[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

186 / GIUGNO 2023 (CCXVII)


contemporanea

La guerra del vietnam sul grande schermo

II / I vendicatori

di Manuela Bussadori

 

Gli anni Ottanta furono segnati dalla presidenza del repubblicano Ronald Reagan, ex attore Hollywoodiano. L’incapacità dei presidenti passati di riconquistare la fiducia della nazione favorirono Reagan che invece con il suo Star Wars Program sembrò offrire agli elettori una risposta al crescente desiderio di rivalsa. Fu in questo contesto che i blockbuster presero piede nelle sale cinematografiche. I film diventarono eventi spettacolari riconoscibili dal largo uso di effetti speciali, differenziandosi così dall’offerta proposta dai media più comuni, come la televisione.

 

Apocalypse Now, del 1979, di Francis Ford Coppola, fu il primo film d’azione del Vietnam Movie a intraprendere questa strada nata dalla necessità di reinventare il Vietnam, perché i telegiornali avevano già mostrato tutto ciò che il conflitto era stato. L’elemento innovativo rispetto alla prima fase del Vietnam Movie è l’esibizione esplicita della sua natura intimamente spettacolare. Il reale lascia spazio a un mondo surreale, stravolto, di cui Coppola si serve per dipingere il conflitto come una lezione imparata che sarà il trampolino di lancio per il nuovo eroismo maschile.

 

Questa seconda fase, identificata con il nome di Periodo della Revanche, coincise con la necessità di ripudiare la guerra come storia per trasferirla nell’allegoria della virilità militare, la quale è essa stessa rivelatrice di una ferita, simbolo del senso di vergogna che sembrava resistere a ogni tentativo di guarigione dei primi film post-bellici. L’insicurezza nazionale e il fallimento dell’intervento oltreoceano trovarono soluzione nell’esercizio del potere da parte di un uomo individualista che è al comando per salvare la comunità attraverso una forte leadership patriarcale.

 

Protagonisti di questa fase sono eroi a cui viene affidata una seconda missione del tutto immaginaria per recuperare i soldati prigionieri in Vietnam e tornare in patria vittoriosi. Una compensazione simbolica alle frustrazioni subite nel conflitto reale dove la vittoria era stata negata a causa di una inadeguata gestione della guerra.

 

L’idea della negazione della vittoria era già stata avanzata con la dichiarazione del disimpegno militare nel 1975 e si diffuse con la circolazione dei documenti del comandante americano in Vietnam, Fred Weyand, nei quali individuava la mancanza della volontà di vincere nel distacco dell’opinione pubblica americana verso un conflitto che sacrificò decine di migliaia di vittime senza ottenere dei risultati soddisfacenti perché il governo non seppe colmare in tempo questo divario. Ciò che traspare durante l’amministrazione Reagan è che questi sentimenti di insoddisfazioneerano rimasti inalterati nel tempo.

 

Nonostante il conflitto vietnamita sia stato perso dagli Stati Uniti, nei film usciti nei primi anni Ottanta si tenta di riaffermare l’identità nazionale mediante la ricostruzione dell’identità maschile. Con il sorgere della Reagan Era la figura del reduce nel cinema rievocò nell’immaginario collettivo il classico eroe americano che affonda le radici nel genere western. Esso incarna perfettamente l’uomo del west: solitario, incorruttibile e che lotta per le giuste cause, anche se è consapevole che nel mondo difficilmente trionfa il bene. A questo si contrappone un “insignificante uomo dell’est” che incarna, invece, la frazione corrotta della società americana. Tale contrapposizione nel periodo della Rivincita non si configura più a livello geografico-spaziale, ma avviene a livello sociale.

 

Se alla fine degli anni Settanta vi era la necessità di raccontare cosa significasse essere un eroe e i motivi per cui i soldati del Vietnam non avrebbero mai potuto esserlo, dagli anni Ottanta diviene necessario riaffermare cosa significhi essere un uomo perché i personaggi sono già degli eroi in quanto cittadini statunitensi.

