N. 102 - Giugno 2016
(CXXXIII)
SULLA
TEORIA
DELLA
GUERRA
GIUSTA
PROLEGOMENI
CATTOLICI
AL
GIUSTIFICAZIONISMO
BELLICO -
PARTE
I
di
Sara
Santella
Esistono
tre
grandi
tradizioni
che
intendono
e
descrivono
la
guerra,
tali
che
possono
essere
analiticamente
distinte:
le
dottrine
che
vedono
la
guerra
come
qualcosa
di
non
contingente,
in
quanto
collegato
alla
natura
stessa
delle
vicende
umane
e
per
questo,
essendo
parte
costitutiva
dei
rapporti
inter-sociali,
risulta
inevitabile;
le
dottrine
che
si
pongono
il
problema
della
limitazione
della
guerra
e
delle
condizioni
del
suo
esercizio
che
vanno
a
comporre
la
lunga
tradizione
della
guerra
giusta;
infine
le
dottrine
che
sono
contrarie
alla
guerra
in
ogni
sua
manifestazione
e
propongono
una
sua
abolizione
nell’ottica
di
un
progressivo
istaurarsi
di
una
condizione
pacifica
duratura.
La
teoria
della
guerra
giusta
si
pone
in
una
situazione
mediana
e
viene
a
configurarsi
come
“tesi
sullo
statuto
morale
della
guerra
in
quanto
attività
umana”.
La
tesi
bicefala
e
angolare
di
tale
dottrina
vuole
una giustificabilità
accessoria
e
tuttavia
possibile
(o
proponibile)
della
guerra,
a
livello
strategico,
e
una
sua
condotta,
attinente
per
lo
più
ai
livelli
tattico
e
operativo,
posta
al
vaglio
del
giudizio
morale.
La
prima
proposizione
viene
negata
dai
pacifisti
che
considerano
la
guerra
come
un
puro
e
semplice
atto
criminale
generalizzato,
negando
l’analiticità
stessa
del
fenomeno,
in
realtà
variegato
e
quindi
non
soggetto
a un
lettura
univoca;
la
seconda
è
negata
dai
realisti
o
bellicisti
i
quali
sottendono
una
praticabilità
machiavellica
nella
conduzione
della
guerra
fino
a
esaltarne
risvolti
progressivistici,
avanguardisti,
riformisti
della
società
in
toto.
La
teoria
della
guerra
giusta,
al
contrario,
prescinde
da
costatazioni
immobili
e di
principio,
ponendo
una
giusta
distanza
tra
i
bisogni
sottesi
e
l’analisi
della
stessa
per
addivenire
a un
giudizio
in
merito
ragionato
e
ragionevole,
partendo
dal
presupposto
che
ogni
guerra
ha
le
sue
leve,
che
tali
leve
giocano
su
più
piani
e
che
un
livellamento
di
questi,
oltre
a
banalizzare
il
contenuto
dell’unicum
situazionale
in
atto,
proporrebbe
una
distorsione
dello
stesso
e
quindi
una
non
capacità
di
piena
lettura
delle
sfaccettature
e
delle
variabili
in
gioco.
È
per
questo
che,
lungi
dall’essere
solamente
una
teoria,
essa
si
configura
come
un
linguaggio
che
usiamo
quando
discutiamo
di
questioni
belliche
e
che
poggia
su
un
portato
valoriale
stratificato
nel
tempo
che
include
idee
come
l’autodifesa,
l’aggressione,
la
dottrina
della
proporzionalità,
le
regole
della
resa,
i
diritti
dei
prigionieri.
Tali
elementi-concetti
generano
quei
piani
di
analisi
che
è
impossibile
non
considerare
e
tenere
da
conto
per
una
lettura
consapevole
e
proficua.
Parlo
di
tradizione
in
quanto
l’uomo
ha
sempre
voluto
indagare
la
moralità
dell’atto
bellico
in
sé,
anche
se,
nell’antichità,
non
è
possibile
parlare
a
pieno
di
una
dottrina
della
guerra:
né
Platone
né
Aristotele
dedicano
a
essa
un
trattato
anche
se
il
Nous
afferma
più
volte
nella
Politica
che
la
guerra
è
uno
strumento
al
servizio
della
pace
e
critica
le
potenze
militariste
ed
espansioniste
come
Sparta
che
impongono
un’educazione
eccessivamente
militare
al
suo
interno
e
promuovono
all’esterno
un
governo
dispotico
sui
loro
vicini.
L’unica
vera
grande
riflessione
sulla
guerra
caratteristica
di
questo
periodo
rimane
comunque
quella
di
Tucidide
in
La
guerra
del
Peloponneso.
La
mancata
problematicizzazione
etica
del
fenomeno
bellico
antico
può
trovare
una
sommaria
spiegazione
nella
naturalezza
e
nella
non
prescindibilità
con
cui
tale
fenomeno
veniva
accolto.
Regolato
dallo
jus
gentium
era
ammesso
culturalmente
dall’opinione
pubblica
come
affermazione
del
"sé-identità-popolo"
contro
la
volontà
di
un
nemico
disgregante
e
attentatore
alla
triade
prima
nominata.
