N. 134 - Febbraio 2019
(CLXV)
La guerra sino-giapponese del 1894-1895
L’inizio
del
Periodo
di
Assoggettamento
di
Emilio
Paolo
Delogu
"Chi
conosce
il
suo
nemico
e
conosce
se
stesso
potrà
affrontare
senza
timore
cento
battaglie.
Colui
che
non
conosce
il
nemico
ma
conosce
se
stesso
a
volte
sarà
vittorioso
a
volte
incontrerà
la
sconfitta.
Chi
non
conosce
né
il
nemico
né
se
stesso
inevitabilmente
verrà
sconfitto
in
ogni
scontro"
(Sun
Tzu).
Al
declinare
del
secolo
XIX,
la
Cina
venne
a
trovarsi
nella
situazione
più
cupa
che
l’illustre
stratega
del
V
secolo
a.C.
aveva
delineato:
era
assediata
da
un
gran
numero
di
nemici
e
aveva
smarrito
la
coscienza
di
sé
dopo
aver
ceduto
ampie
fette
della
propria
sovranità
a
potenze
straniere.
Dal
1895
e
per
svariati
decenni
del
novecento,
la
guerra
sul
territorio
cinese
è
stata
combattuta
da
paesi
terzi
il
cui
intento
era
quello
di
accaparrarsi
quanti
più
mercati
di
sbocco
possibili
limitando,
in
modo
significativo,
la
mediazione
con
i
rappresentanti
politici
cinesi;
nulla,
infatti,
rese
tanto
evidente
la
degradazione
della
Cina
a
oggetto
delle
grandi
potenze
quanto
la
guerra
russo-giapponese
nel
corso
della
quale,
fra
il
1904
e il
1905,
più
di
due
milioni
di
soldati
stranieri
si
affrontarono
in
sanguinose
battaglie
sul
territorio
di
uno
stato
neutrale
(J.
Osterhammel).
Analizzare
il
confronto
di
fine
secolo
fra
Impero
del
Centro
e
Impero
Nipponico
è di
rilevanza
cruciale:
non
a
caso
il
1895
rappresenta
un
vero
e
proprio
spartiacque
storico
fra
due
epoche,
una
contraddistinta
da
antiche
tradizioni,
ciclo
dinastico
e
sistema
burocratico
imperiale,
l’altra
caratterizzata
da
rivoluzione
culturale,
monopartitismo
e
crescita
economica.
Nell’intervallo
che
si
situa
al
centro,
lo
storico
americano
Hosea
Ballou
Morse
individua,
a
giusto
titolo,
quello
che
sostiene
essere
un
periodo
di
assoggettamento
(H.B.
Morse)
in
cui
la
sconfitta
militare
smaschera
la
debolezza
e
l’inettitudine
dell’impero
dei
Qing
nella
gestione
di
un
enorme
stato
ormai
economicamente
agonizzante
e
socialmente
instabile.
Il
conflitto
del
1895,
noto
anche
come
I
guerra
sino-giapponese,
è il
principale
responsabile
di
quel
fenomeno
di
sfruttamento
economico
ai
danni
del
Paese
del
Centro
che
noti
studiosi
quali
P.
Renouvin
(La
question
d’Extrême
Orient)
e G.
F.
Hudson
(The
Far
East
in
World
Politics)
hanno
definito
come
la
questione
estremo
–
orientale;
poche
guerre
ebbero
un
così
gran
numero
di
vincitori
come
quella
del
1894-95,
lo
sconfitto
era
la
Cina.
La
peculiarità
della
questione
estremo
–
orientale
risiedeva
nel
fatto
che
essa
era
stata
provocata
non
da
un
paese
europeo
o da
un
vicino
scomodo
quale
la
Russia
zarista,
bensì
da
una
nuova
potenza
regionale
asiatica.
La
vittoria
del
Giappone
sulla
Cina
nel
1895
fu
un
avvenimento
gravido
di
conseguenze
perché
distrusse
quanto
restava
del
potere
e
del
prestigio
che
avevano
permesso
all’impero
dei
Qing
di
condurre
una
politica
di
difesa
attiva
all’insegna
della
collaborazione
(J.
Osterhammel).
