N. 46 - Ottobre 2011
(LXXVII)
LA GUERRA DELL’OPPIO
Inghilterra VS cina
di Roberto Rota e Nicola Ponticiello
La guerra dell’oppio, cioè la guerra Anglo-Cinese, è sicuramente uno dei momenti più bassi e degradanti del secolare processo di colonizzazione del Regno Unito e, in generale, della storia coloniale europea.
L’oppio
(che
si
ricava
incidendo
le
capsule
immature
del
Papaver
somniferum
e
raccogliendo
il
lattice
che
trasuda)
ha
avuto
una
lunga
storia
in
Cina
in
quanto
usato
come
medicina
popolare,
somministrato
in
particolari
cibi
o
bevande.
Per
l’arte
medicinale
erboristica
esso
aveva
effetti
benefici
contro
malattie
quali
la
dissenteria,
la
tosse
e
l’asma.
I
veri
problemi,
però,
cominciarono
nel
momento
in
cui
più
che
esser
usato
come
un
medicinale,
si
cominciò
a
fumarlo.
Nella
diffusione
dello
stupefacente
non
fu
secondaria
l’azione
degli
stessi
portoghesi
che,
dalle
loro
colonie
di
Macao
e
Goa,
cominciarono
a
contrabbandarlo
nell’entroterra,
soprattutto
attraverso
la
navigazione
fluviale.
La
diffusione
fu
dapprima
concentrata
tra
i
giovani
di
ricca
famiglia,
unici
a
potersi
permettere
tale
lusso,
anzi
il
consumo
d’oppio
divenne
quasi
il
simbolo
del
loro
status
privilegiato.
Ben
presto,
comunque,
si
diffuse
in
tutti
gli
strati
sociali,
la
qual
cosa,
ovviamente,
aggravò
situazioni
socio
economiche
spesso
disperate.
Sarebbe
superficiale
attribuire
la
responsabilità
di
tale
diffusione
esclusivamente
all’avidità
dei
mercanti
occidentali.
È
vero
che
nel
1729
con
un
editto
imperiale
si
proibì
il
commercio
e il
fumo
d’oppio,
e
che
nel
1796
un
altro
decreto
ne
vietava
l’importazione
e la
produzione
in
Cina,
tuttavia
troppi
erano
gli
interessi
in
campo
e la
possibilità
di
arricchirsi,
da
parte
della
malavita
e
degli
stessi
funzionari,
era
una
prospettiva
troppo
allettante
per
non
essere
sfruttata.
Le
connivenze
del
sistema
con
il
contrabbando
della
droga
rendevano
qualsiasi
proibizione
inefficiente.
Nel
XVII
secolo
scese
in
campo
anche
l’emergente
potenza
britannica.
Fu
concesso
alla
Compagnia
delle
Indie
Orientali
il
monopolio
del
commercio
dell’oppio
dall’India
(dove
cominciavano
a
diffondersi
grandi
piantagioni)
alla
Cina,
in
cambio
del
tè e
della
seta.
La
spregiudicatezza
degli
inglesi
derivava
dal
fatto
che
essi
avevano
una
grande
domanda
interna
di
prodotti
cinesi
(porcellane,
sete…),
ma
non
avevano
prodotti
da
esportare.
La
“nuova
merce”,
però,
ebbe
effetti
disastrosi
anche
per
i
britannici
in
quanto
cominciò
a
diffondersi
anche
in
patria
con
effetti
deleteri
sul
tessuto
sociale.
Essa,
chiaramente,
non
era
appannaggio
dei
soli
ambianti
malfamati
ma,
insieme
al
laudano,
si
diffuse
tra
gli
intellettuali
e
gli
artisti
(tra
cui
ricordiamo
Thomas
De
Quincey
che
scrisse
Le
confessioni
di
un
mangiatore
d’oppio).
Come
abbiamo
visto,
quindi
la
diffusione
delle
piantagioni
in
India
e
dei
laboratori
di
trasformazione
(nel
Bengala)
era
incoraggiata
dal
fatto
che
l’Impero
britannico
non
aveva
prodotti
autoctoni
(se
si
esclude
il
cotone
grezzo)
da
poter
esportare
in
cambio
delle
mercanzie
cinesi.
