La guerra del vietnam sul grande
schermo
II / I vendicatori
di Manuela Bussadori
Gli anni Ottanta furono segnati
dalla presidenza del repubblicano
Ronald Reagan, ex attore
Hollywoodiano. L’incapacità dei
presidenti passati di riconquistare
la fiducia della nazione favorirono
Reagan che invece con il suo Star
Wars Program sembrò offrire agli
elettori una risposta al crescente
desiderio di rivalsa. Fu in questo
contesto che i blockbuster
presero piede nelle sale
cinematografiche. I film diventarono
eventi spettacolari riconoscibili
dal largo uso di effetti speciali,
differenziandosi così dall’offerta
proposta dai media più comuni, come
la televisione.
Apocalypse Now,
del 1979, di Francis Ford Coppola,
fu il primo film d’azione del
Vietnam Movie a intraprendere
questa strada nata dalla necessità
di reinventare il Vietnam, perché i
telegiornali avevano già mostrato
tutto ciò che il conflitto era
stato. L’elemento innovativo
rispetto alla prima fase del
Vietnam Movie è l’esibizione
esplicita della sua natura
intimamente spettacolare. Il reale
lascia spazio a un mondo surreale,
stravolto, di cui Coppola si serve
per dipingere il conflitto come una
lezione imparata che sarà il
trampolino di lancio per il nuovo
eroismo maschile.
Questa seconda fase, identificata
con il nome di Periodo della
Revanche, coincise con la
necessità di ripudiare la guerra
come storia per trasferirla
nell’allegoria della virilità
militare, la quale è essa stessa
rivelatrice di una ferita, simbolo
del senso di vergogna che sembrava
resistere a ogni tentativo di
guarigione dei primi film
post-bellici. L’insicurezza
nazionale e il fallimento
dell’intervento oltreoceano
trovarono soluzione nell’esercizio
del potere da parte di un uomo
individualista che è al comando per
salvare la comunità attraverso una
forte leadership patriarcale.
Protagonisti di questa fase sono
eroi a cui viene affidata una
seconda missione del tutto
immaginaria per recuperare i soldati
prigionieri in Vietnam e tornare in
patria vittoriosi. Una compensazione
simbolica alle frustrazioni subite
nel conflitto reale dove la vittoria
era stata negata a causa di una
inadeguata gestione della guerra.
L’idea della negazione della
vittoria era già stata avanzata con
la dichiarazione del disimpegno
militare nel 1975 e si diffuse con
la circolazione dei documenti del
comandante americano in Vietnam,
Fred Weyand, nei quali individuava
la mancanza della volontà di vincere
nel distacco dell’opinione pubblica
americana verso un conflitto che
sacrificò decine di migliaia di
vittime senza ottenere dei risultati
soddisfacenti perché il governo non
seppe colmare in tempo questo
divario. Ciò che traspare durante
l’amministrazione Reagan è che
questi sentimenti di
insoddisfazioneerano rimasti
inalterati nel tempo.
Nonostante il conflitto vietnamita
sia stato perso dagli Stati Uniti,
nei film usciti nei primi anni
Ottanta si tenta di riaffermare
l’identità nazionale mediante la
ricostruzione dell’identità
maschile. Con il sorgere della
Reagan Era la figura del reduce
nel cinema rievocò nell’immaginario
collettivo il classico eroe
americano che affonda le radici nel
genere western. Esso incarna
perfettamente l’uomo del west:
solitario, incorruttibile e che
lotta per le giuste cause, anche se
è consapevole che nel mondo
difficilmente trionfa il bene. A
questo si contrappone un
“insignificante uomo dell’est” che
incarna, invece, la frazione
corrotta della società americana.
Tale contrapposizione nel periodo
della Rivincita non si configura più
a livello geografico-spaziale, ma
avviene a livello sociale.
Se alla fine degli anni Settanta vi
era la necessità di raccontare cosa
significasse essere un eroe e i
motivi per cui i soldati del Vietnam
non avrebbero mai potuto esserlo,
dagli anni Ottanta diviene
necessario riaffermare cosa
significhi essere un uomo perché i
personaggi sono già degli eroi in
quanto cittadini statunitensi.
Questi film oltre ad avere un forte
impatto spettacolare, ci presentano
degli eroi ben al di sopra di ogni
credibilità e realismo, con
un’esibizione quasi ossessiva della
fisicità scolpita degli attori che
li interpretano: Sylvester Stallone,
per la saga Rambo, e Chuck
Norris, per la saga Missing in
Action. Attori che hanno legato
la propria fama all’interpretazione
di personaggi che riescono a
ottenere la rivincita su una società
avversa grazie alla propria
risolutezza e forza fisica.
Rambo è una delle rappresentazioni
più celebri dell’epoca. È il tipico
eroe americano promosso dalla
retorica reaganiana: un uomo forte,
la cui tenacia gli permette di
risolvere situazioni difficili in
tempi più brevi rispetto alla
politica. Il primo film della saga
uscì nelle sale nel 1982, nel decimo
anniversario dalla caduta di Saigon,
e il suo protagonista è un reduce
rappresentato come un eroe, pronto a
intraprendere un viaggio che lo
riporterà in Vietnam per mettere la
parola fine a quella ferita lasciata
aperta e difficile da colmare.
«Non
è finito niente, niente! Non è un
interruttore che si spegne. Non era
la mia guerra, lui me l’ha chiesta,
non gliel’ho chiesta io». La
frase sopracitata rende lo
spettatore consapevole che Rambo è
stato costretto a ricoprire il ruolo
di macchina da guerra dallo stesso
conflitto. La pace non sarà
praticabile finché non avrà la
possibilità di vincere, ma il vero
nemico contro cui si troverà a
combattere sono degli americani.
Politici corrotti che antepongono i
propri interessi a quelli del popolo
americano.
Emblematica è la frase finale di
Rambo (First Blood): «They
wouldn’t let us win!».
Quest’ultima racchiude il cuore
della seconda fase del Vietnam
Movie, poiché si insinua
nell’immaginario collettivo la
possibilità che senza mediazioni
politiche, la guerra del Vietnam
sarebbe stata vinta senza eccessive
perdite da quegli stessi combattenti
che dopo il conflitto hanno avuto il
coraggio di tornare per liberare i
compagni ancora prigionieri.
La prodezza militare è inseparabile
dall’orgoglio nazionale
statunitense. Hollywood e Reagan ne
sono più che consapevoli. Non è un
caso che il Vietnam Movie in
questi anni insiste con scene
d’azione nelle quali viene impiegata
una mascolinizzazione dell’evento.
Il cinema si trasforma nel perfetto
palcoscenico per glorificare le
abilità di combattimento delle forze
speciali americane. Una perfetta
simulazione per allontanare
definitivamente il ricordo della
guerra perduta.
La guerra viene decontestualizzata,
mistificata come un tragico errore,
un rito di passaggio attraverso il
quale il White American Hero
riscopre la sua identità. La nuova
rappresentazione del reduce riuscì a
trasformare un evento così
drammatico in un grande spettacolo
audiovisivo che ricalcava la
struttura episodica tipica dei
fumetti. Ma se nei primi film la
colpa della “sporca” guerra era
attribuita a livello sociale, qui il
vero nemico è il burocrate
arricchito alle spalle dei giovani
soldati caduti in Vietnam che con
una vera leadership avrebbero
facilmente conquistato la vittoria,
alimentando il desiderio di vincerla
retrospettivamente. Lo stesso
presidente Reagan nel 1980 disse: «È
il momento di riconoscere che quella
era, in verità, una nobile causa».
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