Oggetto
del
contendere
era
la
penisola
coreana,
da
sempre
al
centro
delle
manovre
di
politica
internazionale
di
Tokyo
e
Pechino
sia
per
le
sue
risorse
naturali
quali
carbone
e
ferro,
sia
in
misura
maggiore,
in
virtù
della
sua
posizione
strategica
tra
le
isole
giapponesi
e il
continente
asiatico.
Da
secoli
i
sovrani
coreani
della
dinastia
Joseon
erano
parte
importante
di
quella
cintura
tributaria
cinese
che
aveva
caratterizzato
i
rapporti
internazionali
del
Paese
di
Mezzo
fino
al
trattato
di
Nanchino
e
alla
conseguente
apertura
a
occidente
del
1842.
Quantunque
i
monarchi
cinesi
considerassero
la
Corea
come
un
feudo
personale
a
cui
accordare
protezione
militare
e da
cui
prelevare
risorse
economiche,
al
giro
di
boa
del
XIX
secolo,
essi
non
erano
più
in
grado
di
difendere
il
territorio
coreano
dalle
mire
espansionistiche
dell’Impero
del
Sol
Levante.
Sul
limitare
dell’Ottocento
il
Giappone
possedeva
la
forza
militare
necessaria
per
espellere,
una
volta
per
tutte,
i
cinesi
dal
suolo
coreano;
i
princìpi
del
fukoku-kyōhei
(paese
ricco/esercito
forte)
e
del
wakon-yōsai
(spirito
giapponese/tecnica
occidentale)
che
erano
alla
base
della
restaurazione
Meiji
consentirono
al
Giappone
di
mettere
in
campo
un
arsenale
bellico
all’avanguardia
composto
da
navi
corazzate,
cannoni
a
ripetizione
e
mitragliatrici.
La
strategia
del
governo
di
Tokyo
mostrava
un
duplice
intendimento:
da
una
parte
utilizzare
la
flotta
come
strumento
di
intimidazione
per
ottenere
mercati
di
sbocco
e
privilegi
economici,
proprio
come
mezzo
secolo
addietro
avevano
fatto
i
britannici,
dall’altra
e in
successione
estendere
il
dominio
politico
sulla
Corea
e
trasformarla
effettivamente
in
una
colonia.
Quest’ultimo
punto
è di
rilevanza
cruciale
e
deve
essere
esaminato
alla
luce
di
alcune
dichiarazioni
effettuate
da
alti
funzionari
giapponesi
immediatamente
prima
e
durante
la
guerra.
Lo
statista
giapponese,
conte
Okuma,
leader
del
fronte
interventista,
affermò
che
“finalmente
è
giunto
il
momento
in
cui
il
Giappone
si
liberi
dalla
disgrazia
del
1884
[…]
utilizzando
in
modo
assennato
questa
opportunità
unica,
sarà
possibile
per
il
governo
rimediare
agli
errori
passati
e
portare
l’impero
ad
essere
temuto
e
rispettato,
non
solamente
in
Corea,
ma
anche
nel
resto
del
mondo”
(Okuma
Shigenobu).
Anche
un
rappresentante
diplomatico
giapponese
in
Europa
analizzò
in
questo
modo
l’impresa
militare
in
Corea:
“Infine
questo
è
ciò
che
posso
dirvi
per
certo,
noi
non
possiamo
né
vogliamo
perdere
nuovamente
la
Corea
fino
a
quando
i
nostri
obiettivi
non
saranno
raggiunti
in
un
modo
o
nell’altro.
In
Corea
combattiamo
per
il
nostro
futuro,
potrei
perfino
dire
per
la
nostra
indipendenza.
Quando
la
Corea
dovesse
cadere
nelle
grinfie
di
una
potenza
europea,
la
nostra
indipendenza
verrebbe
minacciata”
(H.B.
Morse).
L’intervento
giapponese
nella
penisola
coreana,
dunque,
seguiva
due
direttrici
geopolitiche
di
vitale
importanza:
acquistare
un
rinnovato
prestigio
in
ambito
internazionale
e
regionale,
arginare
l’imperialismo
europeo
e il
pericolo
di
vedersi
privare
della
possibilità
di
condurre
una
propria
politica
coloniale
da
una
potenza
straniera.
La
prima
operazione
di
intelligence
in
Corea
ebbe
luogo
nel
1884,
quando
forze
riformiste
filo-nipponiche
tentarono
un
putsch
per
rovesciare
la
monarchia
e lo
schieramento
conservatore
leale
a
Pechino.