In
tale
situazione
le
merci
dovevano
essere
acquistate
con
metalli
preziosi,
la
qual
cosa
voleva
dire
dissanguare
le
proprie
scorte
interne,
oltretutto
i
cinesi
volevano
essere
pagati
in
argento
e
non
in
oro
(come
accadeva
in
Europa)
e
ciò
aggiungeva
ulteriori
svantaggi:
non
solo
ci
si
doveva
privare
delle
priorie
scorte
ma
bisognava
convertire
l’oro
in
argento
pagando
le
relative
commesse.
In
definitiva,
quindi,
tale
sistema
risultava
fortemente
antieconomico
e
per
questo
bisognava
trovare
una
soluzione
plausibile.
Inoltre
si
riteneva
che
una
massiccia
esportazione
di
oro
(da
convertirsi
in
argento)
avrebbe
portato
ad
una
forte
svalutazione
della
sterlina,
con
tutte
le
conseguenze
negative
che
ne
sarebbero
derivate.
Il
passaggio
dall’esportazione
di
oro
al
contrabbando
dell’oppio
fu
un
percorso
quasi
obbligato.
Tale
commercio,
lungi
dall’apparire
immorale,
era
semplicemente
visto
come
una
risposta
razionale
e
funzionale.
Per
evitare
il
salasso
di
metalli
preziosi,
bisognava
pur
in
qualche
modo
riportare
in
equilibrio
la
bilancia
dei
pagamenti
e
ridurre,
quindi,
il
deficit.
Nella
prima
metà
dell’800
si
stima
che
la
Gran
Bretagna
abbia
contrabbandato
in
Cina
oppio
per
un
valore
di
300-400
milioni
di
talleri
d’argento
(con
un
deficit
di
100
milioni
di
once
d’argento
tra
il
1821
e il
1829),
la
qual
cosa
prosciugò
le
risorse
cinesi
e
diede
avvio
ad
una
profonda
stagnazione
industriale
e
commerciale,
mettendo
in
ginocchio
anche
e
soprattutto
il
mondo
rurale
costretto
a
pagare
le
tasse
direttamente
in
argento.
Gli
esiti
non
furono
drammatici
solo
dal
punto
di
vista
economico
in
quanto
la
corruzione
dilagò
e
divenne,
insieme
all’uso
della
droga,
una
vera
e
propria
piaga
sociale.
Dall’altra
parte,
l’aumento
del
consumo
di
tale
stupefacente
ne
faceva
crescere
vertiginosamente
le
aree
messe
a
coltura
in
India,
le
quali
raggiunsero
l’estensione,
nel
corso
degli
anni
80
dell’800,
di
mezzo
milione
di
ettari.
Si
pensi
che
nel
1858
(anno
in
cui,
anche
a
seguito
dei
“moti
indiani”,
la
Compagnia
perse
le
sue
funzioni
amministrative)
i
guadagni
per
il
commercio
dell’oppio
rappresentavano
per
il
Regno
Unito
il
10%-15%
degli
introiti
complessivi.
Dinanzi
alla
drammatica
situazione
la
dinastia
Qing
cercò
di
rendere
illegale
lo
stupefacente
e di
mettere
in
atto
una
campagna
contro
la
corruzione
e il
contrabbando.
A
fronte
di
tali
tentativi
gli
inglesi
cercarono
di
normalizzare
i
rapporti.
Bisogna
ricordare
che
i
“rapporti
diplomatici”
con
i
cinesi
erano
alquanto
anomali
in
quanto
non
basati
su
di
un
organizzato
corpo
di
funzionari,
ma,
più
semplicemente
erano
i
mercanti,
in
ogni
caso
sempre
“ospiti
temporanei”
controllati
, a
fungere
da
intermediari.
Essi
erano
considerati
come
dei
semplice
vassalli,
i
cinesi
potevano
tollerare
come
rappresentante
il
“capo”
dei
mercanti
inglesi
(vassallo)
ma
non
un
ambasciatore
(figura
necessariamente
più
autonoma).
Anche
i
rapporti
commerciali
erano
limitati
alla
sola
città
di
Canton
dove
erano
imposti
forti
dazi
alle
importazioni.
Nel
1838
l’imperatore
Daoguang
inviò
Lin
Zexu,
come
commissario
imperiale
plenipotenziario,
nella
provincia
del
Guangdong
per
lottare
contro
il
contrabbando
dell'oppio.
