata,
una
Guglielma
immaginata,
una
Guglielma
santificata
o
condannata.
Ma
una
cosa
di
certo
non
abbiamo
(e
non
possiamo
avere):
Guglielma.
Il
contesto
storico
del
processo
Il
processo
dell’ufficium
fidei
contro
i
devoti
e le
devote
di
Guglielma
si
apre
a
Milano
nel
luglio
del
1300
e si
chiude
probabilmente
nel
novembre
dello
stesso
anno
(benché
l’ultima
deposizione
presente
nei
quaderni
di
Beltramo,
quella
di
Marchisio
Secco,
sia
datata
al
febbraio
del
1302).
I
titolari
dell’inchiesta,
“nominati
inquisitori
degli
eretici
in
Lombardia
e
Marca
di
Genova”
dalla
sede
apostolica,
sono
due
frati
dell’Ordine
dei
Predicatori
che
conducono
gli
interrogatori
per
lo
più
alternando
la
loro
presenza:
Rainerio
da
Pirovano
e
Guido
da
Cocconato,
quest’ultimo
personaggio
di
spicco
della
repressione
antiereticale
lombarda
in
quel
periodo.
Oltre
a
questi
due
personaggi,
che
restano
comunque
i
protagonisti
dell’azione
inquisitoriale,
va
ricordato
almeno
il
frate
domenicano
Lanfranco
“de
Amiziis”
da
Bergamo,
titolare
della
sede
pavese
dell’ufficium,
che
compare
in
qualche
occasione
nella
nostra
fonte
(soprattutto
in
qualità
di
auditore):
è
lui
che
riceve
la
deposizione
di
Gerardo
da
Novazzano,
frater
del
Terz’Ordine,
la
cui
confessione
sembra
essere
la
pietra
angolare
su
cui
si
fonda
tutta
l’inchiesta.
Il
nome
di
Lanfranco
ci
permette
per
un
momento
di
ampliare
la
nostra
prospettiva
ad
un
contesto
un
po’
più
esteso:
in
effetti,
l’inquisitore
pavese
aveva
collaborato
in
quello
stesso
anno
al
processo
che
aveva
portato
alla
condanna
per
eresia
di
Gherardo
Segarelli,
bruciato
sul
rogo
a
Parma
proprio
nello
stesso
giorno
(il
18
luglio)
in
cui
Gerardo
viene
interrogato
a
Milano.
È un
caso?
Forse
sì.
Resta
il
fatto
che
il
1300
è
anche
l’anno
del
primo
Giubileo,
e
che
proprio
la
fine
del
Duecento
vede
l’inizio
della
crisi
dei
movimenti
ereticali
e un
parallelo
intensificarsi
delle
attività
inquisitoriali.
Per
quanto
riguarda
invece
la
situazione
politica
milanese
sullo
scorcio
del
XIII
secolo,
la
città
nel
1300
è in
mano
a
Matteo
Visconti,
“Signore”
di
Milano
su
nomina
del
Consiglio
cittadino
dal
1291
e
vicario
imperiale
per
la
Lombardia
dal
1294.
Sembra
che
una
delle
imputate
principali
nel
processo
inquisitoriale,
soror
Maifreda
da
Pirovano,
fosse
imparentata
piuttosto
strettamente
con
Matteo,
la
cui
madre
era
Anastasia
da
Pirovano
(alcune
fonti
di
poco
successive
indicano
i
due
come
cugini).
Inoltre,
nell’inchiesta
sono
coinvolti
anche
due
gruppi
parentali
di
grande
rilievo
nella
società
milanese
dell’epoca,
vicini
ai
Visconti:
i
Cotica,
che
accolgono
Maifreda
quando
questa
è
costretta
ad
abbandonare
il
convento
delle
Umiliate
di
Biassono,
e i
Garbagnate.
Per
questo
motivo,
alcuni
storici
hanno
voluto
vedere
nell’azione
dell’ufficium
contro
i
Guglielmiti
un
ulteriore
capitolo
delle
annose
lotte
intestine
tra
i
Visconti
e i
della
Torre,
combattute
anche
a
colpi
di
accuse
reciproche
di
eresia.
