N. 90 - Giugno 2015
(CXXI)
LA GUERRA FREDDA
un lungo periodo di "pace"
di Elisa Temellini
Più
che
un
vero
e
proprio
conflitto,
la
guerra
fredda
fu
uno
scontro
di
ideologie,
tra
il
sistema
capitalista
e
quello
comunista,
tra
USA
e
URSS,
due
delle
potenze
vincitrici
della
seconda
guerra
mondiale.
Gli
anni
che
intercorsero
tra
il
1945
e il
1991
(date
che
comunemente
coincidono
con
l’inizio
e
con
la
fine
della
guerra
fredda)
furono
una
lunga
fase
preparatoria
a
uno
conflitto
nucleare
fortunatamente
mai
avvenuto.
Fine
della
seconda
guerra
mondiale
e
inizio
della
guerra
fredda
Il
perché
la
guerra
fredda
sia
effettivamente
iniziata
non
è
ancora
del
tutto
chiaro,
o
meglio
esistono
varie
teorie.
Il
deteriorarsi
dei
rapporti
tra
Russia
e
America
avvenne
prima
del
1945
ma
l’inizio
formale
della
guerra
fredda
lo
si
può
leggere
nel
discorso
di
Truman
nel
1947
quando
l'americano
abilmente
parlò
del
pericolo
comunista
e
della
necessità
di
un
freno
per
l’espansione
sovietica
(contenimento).
In
realtà
l’URSS
non
sembrava
avere
grandi
ambizioni
espansionistiche.
L’Unione
Sovietica
si
trovava
in
una
condizione
di
estrema
debolezza
a
causa
delle
perdite
sia
umane
che
economiche
provocate
dalla
seconda
guerra
mondiale.
Stalin,
sebbene
fosse
spietato,
paranoico
e
“velenoso”
in
patria,
non
sembrava
volere
un
nemico
americano…
Ma
cerchiamo
di
capire
meglio
la
situazione
geopolitica
europea
di
quel
particolare
momento.
Alla
Russia
erano
andate
tutte
quelle
terre
che
aveva
liberato
dal
nazismo
e al
contrario
di
ciò
che
fu
stabilito
a
Yalta,
Stalin
usò
la
strategia
del
fatto
compiuto
e
impose
la
sua
politica
agli
stati
liberati.
Questo
inizialmente
non
risultava
essere
un
problema
per
gli
USA
che
avevano
accettato
che
l’Europa
orientale
fosse
in
mano
ai
comunisti
e in
effetti
il
blocco
sovietico
- a
parte
Albania
e
Jugoslavia
staccatesi
di
propria
volontà
-
non
fu
mai
scalfito
dalla
politica
americana.
Sicuramente
la
questione
della
Turchia
e
della
Grecia
non
andò
bene
agli
USA,
come
d’altronde
il
piano
Marshall
non
poteva
essere
approvato
da
Molotov
e
neanche
l’insediamento
di
un
governo
comunista
in
Polonia
non
ebbe
l’appoggio
dei
“democratici”
americani.
Ma
non
sono
gli
unici
motivi.
La
miccia
che
ha
spinto
l’America
a
vedere
la
Russia
come
un
nemico
potrebbe
essere
invece
la
questione
iraniana.
L’Iran
era
occupato
militarmente
da
truppe
anglo-sovietiche
dal
1941.
Entro
il
1946
gli
invasori
avrebbero
dovuto
lasciare
il
paese,
e
questo
avvenne
solo
per
gli
inglesi:
i
russi
restarono!
Aiutavano
il
regime
separatista
che
lottava
contro
lo
scià.
La
permanenza
russa
irritò
molto
l’amministrazione
Truman:
in
Iran
c’era
il
petrolio.
Quindi
gli
USA,
dietro
la
bandiera
delle
Nazioni
Unite,
risposero
subito
all’appello
d’aiuto
dello
scià.
Inoltre
non
persero
l’occasione
di
condannare
pubblicamente
l’Unione
Sovietica
che
abbandonò
l’Iran
nel
1946.
