LA GUERRA DEL VIETNAM SUL GRANDE
SCHERMO
I /
LA DECADENZA DELL’EROISMO
di Manuela Bussadori
Hollywood è diventata negli anni un
punto di riferimento per molti
grazie alla sua capacità di creare
un forte immaginario collettivo,
specialmente considerando le grandi
produzioni degli anni Cinquanta,
caratterizzate da una prospettiva
ideale degli eventi in cui lo
spettatore non percepiva l’artificio
del prodotto e vi era un controllo
verso ogni forma di rappresentazione
della violenza. Tutti questi
elementi contribuivano all’illusione
dell’esperienza cinematografica.
Con la fine della guerra del Vietnam
nel 1975 e il peggioramento della
crisi nazionale, fu chiaro che il
ruolo statunitense di pacificatore
era finito e con lui l’American
Century. Il bisogno di
rinnovamento Hollywoodiano e la
complessità morale dell’epoca
contribuì alla creazione di un nuovo
sottogenere del War film classico:
il Vietnam Movie. Il nuovo
filone nacque dal desiderio di
rilettura del conflitto per arginare
il sentimento della disfatta.
I protagonisti diventarono i reduci
che al loro ritorno perseguivano con
grande difficoltà il ritrovamento di
una scala di valori per raggiungere
un effettivo reinserimento nella
società. Difficoltà che sfociava in
frustrazione o nella peggiore delle
ipotesi in atti di elevata violenza.
Si trattava della Post Vietnam
Syndrome, una grave forma di
stress post traumatico strettamente
legata all’esperienza del Vietnam.
Erano uomini che avevano perso la
propria identità in relazione alla
comunità di appartenenza e
percepivano come irrimediabile la
distanza sociale. Oltre a questo
aspetto prettamente psicologico,
erano considerati l’emblema dei
sentimenti ambivalenti della società
nei confronti del conflitto. I primi
film di questo genere, come Taxi
Driver di Martin Scorsese
(1976), Il Cacciatore di
Michael Cimino (1978) e Tornando
a casa di Hal Ashby (1978), si
focalizzavano sul ritorno a casa dei
reduci, ma anche di chi non vi aveva
partecipato direttamente e ne è
stato spettatore passivo grazie
all’assidua azione documentarista
dei telegiornali.
Taxi Driver
rappresenta la complessità morale
tipica della figura del reduce. La
classica lotta cinematografica tra
bene e male viene infranta, il
regista rompe ogni tipo di
convenzione per rendere al meglio il
disagio e l’incertezza del suo
protagonista ricorrendo perfino a
delle “sporcature” registiche, come
rendere visibili alcuni strumenti
utilizzati per girare il film. Lo
scopo era rendere lo spettatore
consapevole della sua natura di
artefatto, distruggere l’illusione
di perfezione tipica del cinema.
L’illusione di cui invece è vittima
Travis, un giovane ex marine con un
disturbo cronico del sonno che lo ha
portato a diventare un tassista
notturno a New York.
Come altri reduci porta con sé i
segni dell’esperienza vietnamita tra
cui la disciplina militare, il senso
di costante precarietà e danni
psicologici, di cui l’insonnia ne è
l’aspetto visibile. Travis è sempre
più alienato dal contesto sociale
che lo circonda. I suoi continui
tentativi di integrazione vengono
vanificati dal mantenimento delle
abitudini militari. New York di
notte assume i connotati di una
giungla urbana, rievocando in lui le
immagini dei torridi campi di
battaglia in Vietnam. Quando Travis
decide di liberare una giovane
prostituta dal suo aguzzino, lo fa
compiendo una vera azione di guerra.
Il reduce inserito nella follia
metropolitana reagisce a questa nel
solo modo che conosce, con un atto
violento e devastante. Nel finale
Travis è acclamato dalla stampa come
un eroe, ha raggiunto lo scopo per
cui si era inizialmente arruolato:
combattere per una giusta causa.
Finalmente può lasciarsi indietro il
passato e iniziare così una nuova
vita.
Il Vietnam Movie inizia così un
percorso verso il recupero
dell’integrità dei reduci, giovani
vittime della mitizzazione
dell’eroismo dettato dalle
incredibili narrazioni
cinematografiche sulla Seconda
guerra mondiale antecedenti al
reclutamento del Vietnam.
Esattamente come i protagonisti de
Il Cacciatore, un gruppo di
amici separati dalla guerra.
