L’ENNESIMA GUERRA
ISRAELO-PALESTINESE
L'ETERNO CONFLITTO RITORNA
di Gian Marco Boellisi
Un eterno ritorno di fiamma: così
può essere sintetizzato il conflitto
israelo-palestinese. Tra le
questioni più complesse e divisive
dal secondo dopoguerra, lo scontro
tra Israele e Palestina è una delle
più importanti faccende irrisolte
delle relazioni internazionali.
Per quanto in alcuni periodi esso
sia sembrato definitivamente
archiviato, periodicamente l’azione
di una delle due parti, o peggio di
entrambe, getta nuova benzina su
questo sempiterno fuoco di violenza
e odio. Ed è proprio quello che è
successo lo scorso sabato 7 ottobre
2023, quando miliziani appartenenti
ad Hamas hanno lanciato il più
grande attacco a Israele degli
ultimi cinquanta anni causando un
numero ancora oggi imprecisato di
vittime, perlopiù civili.
Ciò ovviamente ha portato Israele a
reagire in maniera repentina e
violenta, con tutte le conseguenze a
cui ancora oggi assistiamo ora per
ora sulla striscia di Gaza.
Nonostante la situazione sia ancora
in quotidiana evoluzione, è
estremamente importante analizzare
quanto accaduto in queste settimane
e comprendere dove l’attuale corso
degli eventi possa portare lo
scenario mediorientale, ma non solo.
Lo scorso 7 ottobre 2023 miliziani
del movimento islamista Hamas hanno
lanciato dalla striscia di Gaza un
attacco di proporzioni mai viste
negli ultimi decenni. Una pioggia di
5.000 missili è stata lanciata verso
Israele mentre al contempo commando
oltrepassavano il confine di Gaza
per penetrare in territorio
israeliano, compiendo diversi eccidi
nei confronti di civili ivi presenti
nonché prendendo numerosi ostaggi
con sé, tra cui un gran numero di
stranieri. L’attacco nel suo
complesso è durato circa 50 ore ed è
stata la più grande violazioni
territoriale di Israele dalla guerra
del Kippur in poi, portando numerosi
analisti a ribattezzare questa data
come la Pearl Harbour o l’11
settembre di Israele. A discrezione
di chi scrive.
Lasciando un attimo da parte
l’impatto in vite umane
dell’attacco, che è stato oltre ogni
dubbio tragico, l’effetto sortito da
parte di questa vile aggressione è
stato in prima battuta mediatico. La
data del 7 ottobre non è stata
scelta a caso, ma cade nel 50esimo
anniversario della guerra del
Kippur, iniziata il 6 ottobre 1973
con l’invasione di Israele da parte
di Siria ed Egitto. Oltre al rimando
storico, il grande colpo psicologico
è dovuto anche per le modalità con
cui è stato effettuato l’attacco,
ovvero mediante l’utilizzo di
deltaplani, droni, tunnel e in
generale mezzi del tutto insoliti
per quelli che sono gli stereotipi
associati a un’organizzazione
terroristica.
Per la prima volta in 50 anni
Israele è sembrata vulnerabile,
debole, non più quel blocco
d’acciaio imperturbabile fatto di
caccia F-35 e carri armati Merkava
di cui si è tanto sentito parlare
negli ultimi anni. E soprattutto per
la prima volta è sembrato che Gaza
fosse dentro Israele, tutta quanta,
e non più il contrario.
Come prevedibile, dopo un attacco
così pesante e improvviso, Israele
ha risposto sin da subito con tutta
la potenza militare di cui è capace.
è stato dichiarato
immediatamente lo stato di guerra,
cosa che non succedeva anch’essa dal
conflitto del Kippur del 1973, con
relativa mobilitazione dei propri
riservisti sia al confine con Gaza
sia con il Libano. A oggi
risulterebbe il quinto conflitto in
meno di vent’anni tra Israele e
Palestina.
A breve dovrebbe essere inaugurata
l’offensiva di terra israeliana,
forte dei suoi 300 mila effettiva,
dei centinaia di carri armati
Merkava e dei blindati nonché di
tutta la forza aerea a relativo
supporto. Proprio l’aviazione non ha
mai smesso di colpire la striscia di
Gaza sin dal 7 ottobre, con i
prevedibili risultati sulla
popolazione civile ivi presente.
