[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

190 / OTTOBRE 2023 (CCXXI)


attualità

L’ENNESIMA GUERRA ISRAELO-PALESTINESE
L'ETERNO CONFLITTO RITORNA

di Gian Marco Boellisi

 

Un eterno ritorno di fiamma: così può essere sintetizzato il conflitto israelo-palestinese. Tra le questioni più complesse e divisive dal secondo dopoguerra, lo scontro tra Israele e Palestina è una delle più importanti faccende irrisolte delle relazioni internazionali.

 

Per quanto in alcuni periodi esso sia sembrato definitivamente archiviato, periodicamente l’azione di una delle due parti, o peggio di entrambe, getta nuova benzina su questo sempiterno fuoco di violenza e odio. Ed è proprio quello che è successo lo scorso sabato 7 ottobre 2023, quando miliziani appartenenti ad Hamas hanno lanciato il più grande attacco a Israele degli ultimi cinquanta anni causando un numero ancora oggi imprecisato di vittime, perlopiù civili.

 

Ciò ovviamente ha portato Israele a reagire in maniera repentina e violenta, con tutte le conseguenze a cui ancora oggi assistiamo ora per ora sulla striscia di Gaza. Nonostante la situazione sia ancora in quotidiana evoluzione, è estremamente importante analizzare quanto accaduto in queste settimane e comprendere dove l’attuale corso degli eventi possa portare lo scenario mediorientale, ma non solo.

 

Lo scorso 7 ottobre 2023 miliziani del movimento islamista Hamas hanno lanciato dalla striscia di Gaza un attacco di proporzioni mai viste negli ultimi decenni. Una pioggia di 5.000 missili è stata lanciata verso Israele mentre al contempo commando oltrepassavano il confine di Gaza per penetrare in territorio israeliano, compiendo diversi eccidi nei confronti di civili ivi presenti nonché prendendo numerosi ostaggi con sé, tra cui un gran numero di stranieri. L’attacco nel suo complesso è durato circa 50 ore ed è stata la più grande violazioni territoriale di Israele dalla guerra del Kippur in poi, portando numerosi analisti a ribattezzare questa data come la Pearl Harbour o l’11 settembre di Israele. A discrezione di chi scrive.

 

Lasciando un attimo da parte l’impatto in vite umane dell’attacco, che è stato oltre ogni dubbio tragico, l’effetto sortito da parte di questa vile aggressione è stato in prima battuta mediatico. La data del 7 ottobre non è stata scelta a caso, ma cade nel 50esimo anniversario della guerra del Kippur, iniziata il 6 ottobre 1973 con l’invasione di Israele da parte di Siria ed Egitto. Oltre al rimando storico, il grande colpo psicologico è dovuto anche per le modalità con cui è stato effettuato l’attacco, ovvero mediante l’utilizzo di deltaplani, droni, tunnel e in generale mezzi del tutto insoliti per quelli che sono gli stereotipi associati a un’organizzazione terroristica.

 

Per la prima volta in 50 anni Israele è sembrata vulnerabile, debole, non più quel blocco d’acciaio imperturbabile fatto di caccia F-35 e carri armati Merkava di cui si è tanto sentito parlare negli ultimi anni. E soprattutto per la prima volta è sembrato che Gaza fosse dentro Israele, tutta quanta, e non più il contrario.

 

Come prevedibile, dopo un attacco così pesante e improvviso, Israele ha risposto sin da subito con tutta la potenza militare di cui è capace. è stato dichiarato immediatamente lo stato di guerra, cosa che non succedeva anch’essa dal conflitto del Kippur del 1973, con relativa mobilitazione dei propri riservisti sia al confine con Gaza sia con il Libano. A oggi risulterebbe il quinto conflitto in meno di vent’anni tra Israele e Palestina.

 

A breve dovrebbe essere inaugurata l’offensiva di terra israeliana, forte dei suoi 300 mila effettiva, dei centinaia di carri armati Merkava e dei blindati nonché di tutta la forza aerea a relativo supporto. Proprio l’aviazione non ha mai smesso di colpire la striscia di Gaza sin dal 7 ottobre, con i prevedibili risultati sulla popolazione civile ivi presente.