Il film si focalizza su Mike, un
grande appassionato della caccia di
tipo “Hemingwayano”, cioè basata
sulla lealtà dell’unico colpo poiché
il cervo non possiede armi per
difendersi a sua volta. Il tema
della caccia ricorre per tutto il
film e si trasforma simbolicamente
in un rito virile strettamente
connesso all’esperienza della
guerra, per poi essere respinto alla
fine della pellicola. Al suo ritorno
finisce per identificarsi con il
cervo realizzando che entrambi sono
costantemente in balia del prossimo
cacciatore. Verso la fine emergono
anche le difficoltà con chi è
rimasto a casa. Nessuno è
intenzionato a discutere il
significato dell’impegno militare in
Vietnam, percepito già in partenza
come inutile e sbagliato, ma qui il
protagonista ottiene la sua
riabilitazione sociale a un funerale
quando intonano insieme le prime
strofe di “God Bless America”.
L’unico tipo di comunicazione che
riesce a manifestare un gruppo di
individui travolti senza motivo
dalla storia. Un richiamo al War
Film classico, privato del suo
intento celebrativo. Il film sembra
quindi offrire una soluzione al
bisogno di speranza della
popolazione statunitense tramite la
ricostruzione dell’identità
nazionale ripartendo dal ricordo di
chi è scomparso.
Un altro film interessante è
Tornando a Casa che si focalizza
sugli effetti psicologici dei reduci
contrapponendo due modelli di ex
marines, Bob e Luke, uniti
unicamente dall’affetto per una
donna, Sally. Entrambi i personaggi
tornano danneggiati, ma effettuano
scelte drasticamente opposte. La
Post Vietnam Syndrome mina per
Bob ogni possibilità di reagire alla
vita e alla fine sceglierà di
purificare la propria anima nel solo
modo che conosce: togliendosi la
vita. Luke, invece, è il portatore
di valori nuovi che esclude a priori
la guerra. Per questo Sally si
troverà divisa tra il suo
matrimonio, un passato impossibile
da ricostruire e l’attrazione per
Luke, la possibilità di un futuro
diverso. Simbolicamente la stessa
degli Stati Uniti rispetto alla
guerra appena conclusa. Quando Sally
sceglie Luke, ci viene offerto un
messaggio di speranza per il futuro
della nazione.
Il giudizio sul Vietnam è lapidario.
La differenza tra il conflitto
vietnamita e la seconda guerra
mondiale è immensa. Questi
personaggi si distaccano totalmente
dalla narrazione mitica della figura
del veterano, il quale ricorda la
vittoria conquistata e attira su di
sé l’ammirazione e il rispetto di
tutta la nazione. Sono dei reduci.
Rispetto alla figura del veterano,
quella del reduce appare sminuita e
ridotta perché rappresenta il
simbolo della sconfitta subita,
l’unica ad aver causato dei
risultati così disastrosi
sull’identità statunitense.
La fine degli anni Settanta propone
un nuovo modello rappresentativo col
fine di svelare le fondamenta
fittizie del tanto celebrato mito
americano. La nazione richiedeva un
racconto più chiaro per comprendere
la complessità di una guerra
percepita distante non solo
geograficamente ma anche
politicamente, talmente devastante
da cambiare le vite di ogni singolo
cittadino americano. Le produzioni
hollywoodiane in questo contesto
così profondamente cambiato
intraprendono un processo di
“smascheramento” della realtà della
guerra partendo dalle storie dei
suoi protagonisti e cercando così di
ricostruire l’autorità e la
credibilità degli Stati uniti
all’estero e soprattutto verso sé
stessi.
Riferimenti bibliografici:
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London, 2002, trad. it.,
La Nuova
Hollywood: dalla rinascita degli
anni Sessanta all’era dei
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Editore, Torino 2004
S. Ghislotti, S. Rosso (a cura di),
Vietnam e ritorno: la guerra
sporca nel cinema, nella narrativa,
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cultura bellica degli stati uniti,
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Shary, Timothy, Millennial
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Verdi: narrazioni USA sulla guerra
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Dittmar, Linda, From Hanoi to
Hollywood: the vietnam war in
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University Press, 1990.
Filmografia:
Berretti Verdi
(The Green Berets) di John Wayne,
1968.
Taxi Driver
di Martin Scorsese, scritto da Paul
Schrader, 1976
Il Cacciatore
(The Deer Hunter) di Michael
Cimino, 1978.
Tornando a Casa
(Coming Home) di Hal Ashby,
1978.