Da
questi
fatti
poi
abbiamo
il
lungo
telegramma
di
Kennan,
diplomatico
impiegato
all’ambasciata
americana
di
Mosca,
che
mise
in
guardia
i
leader
americani
contro
i
comunisti
e il
discorso
pubblico
di
Truman
tenuto
il
12
marzo
1947.
Ma
si
possono
leggere
anche
altre
motivazioni
che
portarono
gli
americani
a
vedere
nella
Russia
il
pericolo
numero
uno.
Gli
USA
avevano
sicuramente
interesse
nel
creare
un
nemico
comune
che
si
trovasse
all’esterno
del
proprio
paese.
Il
governo
conservatore
avrebbe
ottenuto
più
credibilità
e
non
solo:
anche
l’economia
ne
avrebbe
giovato.
Dopo
il
conflitto
mondiale,
il
partito
comunista
aveva
guadagnato
consensi
nell’Europa
occidentale
e
questo
spaventava
sia
i
nuovi
governi
moderati
europei
che
gli
USA
che
vedevano
nel
vecchio
continente
la
possibilità
di
nuovi
mercati.
L’isteria
collettiva
anticomunista
rendeva
le
cose
più
facili
per
il
governo
statunitense.
Il
popolo
americano
–
conosciuto
per
essere
estremamente
individualista
–
sarebbe
stato
unito,
manovrabile
e
ben
disposto
a
finanziare
qualsiasi
opera
atta
al
mantenimento
della
propria
incolumità.
La
spartizione
della
Germania
e la
crisi
di
Berlino
La
Germania
considerata
pericolosa,
al
termine
della
guerra,
era
sta
divisa
in
quattro
zone
rispettivamente
in
mano
a
USA,
URSS,
Francia
e
Inghilterra.
La
zona
a
ovest
era
la
parte
più
ricca
della
nazione
ed
era
stata
assegnata
alle
potenze
occidentali;
all’Unione
Sovietica
invece
era
rimasta
la
zona
rurale.
Il
compito
degli
occupanti
era
di
tenere
la
Germania
nella
situazione
di
non
nuocere
nuovamente.
Le
condizioni
imposte
erano
talmente
severe
che
i
tedeschi
erano
ridotti
alla
fame.
Si
decise
così
(non
concordemente)
di
aiutare
economicamente
lo
stato
sconfitto.
Venne
introdotta
una
nuova
moneta
all’insaputa
dei
russi
che
vedevano
nel
progetto
americano
una
sorta
di
ambizione
antisovietica.
La
situazione
precipitò
e
nel
1948
Stalin
reagì
proprio
a
Berlino.
La
città
ovest,
in
mezzo
alla
zona
assegnata
alla
Russia,
era
in
mano
agli
occidentali.
L’armata
rossa
bloccò
quindi
tutte
le
vie
di
comunicazione
che
portavano
a
Berlino
ovest,
facendo
così
della
città
il
fulcro
della
nascente
guerra
fredda.
Cercando
di
non
scatenare
un’ulteriore
guerra,
gli
occidentali
risolsero
il
problema
con
un
ponte
aereo
con
il
compito
di
rifornire
la
parte
occupata.
Oltre
a
riuscire
nell’intento
gli
americani
ottennero
quel
consenso
popolare
che
fece
riconoscere
a
Stalin
la
propria
sconfitta.
Questo
episodio
fu
molto
significativo
in
Europa
sotto
molti
aspetti.
Oltre
al
fatto
che
furono
create
la
Repubblica
Federale
Tedesca
(Ovest)
e la
Repubblica
democratica
tedesca
(Est)
e
l’intera
Europa
si
divise
in
blocchi
–
simbolicamente
limitati
dal
muro
di
Berlino
eretto
nel
1961,
l’Unione
Sovietica
perse
la
prima
battaglia.
Le
potenze
occidentali
dimostrarono
di
avere
la
supremazia
militare
aerea
ma
soprattutto
si
allargò
quell’anticomunismo
tanto
desiderato.
Bisogna
però
sottolineare
che
questo
scontro,
più
civile
che
militare,
fu
l’unico
che
intercorse
in
Europa
tra
le
due
superpotenze.