 

È importante ricordare infatti che il territorio di Gaza è uno dei luoghi a più alta densità abitativa al mondo, i cui residenti sono per lo più civili. Per quanto siano stati invocati in più occasioni corridoi umanitari provenienti dall’Egitto, è molto difficile che essi verranno messi in atto e che durino a lungo, specie quando l’attuale politica di Israele può essere riassunta dalle affermazioni del ministro della Difesa Yoav Gallant: «Israele è in guerra con degli animali, pertanto si comporterà di conseguenza».

 

A oggi è del tutto inutile fare la conta delle vittime, siano esse israeliane o palestinesi. Le prime aumenteranno vertiginosamente non appena il primo soldato delle IDF (Israel Defence Force) metterà piede nel dedalo di stradine e cunicoli di Gaza, le seconde aumentano ogni ora grazie ai diffusi bombardamenti dell’aviazione israeliana.

 

Il timore dell’intera comunità internazionale verte anche su un potenziale allargamento del conflitto che riguarda il sud del Libano, dove già si registrano scontri isolati con Hezbollah, la quale potrebbe cogliere l’occasione dell’operazione di terra a Gaza per distrarre parte delle forze israeliane a nord. Qui tuttavia si tratterebbe di combattere un nemico molto diverso da Hamas. Mentre questi è un’organizzazione terroristica nata e cresciuta in Palestina, Hezbollah ha maturato nell’arco dell’ultimo decennio un’esperienza di combattimento non indifferente in vari scenari mediorientali, specie in Siria e in Iraq. Da qui il grande pericolo per l’IDF qualora si sottovalutasse ancora una volta il proprio nemico.

 

In generale il timore legato all’offensiva di terra è sia nazionale sia internazionale. Con il passare dei giorni infatti l’opinione pubblica si sta rendendo conto che un’occupazione militare della striscia di Gaza sia estremamente difficile da raggiungere, oltre che praticamente impossibile da mantenere nel tempo se non a costo di innumerevoli vite umane. Per quanto una larga fetta di Israele gridi vendetta per il 7 ottobre, ci si sta rendendo conto che la vendetta è una lama affilata da entrambi i lati. Proprio per la scarsa chiarezza degli obiettivi politici che un’occupazione militare della striscia ha in questo momento, l’operazione terrestre è stata messa in dubbio anche dal maggior sostenitore di Israele: gli Stati Uniti. Ed è forse questo uno dei motivi per cui non si è ancora assistito all’inizio delle operazioni.

 

A oggi vari tentativi di mediazione sono in atto da vari paesi dell’area mediorientale, quali Qatar, Egitto e Turchia. Tuttavia il proseguo dei bombardamenti e l’ammassamento di truppe israeliane non fanno che presagire che si andrà per un accordo nel breve termine. Molti analisti si stanno focalizzando sul come sia stato possibile che Hamas sia riuscita a organizzare e mettere in atto un simile attacco a sorpresa ai danni di una delle maggiori potenze militari del mondo.

 

Come si può intuire, le cause sono molteplici. Sicuramente ha aiutato il focus del mondo da due anni a questa parte sulla guerra in Ucraina, che ha permesso al movimento islamista di aumentare notevolmente i propri arsenali. Una grande responsabilità tuttavia ricade su Israele stessa. Nelle ultime settimane si è puntato il dito molto spesso contro il Mossad, i servizi segreti esteri israeliani, così come contro lo Shin Bet, i servizi per gli affari interni. Per quanto queste agenzie abbiano la loro dose di responsabilità, la colpa maggiore è sicuramente a livello politico, non d’intelligence. È stata infatti volontà dei governi degli ultimi anni, presieduti in maniera pressocché costante da Benjamin Netanyahu, a focalizzare l’attenzione contro una e una sola minaccia, ovvero l’Iran.

 

Nei confronti del Mossad la linea è stata quella di agire esclusivamente contro questo nemico, tralasciando quelli che potevano essere i movimenti di Hamas al di fuori della propria porta di casa. Vedendo qual è stato il risultato, viene da pensare quasi che Netanyahu e i suoi vertici possano aver considerato la Palestina ininfluente, o peggio addirittura non come uno stato estero, ma come una provincia ribelle in attesa di essere pacificata. Fatto che denota una ben più macchinosa linea di pensiero da un punto di vista politico e soprattutto umano.

