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N. 103 - Luglio 2016 (CXXXIV)

SULLA TEORIA DELLA GUERRA GIUSTA

PROLEGOMENI CATTOLICI AL GIUSTIFICAZIONISMO BELLICO - PARTE II
di Sara Santella

 

San Tommaso (Roccasecca, 1225 – Fossanova, 1274) elabora una teoria della Guerra Giusta riprendendo buona parte dei concetti di Sant’Agostino. La dottrina tomistica è strutturata in maniera logico-funzionale ed è racchiusa nella Somma Teologica.

 

Ponendo inizialmente un assunto che “sembra” vero, l’autore lo motiva con proposizioni tratte dalle opere delle autorità riconosciute. Pone poi un contraddittorio, “in contrario”, e da lì fa seguire la sua risposta e la “soluzione delle difficoltà” che di solito è una pacificazione delle idee contrastanti poste ed analizzate precedentemente.

 

La sua disquisizione, partendo dall’assunto per il quale sembra che “fare la guerra sia sempre peccato”, inizia un volo pindarico che atterra sulla considerazione che l’attività bellica è legittimata dal sottendersi all’esecuzione di questa una ricerca e una volontà alla pace tale che ciò che bisogna negare è la “pace cattiva”, tuttavia non proibendo l’esercizio bellico nella complessità, ma limitando tale rifiuto a quelli la cui espressione è disordinata e pericolosa.

 

Nel proseguo della trattazione, San Tommaso arriva, con un escamotage retorico-logica a legittimare anche le imboscate.

 

Inizialmente abbiamo delle argomentazioni in contrario: nel Deuteronomio si legge che si compie con giustizia ciò che è giusto. Essendo le imboscate delle frodi, non sono giuste e rendono quindi la guerra ingiusta. In contrario possiamo dire che lo stesso Dio comandò a Giosuè di preparare un’imboscata agli abitanti di Ai.

 

Come trovare il filo della matassa? San Tommaso sbroglia la questione creando ad hoc due presunti tipi di inganno: il primo, sempre illecito, che corrisponde a dire il falso o a mancare una promessa e il secondo che si presenta quando “noi non mostriamo il nostro proposito e le nostre idee”.

 

Altre categorie rilevanti in San Tommaso sono la rissa e la sedizione. La rissa è una contesa che implica un contrasto di fatto e viene accesa dall’ira e dalla vanagloria. Avendo come configurazione quella di “guerra privata” ha un volere disordinato, per tale considerazione risulta sempre essere accompagnata da peccato.

 

La rissa si differenzia dalla contesa per tre elementi: la predisposizione dell’animo a litigare, il piacere che si prova nel contrastare, il provocare gli altri. Nell’ultima parte della questione si arriva al preludio del giusnaturalismo quando il tomista afferma che, essendo la guerra giusta solo se condotta con pubblici poteri, “se i funzionari del principe o del giudice mettono le mani addosso, in forza dell’autorità pubblica, su qualcuno che si difende, non si può dire che essi fanno una rissa, che la fanno piuttosto coloro i quali resistono alla forza pubblica”.

 

La sedizione, invece, sembra includere ed assomigliarsi a fenomeni diversi, quali: ribellione, sommossa, sollevazione, rivolta, rivoluzione. Questi fatti presuppongono tutti una preparazione occulta e si tratta di agire contro l’autorità costituita, cioè la base di coesione di un popolo.

 

San Tommaso ci dice che la sedizione è un peccato a parte in quanto è affine alla rissa e alla guerra perché si basa su un contrasto, ma se ne differenzia perché per sedizione si intende sia la lotta attuale che la preparazione a questa. In più, mentre la guerra si combatte contro nemici e stranieri e si svolge tra popolo e popolo e la rissa è tra due individui o comunque tra una ristretta cerchia di individui la sedizione è tra parti discordi di un unico popolo. E cioè “quando una parte della città insorge a tumulto contro l’altra parte”.

 

Si differenzia anche dallo scisma che interessa la divisione spirituale e quindi della chiesa, mentre la sedizione va a toccare l’ambito temporale. E in più perché lo scisma non implica una preparazione al combattimento, mentre la sedizione sì.