In
effetti
- a
parte
la
rivolta
armata
della
Cecoslovacchia
nel
1948
e
quella
dell’Ungheria
nel
1956
violentemente
spente
dall’Unione
Sovietica,
senza
peraltro
alcun
intervento
americano
– il
continente
europeo
godette
di
una
relativa
pace
che
permise
un
accrescimento
economico
mai
visto
prima
– e
nemmeno
dopo
–
chiamato
giustamente
da
Hobsbawn
“gli
anni
d’oro”.
La
guerra
di
Corea
e la
politica
americana
Tra
il
1931
e il
1945
il
Giappone
aveva
sottratto
alle
potenze
europee
molte
colonie
nell’Asia
orientale.
Dopo
la
tremenda
sconfitta
per
mano
degli
USA,
anche
il
Giappone
non
fu
più
in
grado
di
controllare
le
terre
conquistate.
Da
est
a
ovest
si
assistette
a un
vero
e
proprio
processo
di
decolonizzazione.
Spesso
i
movimenti
di
liberazione
erano
mossi
da
un’ideologia
comunista
e
questo
provocò
non
pochi
problemi
nell’assetto,
allora
in
formazione,
del
mondo.
Il
primo
paese
a
dichiarare
la
propria
indipendenza
fu
l’India
nel
1947.
Il
secondo
fu
la
Cina
nel
1949.
Ed è
proprio
la
questione
cinese
che
fece
smuovere
le
acque.
La
rivoluzione
contadina
e
comunista
di
Mao
Tze
Tung,
non
piacque
per
niente
agli
Stati
Uniti.
La
proclamazione
della
Repubblica
Popolare
Cinese
e la
cacciata
di
Chiang
nell’isola
di
Formosa
fu
un
vero
e
proprio
smacco
per
l’America.
In
Corea
l’occupazione
russo-americana
aveva
sostituito
il
Giappone.
A
sud
si
erano
collocati
gli
americani
e a
nord
i
russi.
Il
confine
era
segnato
dal
38°
parallelo.
La
filosovietica
Repubblica
Popolare
di
Corea
con
a
capo
Kim
Il
Sung
nel
1950
attaccò
il
sud.
Ovviamente
Rhee,
il
presidente
della
Corea
del
Sud,
chiese
subito
aiuto
agli
alleati
americani
che
peraltro
intervennero
immediatamente
tutelati
dalla
bandiera
dell’ONU
contro
lo
stato
aggressore.
Gli
Stati
Uniti
non
potevano
permettersi
di
perdere
anche
la
Corea
dopo
la
Cina.
Quindi
l’intervento
militare
guidato
dall
fin
troppo
energico
generale
Mac
Arthur
fu
massiccio.
Ad
aiuto
della
Corea
del
Nord
accorsero,
però,
volontari
da
Pechino.
La
fine
della
guerra
avvenne
nel
1953
con
niente
di
immutato.
Le
perdite
umane
furono
immense
ma
la
divisione
della
Corea
avvenne
formalmente
proprio
sul
38°
parallelo,
esattamente
come
prima.
Non
aveva
vinto
nessuno.
Con
la
conclusione
della
guerra
di
Corea
era
finita
la
prima
fase
della
guerra
fredda.
Si
era
infatti
consolidato
un
equilibrio,
ancora
precario,
tra
USA
e
URSS.
Agli
occhi
del
mondo
gli
americani
si
erano
comportati
correttamente.
Avevano
dimostrato
di
poter
intervenire
dove
volevano
e di
combattere
una
battaglia
legale
e di
difesa
contro
uno
stato
aggressore.
I
sovietici
dal
canto
loro
riuscirono
astutamente
ad
intervenire
solo
“per
procura”
e
non
direttamente.
Infatti
come
ci
suggerisce
lo
storico
italiano
l’ideologia
comunista
giocò
un
ruolo
fondamentale
nel
lungo
processo
di
decolonizzazione.
Erano
i
popoli
stessi
che
volevano
liberarsi
che
si
rifacevano
al
comunismo
e
non
la
Russia
che
palesemente
interveniva.
E
questo
lo
si
può
vedere
anche
negli
avvenimenti
del
successivo
scontro
in
Vietnam.
Ma
il
1953
fu
importante
anche
per
un
altro
avvenimento:
la
morte
di
Stalin.