È importante ricordare infatti che
il territorio di Gaza è uno dei
luoghi a più alta densità abitativa
al mondo, i cui residenti sono per
lo più civili. Per quanto siano
stati invocati in più occasioni
corridoi umanitari provenienti
dall’Egitto, è molto difficile che
essi verranno messi in atto e che
durino a lungo, specie quando
l’attuale politica di Israele può
essere riassunta dalle affermazioni
del ministro della Difesa
Yoav Gallant: «Israele è in
guerra con degli animali, pertanto
si comporterà di conseguenza».
A oggi è del tutto inutile fare la
conta delle vittime, siano esse
israeliane o palestinesi. Le prime
aumenteranno vertiginosamente non
appena il primo soldato delle IDF
(Israel Defence Force) metterà piede
nel dedalo di stradine e cunicoli di
Gaza, le seconde aumentano ogni ora
grazie ai diffusi bombardamenti
dell’aviazione israeliana.
Il timore dell’intera comunità
internazionale verte anche su un
potenziale allargamento del
conflitto che riguarda il sud del
Libano, dove già si registrano
scontri isolati con Hezbollah, la
quale potrebbe cogliere l’occasione
dell’operazione di terra a Gaza per
distrarre parte delle forze
israeliane a nord. Qui tuttavia si
tratterebbe di combattere un nemico
molto diverso da Hamas. Mentre
questi è un’organizzazione
terroristica nata e cresciuta in
Palestina, Hezbollah ha maturato
nell’arco dell’ultimo decennio
un’esperienza di combattimento non
indifferente in vari scenari
mediorientali, specie in Siria e in
Iraq. Da qui il grande pericolo per
l’IDF qualora si sottovalutasse
ancora una volta il proprio nemico.
In generale il timore legato
all’offensiva di terra è sia
nazionale sia internazionale. Con il
passare dei giorni infatti
l’opinione pubblica si sta rendendo
conto che un’occupazione militare
della striscia di Gaza sia
estremamente difficile da
raggiungere, oltre che praticamente
impossibile da mantenere nel tempo
se non a costo di innumerevoli vite
umane. Per quanto una larga fetta di
Israele gridi vendetta per il 7
ottobre, ci si sta rendendo conto
che la vendetta è una lama affilata
da entrambi i lati. Proprio per la
scarsa chiarezza degli obiettivi
politici che un’occupazione militare
della striscia ha in questo momento,
l’operazione terrestre è stata messa
in dubbio anche dal maggior
sostenitore di Israele: gli Stati
Uniti. Ed è forse questo uno dei
motivi per cui non si è ancora
assistito all’inizio delle
operazioni.
A oggi vari tentativi di mediazione
sono in atto da vari paesi dell’area
mediorientale, quali Qatar, Egitto e
Turchia. Tuttavia il proseguo dei
bombardamenti e l’ammassamento di
truppe israeliane non fanno che
presagire che si andrà per un
accordo nel breve termine. Molti
analisti si stanno focalizzando sul
come sia stato possibile che Hamas
sia riuscita a organizzare e mettere
in atto un simile attacco a sorpresa
ai danni di una delle maggiori
potenze militari del mondo.
Come si può intuire, le cause sono
molteplici. Sicuramente ha aiutato
il focus del mondo da due anni a
questa parte sulla guerra in
Ucraina, che ha permesso al
movimento islamista di aumentare
notevolmente i propri arsenali. Una
grande responsabilità tuttavia
ricade su Israele stessa. Nelle
ultime settimane si è puntato il
dito molto spesso contro il Mossad,
i servizi segreti esteri israeliani,
così come contro lo Shin Bet, i
servizi per gli affari interni. Per
quanto queste agenzie abbiano la
loro dose di responsabilità, la
colpa maggiore è sicuramente a
livello politico, non
d’intelligence. È stata infatti
volontà dei governi degli ultimi
anni, presieduti in maniera
pressocché costante da Benjamin
Netanyahu, a focalizzare
l’attenzione contro una e una sola
minaccia, ovvero l’Iran.
Nei confronti del Mossad la linea è
stata quella di agire esclusivamente
contro questo nemico, tralasciando
quelli che potevano essere i
movimenti di Hamas al di fuori della
propria porta di casa. Vedendo qual
è stato il risultato, viene da
pensare quasi che Netanyahu e i suoi
vertici possano aver considerato la
Palestina ininfluente, o peggio
addirittura non come uno stato
estero, ma come una provincia
ribelle in attesa di essere
pacificata. Fatto che denota una ben
più macchinosa linea di pensiero da
un punto di vista politico e
soprattutto umano.
