N. 141 - Settembre 2019
(CLXXII)
la guerra nel medioevo
tra
battaglie
e
assedi
di
Stefano
Bassi
Il
Medioevo
è
tutt’altro
che
un’epoca
rigidamente
fissa,
caratterizzata
nella
sua
sostanza
da
elementi
statici
e
immutabili.
Inizialmente
siamo
di
fronte
a
una
contrazione
e a
una
crisi,
cominciate
ben
prima
del
fatidico
476
d.C,
che
videro
gli
uomini
e le
donne
del
tempo
reagire,
inventando
risposte
adeguate
a
determinate
situazioni.
Così
anche
nelle
“cose
della
guerra”,
non
possiamo
rintracciare
delle
semplici
forme
che
si
ripetono
uguali
a se
stesse,
facendo
apparire
le
battaglie
medievali
un
susseguirsi
di
schemi
fissi,
banali
e
soprattutto
brutali
rispetto
alla
civiltà
di
Roma.
Bisogna,
infatti,
precisare
che
in
epoca
romana
(sia
repubblicana,
imperiale
e
tardo
antica),
la
guerra
era
altresì
una
costante.
Certo
il
più
delle
volte
portata
ai
confini
del
grande
Impero.
Ma
non
dobbiamo
commettere
l’errore
di
considerare
il
Medioevo
come
un’epoca
più
sanguinaria,
magari
con
la
scusa
delle
“invasioni
barbariche”
o
del
“fanatismo
crociato”,
scadendo
così
in
uno
sterile
confronto
con
Roma.
Senza
dilungarmi
troppo,
vorrei
ricordare
le
sanguinarie
guerre
civili,
i
massacri,
le
rivolte
servili,
la
grande
economia
basata
sulla
schiavitù
e la
rapina,
gli
spettacoli
dei
gladiatori,
le
crocefissioni
e lo
sterminio
di
popolazioni
ribelli:
anche
l’Impero
Romano
contribuì
allo
scorrere
del
sangue
senza
essere
da
meno.
Detto
ciò,
vorrei
illustrare
in
rapidità
alcune
delle
tantissime
peculiarità
riguardanti
le
guerre
medievali,
fornendo
così
alcuni
spunti
utili
per
chi
volesse
approfondire,
ma
soprattutto
mostrando
di
essere
alla
presenza
di
un
quadro
dalle
mille
sfumature.
Alto
Medioevo:
città
e
conquiste
Opinione
ormai
molto
diffusa
è
che
nell’Italia
alto
medievale
i
conflitti
erano
guerre
di
città.
Quando
i
Longobardi
scesero
nella
penisola,
568/569
d.C,
dovettero
piegare
una
“civitas”
dopo
l’altra.
Insomma,
nessun
nemico
compatto
da
affrontare
in
una
sola
battaglia
campale
e
risolutiva.
Ce
lo
racconta
molto
bene
Paolo
Diacono
nella
sua
“Historia
Langobardorum”.
Re
Alboino
insieme
alla
sua
gente
e
accompagnato
dai
Sassoni
varcò
i
confini
dalle
Alpi
Orientali,
entrò
nel
territorio
della
città
di
Cividale
e
mise
a
capo
un
duca
di
sua
scelta.
Poi
prese
Vicenza,
Verona
e le
altre
città
della
Venezia,
prima
provincia
italica,
un’estensione
geografica
più
grande
dell’attuale
Veneto.
Ancora
proseguì
con
la
sua
migrazione
armata:
piegò
Milano
e
infine
trovò
un
ostacolo
più
accanito
nella
difesa.
”Ultra
tre
annos
obsidionem
perferens”,
cioè
sostenendo
l’assedio
per
più
di
tre
anni,
la
città
di
Ticino,
ovvero
Pavia,
resistette
agli
eserciti
dei
Longobardi,
accampati
non
lontani
da
essa.