Tuttavia,
allo
stato
attuale
della
documentazione,
non
ci è
dato
sapere
se
il
processo
avesse
o
meno
un
movente
politico.
Anzi,
la
partecipazione
di
un
esponente
visconteo
(Matteo
Visconti
preposito
di
Desio)
al
consilium
su
soror
Giacoma
da
Nova,
una
delle
devote
di
Guglielma,
e il
suo
assenso
alla
condanna
di
quest’ultima
(nemine
discrepante),
sembrerebbero
in
contraddizione
con
tale
ipotesi.
Comunque
sia,
quel
che
è
certo
è
che
il
contesto
politico
di
quegli
anni
è
molto
agitato:
nel
1302
Matteo
Visconti
sarà
costretto
dai
“Torriani”
ad
abbandonare
la
città,
per
farvi
ritorno
solo
nel
1311.
Guglielma
Quando
il
processo
ha
inizio,
Guglielma
è
morta
da
poco
meno
di
venti
anni.
Nei
quaderni
del
notaio
Beltramo,
di
lei
resta
ben
poco:
più
che
ricostruire
la
sua
vita,
gli
inquisitori
vogliono
indagare
su
ciò
che
attorno
a
lei
si è
sviluppato
dopo
la
sua
morte.
Inoltre,
le
scarse
notizie
di
cui
possiamo
disporre
sono
sempre
incerte,
a
volte
contraddittorie,
e
avvolte
dall’indeterminatezza
caratteristica
delle
dicerie:
spesso
negli
atti
le
informazioni
sul
suo
conto
sono
introdotte
da
un
dicitur.
Ma
cosa
“si
dice”
di
Guglielma?
Guglielma
sarebbe
arrivata
a
Milano
forse
negli
anni
Sessanta
del
Duecento,
portando
con
sé
anche
un
figlio.
Da
quel
momento
avrebbe
dimorato
in
Bregogna
e
nella
Pusterla
Nuova,
prima
di
stabilirsi
definitivamente
in
una
camera
presso
la
parrocchia
di
San
Pietro
all’Orto,
di
proprietà
del
monastero
di
Chiaravalle
–
forse
acquistata
appositamente
per
lei.
Qui
muore
il
24
agosto
del
1281
o
del
1282,
mentre
cioè
“era
in
corso
la
guerra
tra
Milanesi
e
Lodigiani”.
Inizialmente
tumulata
nella
stessa
chiesa
di
San
Pietro,
circa
un
mese
dopo
la
morte
viene
traslata
(con
una
processione
solenne
che
ha
tutti
i
caratteri
dell’ufficialità)
nell’abbazia
cistercense
di
Chiaravalle,
dove
il
suo
corpo
viene
lavato
con
acqua
e
vino,
vestito
con
abiti
fatti
per
l’occasione,
e
nuovamente
sepolto.
Qui
rimane
all’incirca
fino
al
settembre
del
1300,
quando
gli
inquisitori
esumano
i
suoi
resti
per
disperderli
e
bruciarli.
Questi
gli
elementi
(quasi)
certi.
Possiamo
aggiungere
che
prima
di
essere
nota
col
nome
di
Guglielma
“era
stata
chiamata
Felice”,
e
che
era
una
donna
di
“buona”
condizione
sociale,
anche
se è
difficile
precisare
cosa
ciò
voglia
concretamente
dire.
Merita
un
accenno
la
questione
della
sua
provenienza.
Tra
i
devoti
e le
devote
girava
la
voce
che
fosse
figlia
del
re
di
Boemia.
Andrea
Saramita,
forse
la
persona
più
vicina
a
Guglielma
quando
essa
era
ancora
in
vita,
nonché
uno
dei
principali
animatori
del
suo
“culto”,
lo
avrebbe
addirittura
accertato
in
un
viaggio
intrapreso
con
prete
Mirano
da
Garbagnate
alla
corte
boema.