Al di là degli evidenti errori di
valutazione, è abbastanza evidente
che Israele e i suoi vertici si
stanno apprestando a commettere
un’altra volta lo stesso errore
perpetrato in tutti gli ultimi
conflitti con le forze di Hamas. A
oggi infatti una risposta militare
nei confronti di questo movimento è
sempre risultata inconcludente a
lungo termine. Si sono sempre
ridotte le capacità di Hamas e
magari anche azzerato i suoi vertici
e i suoi membri di rilievo, ma il
movimento sunnita ha sempre trovato
terreno fertile per una sua
ricrescita. Questo poichè
rinchiudendo la popolazione
palestinese in un’enclave e non
dandole modo di arrivare a una
soluzione politica, si è sempre
ottenuta una maggiore
radicalizzazione della popolazione
civile, non un suo alleggerimento.
Non andando incontro a una soluzione
su un tavolo negoziale della
questione dei confini, della
distribuzione delle risorse e in
generale di una pacifica convivenza,
la diffusione e il sostegno ad Hamas
è l’unico risultato a cui si può
assistere. Il fallimento di Israele
quindi è, prima che militare,
politico.
Da un punto di vista interno, per
Benjamin Netanyahu la guerra cade
nel momento migliore per il suo
governo. Alle prese con
l’approvazione della
travagliatissima riforma della
giustizia, Netanyahu si è trovato a
dover governare un paese
radicalmente spaccato dalle sue
politiche sempre maggiormente
oltranziste e ultra conservatrici.
Motivo per cui l’unica cosa che
poteva unire Israele in questo
momento storico era una guerra
contro il nemico storico, la
Palestina. Un esempio fra tutti, le
manifestazioni che imperavano nel
paese si sono interrotte e i
riservisti, che volevano astenersi
dal servizio militare in segno di
protesta, si sono presentati ai
rispettivi comandi per partecipare
alle operazioni militari.
A oggi le divisioni sembrano essere
state messe temporaneamente da
parte, però non bisogna illudersi.
Infatti a valle di questo ennesimo
conflitto, e di come esso si
concluderà per Israele, si aprirà la
discussione sulle gravissime
responsabilità degli attacchi del 7
ottobre, responsabilità che qualcuno
si dovrà assumere. Alcuni analisti
hanno affermato che la sopravvivenza
politica di Netanyahu sia legata a
questa guerra e al suo esito, altri
invece che Netanyahu sia già uno
zombie che cammina, tenuto in piedi
dall’emergenza nazionale e dal
relativo smacco che mostrerebbe
Israele a cambiare presidente nel
mentre di una guerra. Qualunque sia
il suo fato, Benjamin Netanyahu ha
dimostrato al mondo intero come le
sue politiche ultra conservatrici
non possano che portare a un
inasprimento del conflitto e delle
divisioni, sia verso l’interno sia
verso l’esterno. Per quanto questo
conflitto giustifichi a oggi al
popolo israeliano la sua permanenza
al potere, ci sarebbe da chiedersi
semplicemente a che prezzo giunge
questa sua sopravvivenza politica.
Dal punto di vista degli esteri,
l’ennesimo conflitto
israelo-palestinese non ha fatto che
buttare ulteriore benzina su un
pozzo di petrolio già in fiamme.
Inserendosi all’interno di un
contesto internazionale in cui la
guerra sembra essere tornata come
uno dei mezzi principali per la
risoluzione delle controversie
internazionali, la guerra con Hamas
ha portato ad alimentare tensioni
politiche ed economiche di tutta
l’area mediorientale. In particolar
modo un grande timore è stato
sollevato per le relazioni tra
Israele ed Emirati Arabi e Bahrein,
firmatari dei famosi Accordi di
Abramo, per non parlare del piano di
normalizzazione con l’Arabia
Saudita, con la quale la strada sarà
doppiamente in salita vista l’ormai
sempre più vicinanza a Iran e Cina.
La Russia ha finalmente tirato un
respiro di sollievo, visto che
l’attenzione internazionale non è
più focalizzata in toto sul
conflitto russo-ucraino per la prima
volta da quell’ormai lontano 24
febbraio 2022. Dall’altro lato gli
Stati Uniti, sebbene in un primo
momento abbiano confermato il loro
scontato supporto a Israele in tutto
e per tutto, con il passare dei
giorni hanno moderato il loro
sostegno a un’azione di terra a Gaza
e in generale hanno cercato di far
vertere le azioni del proprio
alleato verso una pacifica
liberazione degli ostaggi, ostaggi
che sembrano a tratti dimenticati e
il cui destino sarebbe incerto se le
IDF entrassero nella striscia.