 

Al di là degli evidenti errori di valutazione, è abbastanza evidente che Israele e i suoi vertici si stanno apprestando a commettere un’altra volta lo stesso errore perpetrato in tutti gli ultimi conflitti con le forze di Hamas. A oggi infatti una risposta militare nei confronti di questo movimento è sempre risultata inconcludente a lungo termine. Si sono sempre ridotte le capacità di Hamas e magari anche azzerato i suoi vertici e i suoi membri di rilievo, ma il movimento sunnita ha sempre trovato terreno fertile per una sua ricrescita. Questo poichè rinchiudendo la popolazione palestinese in un’enclave e non dandole modo di arrivare a una soluzione politica, si è sempre ottenuta una maggiore radicalizzazione della popolazione civile, non un suo alleggerimento. Non andando incontro a una soluzione su un tavolo negoziale della questione dei confini, della distribuzione delle risorse e in generale di una pacifica convivenza, la diffusione e il sostegno ad Hamas è l’unico risultato a cui si può assistere. Il fallimento di Israele quindi è, prima che militare, politico.

 

Da un punto di vista interno, per Benjamin Netanyahu la guerra cade nel momento migliore per il suo governo. Alle prese con l’approvazione della travagliatissima riforma della giustizia, Netanyahu si è trovato a dover governare un paese radicalmente spaccato dalle sue politiche sempre maggiormente oltranziste e ultra conservatrici. Motivo per cui l’unica cosa che poteva unire Israele in questo momento storico era una guerra contro il nemico storico, la Palestina. Un esempio fra tutti, le manifestazioni che imperavano nel paese si sono interrotte e i riservisti, che volevano astenersi dal servizio militare in segno di protesta, si sono presentati ai rispettivi comandi per partecipare alle operazioni militari.

 

A oggi le divisioni sembrano essere state messe temporaneamente da parte, però non bisogna illudersi. Infatti a valle di questo ennesimo conflitto, e di come esso si concluderà per Israele, si aprirà la discussione sulle gravissime responsabilità degli attacchi del 7 ottobre, responsabilità che qualcuno si dovrà assumere. Alcuni analisti hanno affermato che la sopravvivenza politica di Netanyahu sia legata a questa guerra e al suo esito, altri invece che Netanyahu sia già uno zombie che cammina, tenuto in piedi dall’emergenza nazionale e dal relativo smacco che mostrerebbe Israele a cambiare presidente nel mentre di una guerra. Qualunque sia il suo fato, Benjamin Netanyahu ha dimostrato al mondo intero come le sue politiche ultra conservatrici non possano che portare a un inasprimento del conflitto e delle divisioni, sia verso l’interno sia verso l’esterno. Per quanto questo conflitto giustifichi a oggi al popolo israeliano la sua permanenza al potere, ci sarebbe da chiedersi semplicemente a che prezzo giunge questa sua sopravvivenza politica.

 

Dal punto di vista degli esteri, l’ennesimo conflitto israelo-palestinese non ha fatto che buttare ulteriore benzina su un pozzo di petrolio già in fiamme. Inserendosi all’interno di un contesto internazionale in cui la guerra sembra essere tornata come uno dei mezzi principali per la risoluzione delle controversie internazionali, la guerra con Hamas ha portato ad alimentare tensioni politiche ed economiche di tutta l’area mediorientale. In particolar modo un grande timore è stato sollevato per le relazioni tra Israele ed Emirati Arabi e Bahrein, firmatari dei famosi Accordi di Abramo, per non parlare del piano di normalizzazione con l’Arabia Saudita, con la quale la strada sarà doppiamente in salita vista l’ormai sempre più vicinanza a Iran e Cina.

 

La Russia ha finalmente tirato un respiro di sollievo, visto che l’attenzione internazionale non è più focalizzata in toto sul conflitto russo-ucraino per la prima volta da quell’ormai lontano 24 febbraio 2022. Dall’altro lato gli Stati Uniti, sebbene in un primo momento abbiano confermato il loro scontato supporto a Israele in tutto e per tutto, con il passare dei giorni hanno moderato il loro sostegno a un’azione di terra a Gaza e in generale hanno cercato di far vertere le azioni del proprio alleato verso una pacifica liberazione degli ostaggi, ostaggi che sembrano a tratti dimenticati e il cui destino sarebbe incerto se le IDF entrassero nella striscia.