 

La sedizione dunque va ad infrangere l’ordine e l’unità di una collettività, popolo, città o regno. Dato che per collettività si intende un gruppo organizzato secondo leggi collettive e una comune utilità, va da sé che la sedizione mina la giustizia e il bene comune.

 

Nel complesso, nella sua dot­trina, riman­gono fermi i punti già fon­danti in Ago­stino come la ricerca della pace e una giusta causa, ed affiorano nuovi punti fondamentali come l’interdizione ai pri­vati nel dichia­rare una guerra che è prerogativa dell’autorità competente e l’affermazione che la vendicta, la giu­sta ven­detta se mira al bene deve essere favo­rita e non scon­giu­rata come male da cui fug­gire.

 

Con­cetto da sottolineare è che sia in Ago­stino che in Tom­maso si cerca una giustificazione alla guerra offen­siva, in quanto quella di difesa essendo pre­vi­sta nel diritto naturale non neces­sità di specificazioni teologiche o filosofiche.

 

La dottrina di Francisco de Vitoria (1483/1486 – Salamanca, 1546) va inserita in un contesto storico che si esplica in due direzioni: da un lato la Conquista del Nuovo Mondo e dall’altro le vicende dell’Europa del primo Cinquecento.

 

I due contesti sono diversi e richiedono quindi un diverso approccio. Nel primo caso va posta in essere un processo giustificazionista di mire conquistatorie a danno di territori sconosciuti; dall’altra si necessita di una parabola motivatoria per spingere all’unità un mondo cristiano lacerato e disgregato dalla minaccia espansionistica turca-ottomana.

 

Gli scritti di Vitoria non sono trattati sistematici e organici basati su principi generali, ma piuttosto l’applicazione di tali principi alla soluzione di casi concreti. Inoltre, Vitoria si configura come un autore tipicamente di transizione; il suo è un contesto di passaggio tra un paradigma ad un altro, tra categorie di lettura quasi opposte, che lo portano a trattare con un linguaggio antico, problemi di nuova fattispecie.

 

A Vitoria vanno collegate novità importanti per il suo tempo: egli critica i titoli di legittimazione della conquista dicendo e ribadendo che l’Imperatore non è dominus totius orbis, come pretendevano i teologi e gli intellettuali imperiali; nega che il Papa possieda la plenitudo potestatis negli affari temporali; non riconosce il diritto di scoperta (jus inventionis) come motivo legittimo di conquista in quanto tale concezione aprirebbe le porte alla possibilità di una “conquista al contrario” (non plus quam si ipsi invenissent nos); ribadisce che il rifiuto della fede cristiana non è di per sé motivo di guerra giusta; nega il ricorso a una speciale concessione divina contro quanti sostenevano il paradigma della Terra Promessa come coincidente con il Nuovo Mondo.

 

La sua trattazione, eliminati e disattesi i temi legittimanti fino ad allora in auge, si esplica nella ricerca di altre categorie fondanti, approcciando alla categoria dello jus gentium includendolo inizialmente nel diritto positivo e poi nell’ambito del diritto naturale definendolo come “ciò che la ragione naturale stabilisce fra tutte le genti”. Ciò permette l’attribuzione agli Stati del ruolo di soggetti del diritto internazionale ponendo alla base delle relazioni tra popoli il principio della naturale comunicazione.

 

Il secondo titolo é lo Ius praedicandi et annuntiandi Evangelium, che si differenzia dal primo per l’autorità legittimante, non più il diritto naturale quindi, ma divino.

 

È proprio in questo contesto che Vitoria introduce il tema della guerra giusta, terzo principio fondamentale della sua concezione dell’ordine mondiale che per esser tale deve consentire la libera espressione del diritto delle genti. Qualora una volontà di popolo si scagli contro la legittima e libera espressione di un altro popolo e quando le forme di persuasione pacifiche siano state tentate tutte senza successo, la guerra giusta si presenta come extrema ratio, protettrice di un ordine giusto delle genti.