Ci
troviamo,
del
resto,
in
un
mondo
in
cui
la
guerra
era
forse
il
metodo
più
utilizzato
in
materia
di
politica
estera
e si
può
quindi
affermare
che
la
popolazione
civile
avvertiva
le
imprese
belliche
come
qualcosa
di
fisiologico
e
non
patologico
contrariamente
allo
sgomento
quotidiano
che
assilla,
quanto
meno,
il
perbenismo
occidentale
odierno.
Il
Cristianesimo,
il
suo
affermarsi
e la
notorietà
di
alcune
citazioni
decontestualizzate
tratte
dai
libri
sacri
di
cui
tale
religione
si
fece
proponitrice,
potrebbe
far
pensare
a
una
parabola
di
pacifismo
radicale.
Ne
sono
esempi:
“Avete
inteso
che
fu
detto:
Occhio
per
occhio
e
dente
per
dente.
Ma
io
vi
dico
di
non
opporvi
al
malvagio;
anzi,
se
uno
ti
dà
uno
schiaffo
sulla
guancia
destra,
tu
porgigli
anche
l’altra”
o
anche
“Avete
inteso
che
fu
detto:
Amerai
il
tuo
prossimo
e
odierai
il
tuo
nemico.
Ma
io
vi
dico:
amate
i
vostri
nemici
e
pregate
per
quelli
che
vi
perseguitano…”
oppure
“A
chi
vuole
portarti
in
tribunale
e
toglierti
la
tunica,
tu
lascia
anche
il
mantello”
e
“Rimetti
la
spada
nel
fodero
perché
chi
di
spada
ferisce
di
spada
perisce”.
Contrariamente
alle
aspettative
e a
quanto
sopra
elencato,
la
prima
teorizzazione
della
iustum
bellum
ci
viene
invece
offerta
da
Agostino
da
Ippona
(354-430).
In
Sant’Agostino
ricaviamo
per
antitesi
cosa
è la
guerra
avendo
la
trattazione
dell’opera
La
Città
di
Dio
(413-426)
come
tema
la
pace.
La
pace
viene
così
descritta
come
una
condizione
di
cessazione
degli
impulsi
tale
che
non
vi è
possibilità
di
turbamento
esterno.
Il
binomio
tra
pace
terrena
e
“finale”
(spirituale)
propone
la
seconda
come
evolutiva
del
primo
stato
e si
configura
come
fine
ultimo.
L’essenza
palindromica
agostiniana
diviene
quindi
“o
la
pace
nella
vita
eterna
o la
vita
eterna
nella
pace”.
Assunto
retorico
conseguente
è:
anche
chi
è in
guerra,
è in
tale
stato
per
la
pace.
La
sua.
La
possibile
contraddittorietà
dell’enunciato
e
cioè
la
possibilità
dell’ottenimento
di
un
fine
attraverso
l’utilizzo
del
mezzo
opposto,
trova
ragion
d’essere
nella
dicotomia
e
nella
biforcazione
insita
nell’insieme
“pace”.
L’una
retta
da
moti
universale,
l’altra
personalistica.
Corollario
speculare
al
suddetto
enunciato
è
che
può
esser
messa
in
pratica
la
guerra
per
l’ottenimento
della
pace.
È in
questo
contesto
che
si
evidenzia
la
possibilità
di
una
guerra
giusta,
cioè
quando
essa
è
funzionale
all’ottenimento
e
all’istaurarsi
di
una
situazione
pacifica.
Infatti
leggiamo
poi
in
Agostino
“come
dunque
non
v’è
una
vita
senza
dolore,
ma
il
dolore
non
vi
può
essere
senza
la
vita,
così
v’è
pace
senza
la
guerra,
ma
la
guerra
non
vi
può
essere
senza
una
determinata
pace”.
Importante
per
una
conduzione
giusta
di
questa
è la
funzione
del
“comandare”
che
viene
qui
inteso
come
“provvedere”
e fa
sì
che
chi
obbedisce
è
colui
al
quale
si
provvede;
per
cui,
gli
uomini
giusti
“non
comandano
nella
brama
del
signoreggiare
ma
nel
dovere
di
provvedere,
non
nell’orgoglio
dell’imporsi,
ma
nella
compassione
del
premunire”.
Concludendo,
per
Agostino
la
guerra
per
essere
iusta
bella
deve
sempre
avere
uno
slancio
in
direzione
della
pace
e
deve
intendersi
come
extrema
ratio,
alla
quale
si
può
ricorrere
per
sconfiggere
un
male
superiore
a
quello
di
cui
la
guerra
è
portatrice.
I
quattro
postulati
che
troviamo
in
Agostino
per
condurre
una
guerra
giusta
sono:
l’autorità
competente,
la
retta
intenzione,
le
giuste
cause,
regole
di
conduzione
della
guerra
e
giusta
proporzione
fra
l’offesa
subita
e la
risposta
armata.
Possiamo
quindi
affermare,
alla
luce
degli
eventi
storici,
che
“la
teoria
della
guerra
giusta
è
nata
al
servizio
dei
poteri”,
infatti
Sant’Agostino,
sostituendo
l’eventuale
propensione
al
rifiuto
dei
pacifisti
cristiani
con
l’attivo
ministero
del
soldato
cristiano,
ne
ha
legittimato
l’operato.