Tuttavia,
grazie
all’intervento
militare
cinese,
la
rivolta
venne
presto
sedata.
In
seguito
a
quell’episodio
la
tensione
tra
i
due
contendenti
aumentò
e,
per
quanto
la
convenzione
firmata
a
Tianjin
nel
1885
da
ambo
le
parti
sancisse
il
principio
del
non
intervento
nelle
dispute
interne
al
paese
senza
il
consenso
dell’altra
parte,
lo
scontro
divenne
presto
inevitabile.
Un
primo
segnale
di
ostilità
fu
l’assassinio,
nel
1893,
di
Kim
Ok-kyun,
rivoluzionario
coreano
filo-nipponico,
il
cui
cadavere,
portato
in
Corea
da
navi
militari
cinesi
e lì
orribilmente
mutilato,
venne
esposto
pubblicamente
come
monito
nei
riguardi
dei
numerosi
gruppi
sedizionisti
che
operavano
nel
paese.
Un
anno
dopo,
l’imperatore
coreano
Gojong,
la
cui
autorità
era
stata
messa
in
discussione
da
una
serie
di
rivolte
contadine
che
avevano
l’obiettivo
di
riformare
in
senso
progressista
e
sul
modello
giapponese
lo
stato,
inviò
una
richiesta
di
soccorso
al
Celeste
Impero
che
non
tardò
a
dar
sostegno
all’alleato
con
un
contingente
armato
di
2.800
uomini
alla
cui
testa
era
stato
posto
il
generale
Yuan
Shikai,
che
sarà
primo
presidente
della
Repubblica
di
Cina
nonché
dittatore.
In
ottemperanza
alla
convenzione
di
Tianjin,
il
governo
di
Pechino
informò
quello
giapponese
del
sostegno
offerto
a
Seul
ma
Tokyo
considerò
comunque
il
gesto
in
sé
come
un
atto
d’aggressione
e
rispose
con
una
spedizione
di
8.000
soldati
alla
volta
della
capitale
coreana.
L’8
giugno
del
1894
l’esercito
nipponico
di
concerto
con
alcuni
gruppi
rivoluzionari
locali
occupò
il
palazzo
reale
di
Seul
e
mise
agli
arresti
l’imperatore
della
famiglia
Joseon.
In
poco
tempo
i
miliziani,
vittoriosi,
rimpiazzarono
i
membri
del
governo
con
componenti
della
fazione
pro-giapponese
e
imposero
alla
Cina
di
abbandonare
il
territorio
coreano.
Pechino,
messa
di
fronte
al
fatto
compiuto,
rifiutò
di
cedere
alle
pressioni
giapponesi
per
il
riconoscimento
del
nuovo
governo
di
Seul
e
tanto
bastò
come
pretesto
e
casus
belli
della
prima
guerra
sino-nipponica,
dichiarata
ufficialmente
il
primo
giorno
d’agosto
dello
stesso
anno.
La
principale
forza
militare
cinese
era
in
stato
di
riarmo
presso
Haiyang,
città
portuale
nella
provincia
dello
Shandong,
con
linee
di
rifornimento
che
collegavano
Tatungkow
nella
provincia
dello
Liaoning
confinante
con
la
Corea
del
nord,
all’estuario
del
fiume
Yalu
in
territorio
coreano.
Il
trasporto
di
truppe
e
razioni
era
garantito
a
stento
dall’unica
flotta
cinese
operativa,
lo
squadrone
Peiyang,
sotto
il
comando
dell’ammiraglio
Ting
Ju-chang.
La
flotta
era
composta
da
due
corazzate
e
dieci
incrociatori
privi
di
cannoni
(utilizzati
come
navi
trasporto)
in
totale
dodici
navi
per
un
peso
complessivo
di
35.000
tonnellate;
indubbiamente
troppo
poco
per
tener
testa,
sul
mare,
alla
potenza
giapponese
del
dopo
restaurazione
Meiji.
A
mezzogiorno
del
17
settembre
1894
l’ammiraglio
Ito
Sukenori,
comandante
in
capo
dell’armata
navale
nipponica,
avvistò
il
naviglio
cinese
ammassato
all’imboccatura
del
fiume
Yalu
intento
nelle
operazioni
di
spostamento
dell’esercito
terrestre:
alle
12.45
ora
locale
i
giapponesi
diedero
inizio
all’attacco.