Dal
1954
si
può
infatti
parlare
di
disgelo
(dal
titolo
di
un
libro
russo
di
modesto
successo).
Iniziò
una
nuova
era
relativamente
più
moderata
per
i
russi
– e
non
solo
-
inaugurata
da
Chruscev.
Nel
frattempo
l’America
aveva
iniziato
una
vera
e
propria
caccia
alle
streghe
in
patria.
L’essere
intellettuale
o
semplicemente
contro
il
razzismo
o a
favore
dell’emancipazione
femminile,
e
quant’altro
sentito
come
contrario
alla
politica
conservatrice
e
conformista,
tipica
di
quegli
anni,
era
perseguitato
come
nemico
della
patria
come
filo-comunista.
L’emblema
di
questa
ondata
reazionaria
si
ebbe
con
il
maccartismo
(dal
nome
del
senatore
repubblicano
portavoce
di
questa
discriminazione):
una
sorta
di
regime
cautelare.
I
soggetti
ritenuti
pericolosi
venivano
allontanati
dal
lavoro
e
sottoposti
a
lunghi
processi
che
portarono
anche
a
condanne
a
morte
per
tradimento
(Rosemberg).
Il
numero
delle
spie
era
aumentato
esponenzialmente
e
così
anche
i
costi
per
mantenere
vivo
un
tale
capillare
organo
di
controllo.
Anche
le
spese
per
gli
armamenti
crescevano,
ma
l’ormai
omologato
popolo
americano
pagava
inebetito
le
ingenti
tasse
richieste.
La
guerra
in
Vietnam
La
guerra
in
Vietnam
recitò
lo
stesso
copione.
L’Indocina
era
in
mano
ai
francesi
che
furono
scacciati
dai
giapponesi,
i
quali
a
loro
volta
lasciarono
libero
il
campo
alla
fine
del
secondo
conflitto
mondiale.
Sebbene
i
francesi
volessero
nuovamente
riprendersi
queste
terre,
la
rivolta
popolare
guidata
da
Ho
Chi
Minh
e
dal
suo
generale
Giap
li
scacciò
definitivamente
con
la
fine
della
prima
guerra
di
Indocina
nel
1954.
Ed
ecco
che
il
Vietnam
venne
diviso
in
due
parti
e
questa
volta
il
confine
cadde
sul
17°
parallelo.
Il
Sud
era
capeggiato
da
Diem
che
tramite
brogli
elettorali
aveva
preso
il
potere.
Il
suo
severo
regime
non
fece
che
aumentare
le
ostilità.
Intanto
l’America
mandò
un
esercito
per
sostenere
meglio
Diem
contro
gli
attacchi
dei
nazionalisti
che
volevano
un
Vietnam
unito
e
indipendente.
Non
che
agli
USA
interessasse
particolarmente
questa
terra
e
tanto
meno
preoccupava
il
fatto
che
non
fosse
più
in
mano
ai
francesi:
la
cosa
intollerabile,
ancora
una
volta,
era
che
la
rivolta
fosse
filocomunista.
Kennedy
tentennò
ma
Johnson
attaccò
e
nel
1963
ebbe
inizio
la
guerra,
conclusasi
solo
nel
1975
con
la
sconfitta
degli
Stati
Uniti
costretti
a
ritirarsi.
Con
il
dilungarsi
dello
scontro
in
Vietnam
l’America
capì
di
avere
sbagliato.
Questa
presa
di
coscienza
riguardava
i
governanti,
preoccupati
per
le
spese
degli
armamenti
diventate
insostenibili,
e
soprattutto
coinvolse
la
popolazione,
inorridita
davanti
a
bombardamenti
su
civili
vietnamiti
e
disorientata
dall’enorme
quantità
di
morti
e
feriti
di
militari
americani.
Si
ebbe
una
vera
propria
ribellione
popolare
partita
dai
giovani
studenti
universitari.
Si
scoprirono
le
carte.
Il
maccartismo,
la
paura
del
comunismo,
la
caccia
ai
presunti
traditori
della
patria
si
rivelarono
per
quello
che
erano
realmente.
L’URSS
sembrava
aspettare
questa
rivolta.