Lo
scopo
sarebbe
stato
quello
di
informare
il
re
della
morte
della
“figlia”
(mentre
gli
inquisitori
sospettano
che
in
realtà
Andrea
cercasse
appoggi
per
la
causa
di
canonizzazione
di
Guglielma).
Giunti
in
Boemia,
avevano
scoperto
che
nel
frattempo
anche
il
sovrano
era
morto,
ma
avevano
potuto
comunque
avere
informazioni
certe
sulle
nobili
origini
della
donna
di
cui
erano
devoti.
Negli
atti
processuali
non
si
fa
mai
cenno
al
nome
del
re
boemo
in
questione.
Ma
in
un’altra
deposizione
Andrea
afferma
che
la
madre
di
Guglielma
era
la
regina
Costanza:
il
che
riporterebbe
dunque
al
nome
di
Ottocaro
I,
re
di
Boemia
dal
1198
al
1230.
Questo
farebbe
inoltre
della
nostra
“santa”
la
sorella
di
sant’Agnese
di
Boemia
e la
cugina
di
santa
Elisabetta
di
Turingia.
Tuttavia,
questo
dato
è
molto
incerto:
non
ne
abbiamo
attestazioni
in
altre
fonti,
e
anche
nei
nostri
quaderni
la
notizia
compare
solo
raramente.
Sembra
allora
più
probabile,
come
sostiene
Marina
Benedetti,
vedere
nelle
voci
sulla
presunta
provenienza
boema
di
Guglielma
non
tanto
una
realtà
genealogica,
quanto
una
invenzione
agiografica,
funzionale
a
quella
sorta
di
canonizzazione
popolare
di
cui
la
donna
è
oggetto
sin
da
prima
della
sua
morte.
Infine,
a
conclusione
di
questo
tentativo
di
biografia,
qualche
considerazione
sui
rapporti
di
Guglielma
e
della
“devozione”
guglielmita
con
gli
enti
religiosi
locali
(e
non).
Dalle
testimonianze
emerge
chiaramente
l’appoggio
attivo
dell’abate
e
dei
monaci
del
monastero
di
Chiaravalle
nei
confronti
suoi
e
dei
suoi
“fedeli”.
Come
abbiamo
visto,
è
l’abbazia
cistercense
che
provvede
ad
acquistare
“da
quelli
dei
Miracapite”
la
camera
in
cui
Guglielma
abiterà
nell’ultima
parte
della
sua
vita;
e
sembra
che
la
stessa
Guglielma
avesse
espresso
la
sua
volontà
di
essere
sepolta
in
Chiaravalle.
È
l’abate
a
fornire
“pane,
vino
e
ceci”
per
i
convivi
dei
devoti
e ad
ordinare
ad
affidare
a un
monaco,
Ubertino,
il
sepolcro
della
“santa”.
I
monaci
prendono
parte
alle
feste
in
suo
onore,
e
predicano
in
sua
lode.
Abbiamo
addirittura
notizia
di
una
contesa
tra
l’abbazia
e la
parrocchia
di
San
Pietro
all’Orto
su
dove
dovesse
venir
conservata
la
cassa
in
cui
originariamente
era
stata
sepolta
Guglielma.
Sembra
dunque
che
più
di
un
istituto
religioso
avesse
scommesso
sin
da
subito
sull’importanza
strategica
della
sua
figura,
soprattutto
in
vista
di
una
sua
possibile
canonizzazione,
data
la
fama
di
santità
che
si
andava
diffondendo.
Questa
relazione
positiva
con
alcuni
dei
più
importanti
centri
di
culto
milanesi
sembra
trovare
un’eco
nelle
istituzioni
civili:
anche
se
non
sappiamo
se
il
marchese
di
Monferrato
abbia
concesso
la
scorta
richiesta
da
Andrea,
è
indubbio
quantomeno
che
il
rito
di
traslazione
non
fu
ostacolato
dalle
autorità
cittadine.
Ma
non
ci
sono
solo
luci.