La
forza
cinese
risiedeva
nelle
due
navi
da
battaglia
ma
la
flotta
giapponese
era
più
omogenea
e
aveva
il
vantaggio
nella
velocità
e
nel
numero
di
cannoni
a
fuoco
rapido
(H.
B.
Morse);
la
battaglia
ebbe
termine
soltanto
nel
pomeriggio
inoltrato
quando
entrambe
le
flotte
rimasero
prive
di
munizioni.
Al
termine
della
giornata
di
guerra
il
resoconto
risultava
negativamente
sbilanciato
da
parte
cinese:
600
morti,
quattro
navi
affondate
e
centinaia
di
feriti
fra
cui
lo
stesso
ammiraglio
Ting
a
fronte
di
perdite
misere
fra
le
fila
giapponesi
(circa
240
morti)
e la
squadra
navale
praticamente
intatta,
eccezion
fatta
per
la
nave
madre
che
era
stata
oggetto
di
un
intenso
cannoneggiamento
perpetrato
dalle
due
corazzate
cinesi.
A
seguito
della
battaglia
del
fiume
Yalu
la
marina
e
l’esercito
giapponese
non
trovarono
grosse
difficoltà
nel
conquistare
la
maggior
parte
dei
porti,
sia
marittimi
che
fluviali,
della
parte
orientale
della
Cina.
Dopo
l’occupazione
di
Pingyang
(provincia
di
Zhejiang)
l’esercito
nipponico
passò
lo
Yalu
il
24
ottobre
1894
costringendo
le
truppe
imperiali
cinesi
ad
una
rovinosa
ritirata
fino
alla
catena
montuosa
del
Motienling;
i
due
eserciti
si
diedero
nuovamente
battaglia
l’11
dicembre
a
Hsümencheng,
una
località
nei
pressi
della
città
di
Haicheng,
provincia
di
Liaoning.
Gli
scontri
durarono
due
interi
giorni
e
culminarono
con
la
presa
della
città
da
parte
delle
forze
del
Giappone.
L’efficienza
della
macchina
bellica
nipponica
era
ormai
una
realtà
assodata
e
incuteva
timore
in
tutti
i
paesi
dell’Asia
orientale.
L’esercito
giapponese,
infatti,
oltre
ad
un
perfetto
uso
delle
tattiche
militari
occidentali,
aveva
dato
dimostrazione
di
estrema
spietatezza
massacrando
circa
20.000
civili
nella
città
di
Lüshunkou
(in
seguito
ribattezzata
Port
Arthur)
nel
novembre
1894
(l’episodio
è
passato
alla
storia
proprio
come
il
massacro
di
Port
Arthur).
La
difesa
di
quella
città
era
stata
affidata
al
generale
Wei
Ju-Cheng
che
aveva
la
possibilità
di
manovrare
una
fra
le
migliori
divisioni
dell’esercito
cinese,
tuttavia
come
sentenzia
Sun
Tzu
nel
capitolo
X
(configurazioni
del
terreno)
dell’Arte
della
guerra,
quando
l’esercito
è
indisciplinato
(truppe
forti,
generali
incompetenti)
allora
ecco
che
la
sconfitta
è
inevitabile.
Il
cosiddetto
Tao
della
sconfitta
che,
assieme
al
Tao
del
generale
e al
Tao
del
terreno,
costituisce
il
Tao
della
guerra:
quando
il
Tao
della
guerra
indica
che
la
vittoria
sarà
certa,
dovreste
ingaggiare
battaglia
anche
se
il
sovrano
vi
desse
l’ordine
di
evitare
lo
scontro.
Quando
il
Tao
della
guerra
indica
che
non
sarete
vittoriosi,
anche
se
il
sovrano
vi
ordinasse
di
ingaggiare
battaglia
non
dovreste
combattere
(Sun
Tzu).
Il
generale
Wei
Ju-cheng
si
dimostrò
particolarmente
inadatto
al
ruolo
di
difensore
di
un’importante
città
portuale
come
Lüshunkou
e
non
seppe
resistere
all’offensiva
finale
delle
truppe
giapponesi
scagliata
il
21
novembre.