Da un punto di vista regionale, il
prolungarsi del conflitto e
l’assistere a violenze
indiscriminate da entrambe le parti
porterebbe solamente a un aumento
della tensione, tale per cui altri
attori potrebbero prendere parte ai
giochi. Abbiamo già menzionato
Hezbollah, ma vi sono anche la Siria
e, dulcis in fundo, l’Iran, i
quali al momento osservano distanti
ma che hanno avuto con grande
probabilità una grande voce nel
supporto ad Hamas. Il mondo arabo in
generale non ha mai dimenticato le
varie umiliazioni subite nelle
guerre con Israele negli scorsi 70
anni e i progressi nelle
normalizzazioni delle relazioni
diplomatiche degli ultimi anni
potrebbero avere un brusco
dietrofront se l’efferatezza delle
violenze raggiungerà un livello
inaudito, specie nei confronti dei
civili.
Una riflessione interessante può
essere fatta sulla narrazione che si
sta facendo di questo ennesimo
conflitto moderno. Sin dal lancio
dei primi razzi di Hamas, gli
scontri, i rapimenti, e i
bombardamenti sono stati ripresi e
mostrati dai media e dai social di
tutto il mondo, esattamente come era
stato fatto e lo è ancora per il
conflitto ucraino. Quella che può
essere considerata la prima guerra
moderna con una copertura mediatica
24 h su 24, e con la conseguente
produzione di annesse tifoserie a
favore di una o dell’altra parte,
ora non è altro che l’apripista per
un nuovo modo di narrare la guerra.
E, analogamente alla guerra
russo-ucraina, si è assistiti
immediatamente a una polarizzazione
agghiacciante del dibattito sul
conflitto israelo-palestinese, con
un’esacerbazione ancora più marcata
della narrazione buoni contro
cattivi. Ovviamente ciò è dovuto in
parte al pesante retaggio storico
che reca con sé il popolo
israeliano, ma forse questo è un
solo primo livello di lettura.
Infatti partendo dal presupposto che
nella questione israelo-palestinese,
sia a livello locale sia a livello
internazioanle, nessuno dei due
attori può dirsi innocente ma
solamente con un diverso grado di
colpevolezza, banalizzare e ridurre
questo conflitto alla retorica del
popolo attaccato da terroristi
assetati di sangue o a quella dei
lottatori per la libertà che contro
il feroce invasore è una
semplificazione storica decisamente
eccessiva nei confronti di una delle
guerre più complesse dell’era
contemporanea. Oltre a essere
ovviamente un sonoro insulto nei
confronti delle popolazioni
israeliane e palestinesi che
subiscono il cancro della guerra da
70 anni. E la cosa forse più
aberrante è che parte di questa
retorica è alimentata proprio da
quei vertici dei paesi occidentali
che si dicono tanto difensori dei
diritti umani e della democrazia.
Basti pensare che se la Russia
toglie o distrugge gli
approvvigionamenti di acqua, riserve
alimentari, elettricità o carburante
alla popolazione ucraina è
considerato giustamente e a pieno
diritto un crimine contro l’umanità,
mentre se lo fa Israele nei
confronti di Gaza allora è da
considerarsi autodifesa del proprio
territorio. Fino a quando questo
tipo di narrazione sarà in vita, una
convivenza a livello internazionale
sarà sempre più difficile e
l’Occidente verrà sempre visto come
poco credibile agli occhi del resto
del mondo.
In conclusione, il nuovo conflitto
israelo-palestinese è un ulteriore
goccia che si aggiunge a un mare di
tensioni internazionali e conflitti
che via via stanno sfociando negli
ultimi anni. Che questo voglia dire
che sia un corso uno shift
degli equilibri globali e che
semplicemente le crisi del secolo
scorso si stanno avviando verso una
loro resa dei conti, a oggi quello
che rimane è la sofferenza di due
popoli devastati dalle perdite
subite e da 70 anni di politiche
rivolte ovunque fuorché a una
risoluzione politica del conflitto,
la quale ancora oggi è l’unica via
per concludere questo infinito bagno
di sangue.
Oggi non è ancora dato sapere quanto
dureranno le ostilità o che scenario
si avrà quando anche l’ultimo
cannone avrà finito di sparare.
Tuttavia la speranza è che le
mediazioni in corso, sia per la
liberazione degli ostaggi sia per un
cessate il fuoco generale tra le
parti, vadano a buon termine al più
presto, prima che una risposta
militare israeliana dettata dalla
cieca rabbia e dallo spirito di
vendetta trasformi in una fosse
comune a cielo aperto la striscia di
Gaza, sia per i palestinesi sia per
gli israeliani.