Maifreda
ricorda
di
aver
sentito
dire
che
Guglielma,
già
da
viva,
era
stata
citata
dagli
inquisitori.
E
ancora,
afferma
che
le
sue
consorelle
Umiliate
la
rimproveravano
per
i
convivi
che
essa
teneva
nella
domus
di
Biassono
con
i
devoti
e le
devote
guglielmite.
Anche
se
non
possiamo
essere
sicuri
dell’attendibilità
di
queste
dichiarazioni,
sappiamo
con
certezza
che
Maifreda
fu
allontanata
dal
convento,
forse
proprio
a
causa
del
suo
“impegno”
devozionale.
Sembra
dunque
che
non
tutti
gli
enti
religiosi
milanesi
apprezzassero
senza
riserve
il
movimento
che
si
era
venuto
a
creare
attorno
alla
figura
di
“santa”
Guglielma.
Santa,
eretica
o
donna
divina?
Ma
veniamo
ora
al
cuore
della
vicenda.
La
questione
è
spinosa,
ma
costituisce
forse
il
motivo
di
maggior
interesse
del
caso
che
stiamo
esaminando.
Il
18
luglio,
frater
Gerardo
da
Novazzano,
convocato
dall’inquisitore
Lanfranco
da
Bergamo,
si
presenta
per
testimoniare.
La
prima
domanda
del
frate
domenicano
riportata
negli
atti
è
piuttosto
generica:
egli
chiede
a
Gerardo
“se
sappia
o
abbia
udito
qualcosa
che
sia
o
appaia
essere
contro
la
fede
cattolica,
e
specialmente
di
una
santa
Guglielma,
che
è
sepolta
nel
monastero
di
Chiaravalle”.
Gerardo
–
che
qualche
anno
prima
era
già
stato
coinvolto
in
un’altra
inchiesta
e
aveva
abiurato
nelle
mani
dell’inquisitore,
giurando
da
quel
momento
di
dire
sempre
la
verità
ai
titolari
dell’ufficium
fidei
– si
abbandona
ad
una
confessione
piena
e
(apparentemente)
spontanea,
senza
che
Lanfranco
debba
più
intervenire
a
sollecitarlo
con
altre
domande
(stando
almeno
alla
trascrizione
di
Beltramo):
è
facile
intuire
come
siano
proprio
le
informazioni
da
lui
fornite
che
permettono
a
Guido
da
Cocconato
e
Rainerio
da
Pirovano
di
costruire
il
questionario
di
base
che
poi
sottoporranno
ai
testimoni
nei
loro
interrogatori.
Circa
quindici
anni
prima,
Gerardo
avrebbe
sentito
dire
da
Andrea
Saramita
che
“santa
Guglielma
avrebbe
dovuto
risorgere”
e
che
“della
stessa
credenza
sono
molte
persone”;
che
“santa
Guglielma
aveva
le
cinque
piaghe
nel
suo
corpo
simili
alle
piaghe
di
Gesù
Cristo”;
che
“Guglielma
è lo
Spirito
santo
e
che
lo
Spirito
santo
sarebbe
risorto
in
lei”.
Fermiamoci
qui
per
il
momento.
A
partire
da
queste
notizie
fluide,
confuse,
vaghe,
gli
inquisitori
intervengono
a
mettere
ordine
con
le
loro
categorie
teologiche
e
culturali:
quello
che
così
ottengono,
è un
vero
e
proprio
corpus
dottrinale,
cristallizzato
e
sistematico,
di
chiaro
stampo
ereticale.
Il
processo
contro
i
“complici”
di
Andrea
può
avere
inizio.
Come
risulta
evidente
dalle
domande
che
pongono
ai
personaggi
che
l’uno
dopo
l’altro
si
succedono
per
deporre
davanti
a
loro,
i
due
frati
Predicatori
hanno
individuato
nella
convinzione
che
Guglielma
sia
lo
Spirito
santo
l’articolo
di
fede
che
conferisce
alla
“congregazione”
guglielmita
la
sua
peculiare
identità
eterodossa.