La
schiacciante
superiorità
bellica
giapponese,
grazie
all’addestramento
di
molti
comandanti
nelle
scuole
militari
europee
e
alle
navi
costruite
nei
cantieri
francesi
e
tedeschi,
determinò
in
brevissimo
tempo
la
sconfitta
dell’esercito
di
Yuan
Shikai
la
cui
unica
forza
consisteva
nel
numero
di
combattenti.
La
guerra
si
concluse
nell’aprile
del
1895
con
la
firma
del
trattato
di
Shimonoseki,
conosciuto
in
Cina
anche
come
trattato
di
Maguan,
in
cui
le
inique
disposizioni
contenute
strappavano
definitivamente
anche
l’ultimo
lembo
di
dignità
ad
un
paese
divenuto
ormai
luogo
di
banchetto
per
ogni
potenza
industriale
che
nutrisse
appetiti
imperialistici.
Al
suo
interno
infatti,
si
prevedeva
il
riconoscimento
della
piena
autonomia
della
Corea;
la
cessione
di
Taiwan,
delle
isole
Pescadores
e
della
penisola
di
Liandong
nella
Manciuria
meridonale;
la
possibilità
accordata
ai
giapponesi
di
costruire
fabbriche
nei
treaty
ports
cinesi
(segnatamente
Canton,
Shanghai,
Fuzhou,
Ningbo,
Xiamen)
ed
un’indennità
di
guerra
di
200
milioni
di
taels
(valuta
in
argento
cinese).
Le
ambizioni
territoriali
del
Giappone
incitarono
le
potenze
occidentali
a
procedere
loro
volta
ad
annessioni
di
territori
cinesi
e a
spartirsi
la
Cina
in
sfere
d’influenza
che
altro
non
erano
se
non
riserve
di
caccia
per
lo
sfruttamento
delle
ricchezze
dell’antico
impero
(Jacques
Gernet).
In
effetti
la
prima
tangibile
conseguenza
della
sconfitta
militare
del
1895
è
rappresentata
dal
definitivo
realizzarsi
dello
smembramento
territoriale
dell’impero
mancese.
Fino
a
quando,
negli
anni
‘30
del
‘900,
il
Giappone
invade
ed
annette
la
Manciuria
nella
sua
interezza,
si
assiste
ad
un
susseguirsi
di
rapide
acquisizioni
e
concessioni
alle
potenze
straniere
che
estendono,
in
tal
modo,
la
propria
sovranità
ad
ampie
zone
della
Cina
costiera.
Alcuni
esempi:
1897,
annessione
di
Qingdao
e
Jiaozhou
nella
regione
dello
Shandong
da
parte
della
Germania,
nello
stesso
periodo
concessioni
territoriali
ai
giapponesi
nel
Jiangsu
e
nel
Zhejiang,
1898,
gli
Inglesi
ottengono
la
regione
di
Weihai,
i
Russi
le
città
di
Dalian
e
Port
Arthur,
1899
i
Francesi
annettono
la
regione
di
Zhanjiang,
1902,
Belgi,
Italiani
e
Austriaci
riescono
a
strappare
una
concessione
al
governo
cinese
nella
città
di
Tianjin.
La
storiografia
è
solita
definire
il
periodo
successivo
alla
prima
guerra
sino-giapponese
come
Scramble
for
Concessions
e
Spheres
of
Interests
con
particolare
riferimento
alla
politica
francese
e a
quella
russa:
la
prima
interamente
tesa
all’ottenimento
di
concessioni
ferroviarie
e
minerarie
unitamente
a
promesse
di
non
alienazione
accompagnate
da
preferenza
nell’assegnazione
di
crediti;
la
seconda
in
conflitto
tra
una
penetrazione
di
tipo
pacifico,
di
cui
esponente
di
rilievo
era
il
ministro
delle
finanze
e
sostenitore
dell’industria
ferroviaria
conte
Sergei
Witte
e
una
molto
più
assertiva
dalle
forme
marcatamente
imperialistiche
sostenuta
dal
ministro
degli
esteri
Michail
Nikolaevic
Muraviev.
La
contrapposizione
fu
superata
attraverso
la
sintesi
dei
due
metodi
proposti,
d’altra
parte
era
anche
vero
che
la
penetrazione
pacifica
avrebbe
richiesto
un’adeguata
protezione
militare
dei
propri
investimenti
altrimenti
intesa
quale
pacificazione
preventiva
del
territorio
oggetto
d’interesse.
