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N. 93 - Settembre 2015 (CXXIV)

A OTTANT’ANNI DALLA GUERRA D’ETIOPIA
ITALIANI BRAVA GENTE?

di Filippo Petrocelli

 

Sono trascorsi ottant’anni da quella che gli storici definiscono la campagna d’Etiopia. Un lustro e qualche decennio dal goffo tentativo da parte dell’Italia fascista di costruire un famigerato impero e di partecipare con parecchi anni di ritardo e fuori tempo massimo, a quella spartizione dell’Africa cominciata nel tardo Ottocento che portava in sé l’idea del “fardello dell’uomo bianco” e della sua ideale missione civilizzatrice. Un’idea malsana che ha significato nei fatti solo miseria e saccheggio di immense risorse naturali e materie prime.

 

Una pagina della recente storia italiana spesso dimenticata e opportunamente occultata per conservare intatto quel mito assolutorio degli “Italiani brava gente”, servito da sempre a cancellare le responsabilità e le colpe di noi italiani, dai Balcani alla Grecia, all’Albania, senza dimenticare la Libia, la Somalia e l’Etiopia.

 

Una sola voce coraggiosa, rimasta sola per troppo tempo, quella di Angelo del Boca – storico da sempre in prima linea – che per anni ha cercato di decostruire e smentire questo mito, oggi accompagnato da un discreto coro di voci, come quelle di Nicola Labanca autore di Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana e Davide Conti, che ha realizzato L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della “brava gente” (1940-1943).

 

Sono iniziate così a emergere le nefandezze dell’Italia coloniale e dei crimini di guerra italiani prima e durante le due guerre mondiali, grazie a una generazione di storici impegnati a far luce su queste atrocità, tutto sulla scia dell’insegnamento del maestro Del Boca.

 

Nella monumentale monografia sul colonialismo italiano Gli italiani in Africa orientale, ristampata in quattro volumi nelle edizioni Oscar storia di Mondadori, Del Boca non si limita però al colonialismo fascista, bensì analizza tutte le imprese coloniali dell’Italia prima monarchica e poi repubblicana, dedicando tutto il secondo volume alle imprese africane durante il Ventennio.

 

Altra opera fondamentale per comprendere quel periodo è La guerra di Etiopia. L'ultima impresa del colonialismo dove l’obiettivo dell’analisi è la guerra fascista in Africa, che non è stata solo canzonette allegre come Faccetta nera e Ti saluto, vado in Abissinia ma anche pugno di ferro, esecuzioni di massa, uso spregiudicato di armi chimiche come l’iprite e di campi di prigionia, modelli anticipatori dei campi di concentramento nazisti.

 

Ma proprio la campagna d’Etiopia o Abissinia – come veniva allora chiamata nei cinegiornali Luce – è emblematica in quanto esperienza coloniale “pura”, aggressione imperialista tout court e non mascherata dall’intento di un occupare un territorio nemico come nei Balcani, da inquadrare necessariamente nella più ampia logica del conflitto mondiale.

 

Per rievocare gli eventi africani occorre però ripercorrere i giorni di costruzione dell’impero: la guerra scoppia il 3 ottobre 1935, apparentemente per vendicare la disfatta di Adua del 1896, quando il negus Menelik II sconfisse il Regio esercito italiano.

 

Il casus belli è un incidente al confine fra Somalia italiana e Etiopia, nei dintorni di Ual ual, un’oasi dove si fronteggiano truppe irregolari etiopi e militari italiani supportati da un contingente somalo, ma in realtà le mire italiane sulla zona sono realtà da anni e intendono approfittare della debolezza dell’Impero etiope guidato da Hailé Selassié.

 

La guerra è breve, dura sette mesi ed è contraddistinta da una serie di veri e propri “crimini di guerra”, come l’uso spregiudicato dei gas e le rappresaglie indiscriminate. Il 5 maggio Mussolini annuncia la vittoria e in pochi giorni Vittorio Emanuele III diviene imperatore. A condurre le operazioni militari sono il maresciallo Badoglio a nord nella zona dello Scirè, mentre a sud opera Graziano nella zona di Harar e Dire Daua.

 

Ma la conquista del paese è solo formale, larga parte del territorio non è controllato dall’esercito italiano e imperversano bande di guerriglieri intenti a resistere all’occupazione. La guerra di bassa intensità che comincia in quei giorni, dura fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale e termina solo con l’invasione inglese del 1941, dimostrando la ferma intenzione delle etiopi di non cedere alla dominazione straniera.

 

L’episodio forse più significativo della resistenza etiope è il fallito attentato al generale Graziani del 19 febbraio 1937. Due guerriglieri lanciano delle granate contro il palco delle autorità durante una cerimonia pubblica: muoiono 4 italiani e 3 indigeni, ma Graziani sopravvive.

 

La ritorsione inizia fin dai momenti immediatamente successivi all’azione ed è spregiudicata. Oltre i militari, anche la popolazione italiana si arma e partecipa ai rastrellamenti. Le vittime sono migliaia: fonti etiopi parlano di 30.000 morti, mentre già all’epoca si parlava di oltre 6.000 morti accertati.

 

Uno degli atti più odiosi portò alla distruzione della città-convento copta di Debra Libanos e all’esecuzione di duemila fra monaci e pellegrini, perché secondo le autorità italiane i religiosi avevano offerto supporto logistico ai rivoltosi. Ma dai rapporti di polizia, nel convento non viene ritrovata alcune evidenza che collegasse i religiosi con la resistenza.

 

Lo storico del Boca comunque non si è limitato ad analizzare il solo colonialismo – sebbene questo sia stato il suo principale campo di lavoro – e nel celebre saggio Italiani brava gente? edito da Neri Pozza, ha demolito con perizia quel mito degli italiani popolo sornione e bonario, anche grazie al racconto di eventi di politica interna come la lotta al brigantaggio nell’Italia post-unitaria, dove sottolinea le radici antropologiche di uno stato “battezzato” nella violenza, ricordando che colonizzazione significa spesso e soltanto sfruttamento e atrocità, anche in casa propria.

 

Altro che “brava gente”.



 

 

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