Ma
questa
credenza
è
davvero
così
diffusa
tra
i
devoti
e le
devote?
E a
chi
deve
essere
fatta
risalire?
Alla
stessa
Guglielma
o ai
suoi
interpreti
postumi,
Andrea
e
Maifreda?
Due
testimonianze
sembrano
far
sospettare
che
su
questo
punto
tra
i
fedeli
non
ci
fosse
una
reale
unità
di
vedute.
Entrambe
si
riferiscono
al
medesimo
episodio,
avvenuto
all’incirca
sei
o
sette
anni
prima
del
processo.
Dopo
un
convivio
in
casa
di
Giacomo
da
Ferno,
Maifreda
–
che
era
arrivata
con
altre
donne
verso
la
fine
del
pranzo
–
aveva
riunito
tutti
i
presenti
rivolgendosi
a
loro
in
questo
modo:
“La
domina
nostra
–
parlando
di
santa
Guglielma
– mi
dice
di
dirvi
alcune
parole
che
non
vi
dico
volentieri,
poiché
credo
che
qui
vi
saranno
molti
Tommaso,
ossia
molti
increduli.
Tuttavia,
poiché
così
a
lei
piace,
ve
lo
dirò.
Lei
stessa
mi
dice
di
dirvi
e
annunciarvi
che
è lo
Spirito
santo”.
Su
richiesta
pressante
degli
inquisitori,
che
evidentemente
le
attribuivano
grande
importanza
nell’economia
del
loro
impianto
accusatorio,
la
scena
è
rievocata
in
più
di
una
deposizione,
spesso
con
parole
molto
simili.
Ma
ognuna
vi
aggiunge,
a
volte
impercettibilmente,
una
sfumatura
diversa.
Vari
testimoni,
ad
esempio,
riferiscono
che
tale
Adelina
avrebbe
“risposto”
a
Maifreda
di
credere
nella
natura
divina
di
Guglielma,
ma
anche
che
il
marito,
Stefano
da
Crimella,
l’avrebbe
subito
“assai
ripresa”
per
quello
spontaneo
atto
di
fede.
E se
lo
stesso
Stefano
afferma
che
a
causa
di
quel
rimprovero
era
stato
cacciato
dagli
altri
devoti
e
devote,
Carabella
dei
Toscani
racconta
invece
che
tutti
i
presenti
si
sarebbero
uniti
nella
condanna
delle
parole
di
Adelina.
Ancora,
Ser
Danisio
Cotta
ricorda
che
in
quell’occasione
Maifreda
aveva
aggiunto:
“Voi
tutti
mangiate
lo
stesso
pane
e
bevete
lo
stesso
vino,
ma
non
siete
tutti
di
un
unico
cuore
e di
un’unica
volontà”.
È
evidente
il
sapore
neotestamentario
di
questa
esternazione.
Ma
notevole
è
anche
l’interpretazione
che
ne
dà
lo
stesso
Danisio.
Interrogato
al
proposito
da
Rainerio
da
Pirovano,
egli
“dice
di
credere
che
soror
Maifreda
con
quelle
parole
volesse
dire
e
intendere
che
non
tutti
coloro
che
erano
a
quel
pranzo
credevano
che
Guglielma
fosse
lo
Spirito
santo,
ma
alcuni
di
loro
credevano
così,
e
alcuni
di
loro
non
lo
credevano”.
Sembra
perciò
che
il
quadro
sia
molto
meno
uniforme
di
quello
tratteggiato
dagli
inquisitori.
Del
resto
ciò
è
visibile
anche
ad
una
lettura
veloce
degli
atti
processuali.
Più
d’uno
e
più
d’una,
nelle
loro
disposizioni,
prendono
le
distanze
in
diversi
punti
da
ciò
che
i
frati
Predicatori
vorrebbero
presentare
come
una
sorta
di
“Credo”
ereticale
unitario
(ricavato
in
ultima
analisi
dalle
informazioni
fornite
da
frater
Gerardo).
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