Il
commissario
intimò
i
commercianti
stranieri
di
consegnare
entro
tre
giorni
tutta
loro
merce
illegale
e,
ricevutala,
fece
distruggere
tutte
le
20.000
casse
d’oppio
confiscate.
Lin
Zexu,
poi,
costrinse
tutti
i
commercianti
inglesi
a
sottoscrivere
un
documento
in
cui
si
vincolava
la
continuazione
delle
attività
commerciali
alla
cessazione
del
contrabbando
dello
stupefacente,
ma
il
sovraintendente
inglese,
Sir
Charles
Elliot,
proibì
ai
suoi
connazionali
di
firmare.
Sir
Elliot
contribuì
ulteriormente
ad
inasprire
la
situazione
quando
si
rifiutò
di
consegnare
alle
autorità
orientali
un
marinaio
britannico
il
quale
era
accusato
di
aver
ucciso,
mentre
era
ubriaco,
un
cinese.
Di
fronte
alle
misure
adottate
dal
governo
Qing
la
situazione
a
Londra
divenne
sempre
più
tesa.
In
particolare
suscitavano
grandi
preoccupazioni
e le
azioni
repressive
di
Lin
Zexu
e le
nuove
richieste
del
governo
cinese
che
chiedeva
ai
commercianti
di
versare
una
cauzione
a
garanzia
di
futuri
coinvolgimenti
nel
contrabbando,
pena
l'esclusione
dai
commerci.
Le
pressioni
della
borghesia
e
dei
gruppi
d’interesse
legati
al
contrabbando
d’oppio
spinsero
il
governo
verso
la
guerra.
Era
l’anno
1840.
Lord
Palmerston
(Henry
John
Temple)
spedì
immediatamente
una
flotta
(circa
40
navi)
alla
foce
del
Fiume
delle
Perle
(Zhk
Jing)
con
l '
intento
di
assediare
Canton.
Era
cominciata
la
cosiddetta
Prima
Guerra
dell
Oppio.
La
difesa
cinese
fu
facilmente
travolta
e la
guerra
si
concluse
in
meno
di
due
anni.
Il
29
agosto
1842
il
trattato
di
pace
fu
firmato
a
bordo
della
nave
inglese
HMS
Cornwallis
ormeggiata
a
Nanchino
(da
cui
il
nome
Trattato
di
Nanchino)
tra
il
delegato
inglese
sir
Henry
Pottinger
e
quelli
Qing
Qiying,
Ilibu
e
Niujian.
Si
apriva
la
stagione
dei
“trattati
ineguali”
che
sancivano
la
sottomissione
dell’oriente
all’occidente.
Il
trattato
spezzava
il
monopolio
commerciale
di
Canton
e
apriva
al
commercio
ben
cinque
porti:
Shamian,
Xiamen,
Fuzhou,
Ningbo
e
Shanghai
con
il
libero
accesso
ai
prodotti
delle
province
meridionali
con
basse
tariffe
doganali.
Il
commercio
dell’oppio
vene
liberalizzato
e,
cosa
fondamentale,
venne
regolarizzata
anche
la
situazione
diplomatica
in
quanto
fu
stabilito
che
gli
inglesi
potessero
avere,
in
tali
porti,
dei
consoli,
interlocutori
privilegiati
ed
autorizzati
con
le
autorità
cinesi.
Fu
imposto,
inoltre,
un
pagamento
di
ben
21
milioni
di
dollari
e
per
i
danni
di
guerra
e
per
risarcire
i
commercianti
che
avevano
subito
le
confische
di
Lin
Zexu.
Infine
fu
ceduta
in
perpetuo
ai
britannici
l'isola
di
Hong
Kong.
Il
commercio
dell’oppio,
quindi,
proseguì
indisturbato,
in
quanto,
in
seguito
al
trattato,
i
commerciati
britannici
erano
rimasti
esclusivamente
sotto
la
giurisdizione
dei
loro
consoli.
Le
conseguenze
del
trattato
furono
disastrose
per
gli
equilibri
interni
del
paese,
non
solo
esso
aprì
la
strada
alla
penetrazione
e
allo
sfruttamento
delle
potenze
occidentali
(insieme
al
Regno
Unito
anche
Francia
e
Stati
Uniti)
ma
l’umiliazione
subita
creò
un
profondo
malcontento
nel
paese,
il
quale
fu
travolto
dalla
sanguinosa
rivolta
dei
Taiping,
che
fece
milioni
di
morti
tra
militari
e
civili.