Nello
stesso
lasso
di
tempo
in
cui
Francia
e
Russia
costituivano
le
basi
per
la
loro
pènetration
pacifique
all’esterno
dei
porti
aperti,
coadiuvate
dall’impiego
di
una
discreta
forza
militare,
le
vecchie
potenze
liberiste,
Gran
Bretagna
e
Stati
Uniti,
erano
entrambe
impegnate
nella
risoluzione
di
alcuni
conflitti
importanti:
gli
inglesi
contro
i
Boeri
in
Sudafrica,
gli
statunitensi
nella
repressione
dei
moti
rivoluzionari
nelle
Filippine.
Entrambe
erano
abbastanza
scettiche
e
preoccupate
riguardo
il
ruolo
che
la
Russia
stava
accingendosi
ad
esercitare
in
Asia
Orientale
e
che,
all’evenienza,
non
sarebbe
potuto
essere
efficacemente
arginato
con
la
forza
delle
armi;
per
tale
ragione,
scrive
Ostrehammel,
all’espansione
russa
non
vennero
opposte
armi
bensì
principi.
Intorno
al
1900,
il
ministro
degli
Esteri
statunitense
John
Hay
in
una
serie
di
note
sul
regime
della
porta
aperta
aveva
ribadito
l’essenzialità
di
alcuni
precetti
stabiliti
dal
sistema
dei
trattati
costituito
dai
britannici:
il
rispetto
delle
sfere
di
influenza
economica
assegnate
ad
ogni
singola
nazione,
l’adempimento
della
clausola
della
nazione
più
favorita,
la
salvaguardia
dell’integrità
territoriale
della
Cina.
Sebbene
le
note
di
John
Hay
e
l’atteggiamento
americano
avessero
contribuito
ad
aprire
la
via
agli
interessi
economici
USA
in
Asia,
di
altrettanta
fortuna
non
godette
la
Gran
Bretagna,
il
cui
ruolo
di
incontestata
preminenza
veniva
messo
in
discussione
da
un
impero
territoriale
di
proporzioni
e
potenza
enormi.
una
delle
poche
vittorie
inglesi
si
situa
nel
settore
della
mobilità
con
l’ottenimento
di
concessioni
ferroviarie
per
un
totale
di
2800
miglia
di
rotaie
contro
i
1530
della
Russia.
Risultano
evidenti,
in
considerazione
di
quanto
scritto,
due
punti
chiave
della
politica
internazionale
in
Estremo
Oriente:
da
una
parte
la
perdita
di
potere
contrattuale
della
potenza
marittima
per
eccellenza,
la
Gran
Bretagna,
e
l’avanzata
dell’impero
russo,
dall’altra
l’estrema
precarietà
e la
non
vincolatività
delle
clausole
contrattuali
contenute
nel
sistema
dei
trattati
britannico.
In
conclusione
questo
era
dunque
lo
Scramble
for
Concessions,
prezioso
e
caro
agli
storici
della
diplomazia
perché
mostra
tutta
una
serie
di
potenze
impegnate
nella
loro
occupazione
principale:
il
rivaleggiare.
Esso
iniziò
con
una
guerra,
quella
del
1894-1895,
e
terminò
con
un
conflitto
molto
più
grande
la
guerra
russo-giapponese
del
1904-1905.
Tuttavia
la
drammaticità
superficiale
di
questi
anni
non
ci
deve
autorizzare
a
spostare
lo
sguardo
dalle
continuità.
Lo
Scramble
non
era
un
duello
da
selvaggio
West,
non
era
un
gioco
di
carte
tra
grandi
potenze
in
cui
si
vince
con
zero
punti.
Tutti
gli
acquisti
delle
potenze
al
di
fuori
della
Manciuria
avvenivano,
come
anche
prima
del
1895,
a
spese
della
Cina
e
non
degli
imperi
o
degli
stati
rivali
(J.
Ostrehammel).
In
buona
sostanza,
il
great
game
in
Asia
orientale
fra
le
potenze
europee
era
suscettibile,
in
ogni
momento
e
per
qualsiasi
buona
ragione
concernente
l’interesse
collettivo
delle
nazioni,
di
variazioni
anche
sensibili
dal
tracciato
originario
attivando
(o
meglio
riesumando)
una
fondamentale
disponibilità
alla
collaborazione.
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