Sicuramente
Ho
Chi
Minh
e il
suo
partito
furono
appoggiati
(non
proprio
segretamente)
dai
sovietici
sia
economicamente
che
militarmente
ma
Chruscev
e
successivamente
Breznev
non
inviarono
mai
militari.
Il
1975,
con
la
conclusione
della
guerra
in
Vietnam,
segnò
per
lo
storico
Bruno
Bongiovanni
ne
"La
storia
della
Guerra
fredda"
edito
del
2001,
la
fine
della
guerra
fredda.
In
effetti
il
1°
agosto
dello
stesso
anno
i
rappresentanti
di
35
paesi
firmarono
a
Helsinki
l’atto
finale
della
Conferenza
di
sicurezza
e di
cooperazione
europea.
Il
crollo
del
Comunismo
Per
Bongiovanni,
la
tesi
che
maggiormente
condivido,
dopo
il
1975
non
si
può
più
parlare
di
guerra.
Continua
però
lo
scontro
ideologico
tra
le
due
super-potenze
e
sebbene
ci
fu
una
ripresa
dello
conflitto
(non
militare)
intorno
ai
primi
anni
'80,
la
situazione
cominciò
a
distendersi.
Ed è
qui
che
possiamo
leggere
la
maggiore
differenza
di
visione
dei
due
storici.
Per
Bongiovanni
la
stagnazione
economica
e
l’impossibilità
di
riconvertirsi
in
un
stato
atto
alla
distribuzione
di
beni
di
consumo
e
non
di
armi
furono
solo
alcuni
dei
motivi
del
declino
sovietico.
I
disastrosi
tentativi
di
espandersi
fallirono
tutti
tragicamente.
Era
finito
il
processo
di
decolonizzazione
e le
guerra
per
procura.
E
anche
per
il
comunismo
era
arrivato
il
momento
di
pagare
il
conto:
l’opinione
pubblica
occidentale
fu
scandalizzata
dalla
violenza
della
rivoluzione
culturale
in
Cina,
dai
massacri
di
Pol
Pot,
dalla
guerra
cino-vietnamita
e in
ultimo
dalla
guerra
afgana.
L’ideologia
comunista
fu
colpita
al
cuore.
Anche
il
tentativo
di
risollevare
la
Russia
da
parte
di
Gorbaciov
(Perestroijka)
risultò
fallimentare,
la
difficoltà
di
seguire
i
tempi
e la
modernità
raggiunta
dai
paesi
occidentali
decretarono
la
fine
del
comunismo.
La
guerra
fredda
ebbe
però
un
merito:
fu
l’unico
modo
di
potere
avere
la
pace
in
Europa
dopo
la
guerra
dei
trenta
anni
del
XX
secolo.
Non
solo,
questa
sorta
di
conflitto
mondiale
portò
ad
una
notevole
accelerazione
al
processo
di
globalizzazione.
Per
la
maggioranza
degli
storici
contemporanei,
invece,
la
guerra
fredda
proseguì
fino
al
crollo
dell’URSS
nel
1991.
Quando
agli
impoveriti
stati
satelliti
dell’Unione
Sovietica
fu
data
la
possibilità
di
scegliere,
questi
preferirono
la
contro
parte,
quella
capitalista
occidentale.
La
Russia
venne
lasciata
sola
e
dopo
due
anni
crollò.
La
guerra
fredda
in
realtà
non
fu
vinta
da
nessuna
delle
due
super-potenze
ma
dal
Giappone
e
dalla
Germania,
gli
stati
perdenti
della
seconda
guerra
mondiale
che
in
questi
decenni
hanno
visto
la
propria
economia
impennarsi.
Riferimenti
bibliografici
Joseph
Smith,
La
guerra
fredda
1945
–
1991,
Il
Mulino,
Bologna
2000
Bruno
Bongiovanni,
Storia
della
guerra
fredda,
Laterza
,
Roma-Bari
2001
Marc
Mazower,
Le
ombre
dell’Europa:
democrazie
e
totalitarismi
nel
XX
secolo,
Garzanti,
Milano
2005
Eric
J.
Hobsbawm,
Il
secolo
breve,
Rizzoli,
Milano
1996