Infatti
tale
rivolta
era
stata
portata
avanti
dalla
setta
degli
"Adoratori
di
Dio"
(fondata
da
Hong
Xiuquan,
autoproclamatosi
fratello
minore
di
Gesù
Cristo),
i
quali,
tra
le
altre
cose,
volevano
ridare
prestigio
ad
una
Cina
fortemente
indebolita
dalla
prima
guerra
dell’oppio.
Le
vicende
legate
al
commercio
dello
stupefacente
non
si
conclusero,
però,
qui.
Una
serie
di
futili
e
pretestuosi
motivi
portarono
alla
Seconda
Guerra
dell’oppio
(1856–1860),
la
quale
vedeva
la
Gran
Bretagna
ora
affiancata
direttamente
dalla
Francia
e
appoggiata
diplomaticamente
dalla
Russia
e
dagli
Stati
Uniti.
In
particolare
la
Francia
si
appellava
all’uccisione
di
un
proprio
missionario
(padre
Auguste
Chapdelaine)
mentre
per
gli
inglesi
il
casus
belli
fu
la
cattura
del
battello
cinese
Arrow
accusato
da
parte
delle
autorità
orientali
di
portare
avanti
azioni
di
contrabbando
d’oppio
(comunque
vietate
ai
cinesi).
Per
gli
inglesi,
invece,
essendo
tale
battello
stato
registrato
in
Gran
Bretagna
(ma
si
dimenticarono
di
ricordare
alle
autorità
orientali
che
la
registrazione
era
scaduta)
e
portando
esso
il
vessillo
britannico
rientrava
sotto
l’immunità
stabilita
con
il
trattato
di
Nanchino.
Le
ovvie
motivazioni
che
spinsero
la
Francia
e la
Gran
Bretagna
verso
la
guerra
erano
di
origine
economica,
essi
volevano,
umiliando
nuovamente
l’impero
cinese,
ottenere
ulteriori
concessioni
militari,
diplomatiche,
missionarie
e,
non
ultime,
economico-commerciali.
Cominciavano
così
le
ostilità
chiamate
“seconda
guerra
dell’oppio”.
Era
l’anno
1856.
Le
forze
cinesi,
prese
nella
doppia
morsa
dell’attacco
occidentale
e
della
rivolta
dei
Taiping,
non
ebbero
scampo.
Nel
dicembre
1857
gli
anglo
francesi,
sotto
il
comando
dell'ammiraglio
Sir
Michael
Seymour,
presero
Canton
(Guangzhou)
e si
diressero
al
nord
per
prendere
i
Forti
di
Taku
(maggio
1958,
nei
pressi
di
Tianjin),
porta
di
accesso
per
Pechino.
Nel
1858
la
prima
parte
del
conflitto
di
concluse
con
i
Trattati
di
Tientsin
tra
la
Cina,
da
un
lato,
e la
Francia,
la
Gran
Bretagna,
la
Russia
e
gli
Stati
Uniti,
dall’altro.
Tali
trattati
prevedevano
l’apertura
al
commercio
estero
di
altri
undici
porti
cinesi
oltre
quelli
già
stabiliti
dal
precedente
accordo
di
Nanchino.
Si
stabilì
la
possibilità,
da
parte
dei
paesi
firmatari,
di
aprire
proprie
legazioni
a
Pechino
(fino
a
quel
momento
città
chiusa)
e si
permise
alle
navi
straniere
di
navigare
liberamente
sul
fiume
Yangtze
Kiang.
Inoltre
la
Cina
avrebbe
dovuto
versare
alla
Francia
e
alla
Gran
Bretagna
cospicui
indennizzi
e,
infine,
sarebbe
stato
permesso
agli
stranieri
di
accedere
alle
zone
interne
del
paese
per
motivi
di
escursione,
commercio
o
attività
missionaria.
Dopo
aver
firmato
l’iniquo
trattato
l’imperatore
Xianfeng,
sotto
la
pressione
di
alcuni
suoi
ministri,
decise
di
resistere
allo
scacco
occidentale
e
ordinò
al
generale
mongolo
Sengge
Rinchen
di
rinforzare
le
guarnigioni
dei
Forti
di
Taku.