 

Un tema già trattato da Agostino e Tommaso ma che in Vitoria assurge a un’importanza maggiore è il ruolo dell’autorità competente nel dichiarare guerra e questo a causa del panorama storico di riferimento, che vede l’accendersi di una disputa tra principi e Imperatore. Vitoria prende le parti delle singole Repubbliche che, considerate un piccolo Stato perfetto, devono mantenere presso sé l’autorità e la competenza di dichiarare guerra.

 

Vitoria si occupa poi dello ius in bello esaminando cosa sia lecito fare durante una guerra e con che misura e intensità per cui: È lecito fare tutto ciò che è necessario al bene pubblico e alla sua difesa; inoltre è lecito promuovere tutte quelle azioni che sono necessarie al mantenimento della pace e della sicurezza da nuovi attacchi dei nemici.

 

Ulteriore figura caratterizzante del pensiero di Vitoria è il “legittimo giudice fra le due parti”, ruolo che viene attribuito allo stesso principe promotore della guerra giusta. La questione si fa controversa in quanto tale figura giudicante è incarnata dalla persona di uno dei due co-belligeranti, risultando quindi possibile la contaminazione del giusto super partes.

 

Al di là delle critiche che sarebbe possibile muovere a questa creazione concettuale di Vitoria essa è sintomatica dello scemare del potere e dell’autorevolezza papale e imperiale, figure non più percepite come portatrici di valori universalmente riconosciuti o riconoscibili. Ciò è sintomo di una transizione da una concezione medievale ad una moderna. Secondo Schmitt è così che inizia la tradizione dello jus publicum europaem che è un diritto essenzialmente territoriale e che porta alla sostituzione dello jus gentium medievale con lo jus inter gentes moderno che regola i rapporti tra Stati sovrani.

 

Di fatto, con Vitoria e la Seconda Scolastica si ha uno spostamento della questio de bello. Mentre Tommaso l’aveva collocata nell’ambito della discussione dei vizi contrari alla carità senza dedicarle un trattamento sistematico e ampio e senza un riferimento alla giustizia, gli scolastici di Salamanca la collocano nell’ambito giuridico inserendola nel dibattito sul diritto delle genti.

 

Il pensiero di Vitoria si situa così fra lo jus gentium medievale e lo jus publicum europeum dei nascenti Stati sovrani.

 

Con il passare dei secoli la teoria della Guerra Giusta sarà maneggiata da vari autori che moduleranno la liquidità di una dottrina senza tempo a seconda del panorama di ancoraggio. Subirà quindi mutamenti evolvendosi, perfezionandosi e distaccandosi dai postulati iniziali. Nel suo cammino incontrerà un’epoca buia, segnata dal suo abbandono e dal progressivo relegamento in secondo piano a causa dell’ascesa dello stato moderno prima e per l’accettazione giuridica del principio di sovranità statale poi.

 

Il realismo, diventato il metro utilizzato per guardare la guerra, portò gli Stati a reclamare il diritto a combattere ogni volta che gli era necessario in quanto la loro sovranità chiedeva un’espressione svincolata da precetti imposti dall’esterno e tanto più da una morale priva di concretezza e di adattabilità alle condizioni di caos e di anarchia in cui verteva la società in guerra.

 

La teoria della guerra giusta venne rilegata nei dipartimenti di religione, nei seminari di teologia e nelle università cattoliche tanto che sembrava essere tornati alla vecchia massima latina inter arma silent leges.

 

Gli orrori in multicolor della guerra in Vietnam trasmessi dalle TV americane agiranno da detonatore sull’opinione pubblica che inizierà a chiedere un nuovo modo per condurre nuove guerre.

 

Non ci si rese conto inizialmente di rispolverare gli antichi termini e modi della teoria della guerra giusta che entreranno nelle aule accademiche e in quelle militari portati da veterani e reduci americani che avevano combattuto la suddetta guerra, ansiosi di distinguere la loro professione dalla bassa macelleria. È quindi senza accorgersene che “la giustizia è divenuta una necessità militare”.



 

 

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