 

Da un punto di vista regionale, il prolungarsi del conflitto e l’assistere a violenze indiscriminate da entrambe le parti porterebbe solamente a un aumento della tensione, tale per cui altri attori potrebbero prendere parte ai giochi. Abbiamo già menzionato Hezbollah, ma vi sono anche la Siria e, dulcis in fundo, l’Iran, i quali al momento osservano distanti ma che hanno avuto con grande probabilità una grande voce nel supporto ad Hamas. Il mondo arabo in generale non ha mai dimenticato le varie umiliazioni subite nelle guerre con Israele negli scorsi 70 anni e i progressi nelle normalizzazioni delle relazioni diplomatiche degli ultimi anni potrebbero avere un brusco dietrofront se l’efferatezza delle violenze raggiungerà un livello inaudito, specie nei confronti dei civili.

 

Una riflessione interessante può essere fatta sulla narrazione che si sta facendo di questo ennesimo conflitto moderno. Sin dal lancio dei primi razzi di Hamas, gli scontri, i rapimenti, e i bombardamenti sono stati ripresi e mostrati dai media e dai social di tutto il mondo, esattamente come era stato fatto e lo è ancora per il conflitto ucraino. Quella che può essere considerata la prima guerra moderna con una copertura mediatica 24 h su 24, e con la conseguente produzione di annesse tifoserie a favore di una o dell’altra parte, ora non è altro che l’apripista per un nuovo modo di narrare la guerra. E, analogamente alla guerra russo-ucraina, si è assistiti immediatamente a una polarizzazione agghiacciante del dibattito sul conflitto israelo-palestinese, con un’esacerbazione ancora più marcata della narrazione buoni contro cattivi. Ovviamente ciò è dovuto in parte al pesante retaggio storico che reca con sé il popolo israeliano, ma forse questo è un solo primo livello di lettura.

 

Infatti partendo dal presupposto che nella questione israelo-palestinese, sia a livello locale sia a livello internazioanle, nessuno dei due attori può dirsi innocente ma solamente con un diverso grado di colpevolezza, banalizzare e ridurre questo conflitto alla retorica del popolo attaccato da terroristi assetati di sangue o a quella dei lottatori per la libertà che contro il feroce invasore è una semplificazione storica decisamente eccessiva nei confronti di una delle guerre più complesse dell’era contemporanea. Oltre a essere ovviamente un sonoro insulto nei confronti delle popolazioni israeliane e palestinesi che subiscono il cancro della guerra da 70 anni. E la cosa forse più aberrante è che parte di questa retorica è alimentata proprio da quei vertici dei paesi occidentali che si dicono tanto difensori dei diritti umani e della democrazia. Basti pensare che se la Russia toglie o distrugge gli approvvigionamenti di acqua, riserve alimentari, elettricità o carburante alla popolazione ucraina è considerato giustamente e a pieno diritto un crimine contro l’umanità, mentre se lo fa Israele nei confronti di Gaza allora è da considerarsi autodifesa del proprio territorio. Fino a quando questo tipo di narrazione sarà in vita, una convivenza a livello internazionale sarà sempre più difficile e l’Occidente verrà sempre visto come poco credibile agli occhi del resto del mondo.

 

In conclusione, il nuovo conflitto israelo-palestinese è un ulteriore goccia che si aggiunge a un mare di tensioni internazionali e conflitti che via via stanno sfociando negli ultimi anni. Che questo voglia dire che sia un corso uno shift degli equilibri globali e che semplicemente le crisi del secolo scorso si stanno avviando verso una loro resa dei conti, a oggi quello che rimane è la sofferenza di due popoli devastati dalle perdite subite e da 70 anni di politiche rivolte ovunque fuorché a una risoluzione politica del conflitto, la quale ancora oggi è l’unica via per concludere questo infinito bagno di sangue.

 

Oggi non è ancora dato sapere quanto dureranno le ostilità o che scenario si avrà quando anche l’ultimo cannone avrà finito di sparare. Tuttavia la speranza è che le mediazioni in corso, sia per la liberazione degli ostaggi sia per un cessate il fuoco generale tra le parti, vadano a buon termine al più presto, prima che una risposta militare israeliana dettata dalla cieca rabbia e dallo spirito di vendetta trasformi in una fosse comune a cielo aperto la striscia di Gaza, sia per i palestinesi sia per gli israeliani.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]