Era
intenzionato
a
resistere.
Nel
giugno
del
1859,
una
forza
navale
britannica
con
2.200
soldati
e 21
navi,
sotto
il
comando
dell'ammiraglio
Sir
James
Hope
cercò
di
spezzare
le
resistenze
dei
forti
sbarcando
sulla
foce
del
fiume
Hai
ma
la
resistenza
di
Sengge
Richen
fu
formidabile.
Solo
grazie
alla
copertura
del
commodoro
statunitense
Josiah
Tattnall
(che
in
questo
modo
violava
la
neutralità
del
suo
paese)
parte
delle
forze
britanniche
riuscì
a
mettersi
in
salvo.
Nell’estate
successiva
una
ben
più
vigorosa
flotta
(forte
di
11.000
britannici,
6.700
francesi
e
ben
173)
prese
i
porti
di
Yantai
e
Dalian
e,
sbarcata
nella
città
di
Beitang
prese
facilmente
i
forti
di
Taku.
La
strada
verso
Pechino
era
aperta.
A
nulla
valsero
i
tentativi
diplomatici
dell’imperatore
anche
perché
parte
della
delegazione
britannica
(tra
cui
il
diplomatico
Harry
Parkes)
fu
arrestata
e
torturata.
La
battaglia
decisiva,
che
consentì
agli
occidentali
di
marciare
su
Pechino
fu
combattuta
il
21
settembre
1860
sul
ponte
Baliqiao
(letteralmente
Ponte
di
otto
miglia)
nell’omonimo
sobborgo
della
capitale.
Dopo
sanguinosi
combattimenti
la
vittoria
fu
degli
occidentali
(i
francesi
erano
guidati
da
Charles
Guillaume
Cousin-Montauban
mentre
gli
inglesi
da
generale
James
Hope
Grant)
i
quali,
dopo
la
fuga
dell’imperatore,
devastarono
l’intera
città,
in
particolare
furono
saccheggiati
e
messi
a
fuoco
il
Palazzo
d'Estate
(Yihe
Yuan)
e il
Vecchio
Palazzo
d'Estate
(Yuan
Ming
Yuan),
si
disse
come
punizione
per
il
maltrattamento
dei
prigionieri
europei.
Si
giunse,
così,
alla
fine
del
conflitto
con
la
Convenzione
di
Pechino
(18
ottobre
1960),
ratificata
dal
fratello
dell’imperatore,
Yixin,
il
Principe
Gong,
dal
britannico
Lord
Elgin
e
dal
francese
Jean-Baptiste
Louis
Gros.
Venivano
cedute
agli
inglesi
l'isola
di
Stonecutter
e la
parte
meridionale
della
penisola
di
Kowloon
mentre
ai
russi
(che
avevano
partecipato
alla
convenzione
tramite
Nikolay
Muravyov-Amursky)
andavano
parte
della
Manciuria
esterna
e il
controllo
sul
territorio
del
fiume
Ussuri.
Oltre
a
ciò
la
Cina
fu
costretta
a
ratificare
definitivamente
trattato
di
Tianjin,
a
legalizzare
il
commercio
d’oppio
e a
conferire
pieni
diritti
ai
cristiani
(in
particolare
la
possibilità
di
avere
proprietà).
La
debolezza
con
cui
i
cinesi
accettarono
le
imposizioni
occidentali
erano
dettate,
anche,
dalle
preoccupazioni
per
la
rivolta
dei
Taiping.
L’imperatore
aveva
bisogno
dell’aiuto
degli
europei
per
evitare
la
disfatta
completa.
Ma
tale
arrendevolezza
fu
l’inizio,
o
meglio,
il
fattore
catalizzante
del
declino
della
dinastia
Qing
(Manciù),
la
qual
cosa
diede
vigore
a
tutti
i
futuri
movimenti
nazionalistici
e
alle
organizzazioni
antimancesi,
protagonisti
delle
successive
vicende
politiche.
Intorno
agli
anni
’90
dell’ottocento,
tramontava
anche
il
funesto
commercio
dell’oppio.
Le
colture,
ormai,
si
erano
fortemente
diffuse
all’interno
del
paese
(in
particolare
nella
regione
dello
Yunnan)
e la
sua
importazione
era
ormai
diventata
superflua.