 

Questi film oltre ad avere un forte impatto spettacolare, ci presentano degli eroi ben al di sopra di ogni credibilità e realismo, con un’esibizione quasi ossessiva della fisicità scolpita degli attori che li interpretano: Sylvester Stallone, per la saga Rambo, e Chuck Norris, per la saga Missing in Action. Attori che hanno legato la propria fama all’interpretazione di personaggi che riescono a ottenere la rivincita su una società avversa grazie alla propria risolutezza e forza fisica.

 

Rambo è una delle rappresentazioni più celebri dell’epoca. È il tipico eroe americano promosso dalla retorica reaganiana: un uomo forte, la cui tenacia gli permette di risolvere situazioni difficili in tempi più brevi rispetto alla politica. Il primo film della saga uscì nelle sale nel 1982, nel decimo anniversario dalla caduta di Saigon, e il suo protagonista è un reduce rappresentato come un eroe, pronto a intraprendere un viaggio che lo riporterà in Vietnam per mettere la parola fine a quella ferita lasciata aperta e difficile da colmare.

 

«Non è finito niente, niente! Non è un interruttore che si spegne. Non era la mia guerra, lui me l’ha chiesta, non gliel’ho chiesta io». La frase sopracitata rende lo spettatore consapevole che Rambo è stato costretto a ricoprire il ruolo di macchina da guerra dallo stesso conflitto. La pace non sarà praticabile finché non avrà la possibilità di vincere, ma il vero nemico contro cui si troverà a combattere sono degli americani. Politici corrotti che antepongono i propri interessi a quelli del popolo americano.

 

Emblematica è la frase finale di Rambo (First Blood): «They wouldn’t let us win!». Quest’ultima racchiude il cuore della seconda fase del Vietnam Movie, poiché si insinua nell’immaginario collettivo la possibilità che senza mediazioni politiche, la guerra del Vietnam sarebbe stata vinta senza eccessive perdite da quegli stessi combattenti che dopo il conflitto hanno avuto il coraggio di tornare per liberare i compagni ancora prigionieri.

 

La prodezza militare è inseparabile dall’orgoglio nazionale statunitense. Hollywood e Reagan ne sono più che consapevoli. Non è un caso che il Vietnam Movie in questi anni insiste con scene d’azione nelle quali viene impiegata una mascolinizzazione dell’evento. Il cinema si trasforma nel perfetto palcoscenico per glorificare le abilità di combattimento delle forze speciali americane. Una perfetta simulazione per allontanare definitivamente il ricordo della guerra perduta.

 

La guerra viene decontestualizzata, mistificata come un tragico errore, un rito di passaggio attraverso il quale il White American Hero riscopre la sua identità. La nuova rappresentazione del reduce riuscì a trasformare un evento così drammatico in un grande spettacolo audiovisivo che ricalcava la struttura episodica tipica dei fumetti. Ma se nei primi film la colpa della “sporca” guerra era attribuita a livello sociale, qui il vero nemico è il burocrate arricchito alle spalle dei giovani soldati caduti in Vietnam che con una vera leadership avrebbero facilmente conquistato la vittoria, alimentando il desiderio di vincerla retrospettivamente. Lo stesso presidente Reagan nel 1980 disse: «È il momento di riconoscere che quella era, in verità, una nobile causa».

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

F.C. Weyand, Frederick C., Weyand Papers, New York 1972-1999.

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S. Ghislotti, S. Rosso (a cura di), Vietnam e ritorno: la guerra sporca nel cinema, nella narrativa, nel teatro, nella musica e nella cultura bellica degli stati uniti, Marcos y Marcos, Milano 1996.

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vol. 73, n. 238, 1988.

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M. Selig, From play to film. « Strange snow, jacknife », and masculine identity in the Hollywood Vietnam Film, in Literature/Film Quarterly, vol. 20, N. 3 (1992), pp. 173-180.

S. Rosso, Musi gialli e Berretti Verdi: narrazioni USA sulla guerra del Vietnam, Edizioni Sestante, Bergamo 2003.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]