Infine
il
Re
Alboino
riuscì
a
entrare
attraverso
la
porta
orientale
di
San
Giovanni.
Eserciti
crociati:
l’assedio
La
presa
di
Gerusalemme,
durante
il
primo
pellegrinaggio
armato,
ci
offre
la
possibilità
di
analizzare
le
capacità
tecniche
degli
eserciti
europei
e
dunque
degli
uomini
medievali
sul
finire
dell’anno
Mille.
Nel
1099,
dopo
una
faticosa
avanzata
nel
deserto
e la
presa
di
diverse
città,
i
combattenti
franchi,
venivano
così
chiamati
dai
bizantini
e
dai
mussulmani,
si
accamparono
davanti
alle
poderose
mura
di
Gerusalemme.
La
città
era
stata
in
mano
ai
Turchi
Selgiuchidi,
mussulmani
sunniti,
ma
riconquistata
solo
qualche
tempo
prima
al
1099
dai
Fatimidi
d’Egitto,
musulmani
sciiti
(piccola
parentesi,
ma
doverosa:
già
allora
il
mondo
mussulmano
era
tutt’altro
che
compatto).
Per
vincere
il
sistema
difensivo
fatimide,
l’esercito
crociato
costruì
due
torri
d’assedio
capaci
di
vincere
le
mura
della
città.
Queste
le
parole
di
un
cronista
arabo,
Ibn
Al-Athìr,
per
entrare
nel
vivo
della
narrazione:
“Montarono
contro
di
essa
due
torri,
l’una
delle
quali
dalla
parte
di
Sion,
e i
Musulmani
la
abbruciarono
uccidendo
tutti
quelli
che
c’erano
dentro;
ma
l’avevano
appena
finita
di
bruciare
che
arrivò
un
messo
in
cerca
di
aiuto,
con
la
notizia
che
la
città
era
stata
presa
dall’altra
parte
(…)”.
Eserciti
comunali:
la
fanteria
Siamo
abituati
a un
medioevo
tutto
di
cavalieri
e
cavalleria:
rilucenti
armature
e
singolari
tenzoni.
Un
focus
sulla
penisola
italiana
del
XII
secolo
ci
consente
di
vedere
in
campo
anche
eserciti
di
fanti.
Uomini
appiedati,
non
professionisti,
molto
spesso
artigiani,
notai
o
più
comunemente
“cives”:
ovvero
abitanti
di
un
Comune,
scesi
in
guerra
per
difendere
la
propria
città
e
dunque
le
proprie
attività
e
interessi.
Nelle
campagne
a
nord
ovest
di
Milano,
poco
distanti
dal
borgo
di
Legnano,
il
29
maggio
1176,
accadde
qualcosa
di
incredibile
per
l’epoca
che
vide
come
protagonisti
questi
nuovi
eserciti.
L’imperatore
Federico
I,
detto
il
Barbarossa,
scese
in
Italia
innumerevoli
volte
per
tentare
di
piegare
il
movimento
di
autonomia
nato
dall’esperienza
comunale.
Le
varie
città,
non
tutte
a
dir
la
verità,
osteggiarono
il
sovrano
svevo
e si
prepararono
ad
affrontarlo.
La
Lega
Lombarda,
un
insieme
di
alleanze
intercittadine,
riuscì
a
schierare
un
esercito
di
fanti
appiedati.
Nella
famosa
battaglia
di
Legnano,
un
numeroso
muro
di
picche
costituito
da
cittadini
armati
di
lancia
respinse
parecchie
volte
le
cariche
di
cavalleria,
fino
a
sconfiggere
e
mettere
in
rotta
l’esercito
di
Federico
I.
Elemento
decisivo
della
battaglia
fu
senz’altro
l’elevato
numero
portato
in
campo,
poiché
tutti
i
cittadini
maschi
erano
chiamati
alle
armi
e la
solidarietà:
le
formazioni
erano
raggruppate
sulla
base
di
circoscrizioni
territoriali
cittadine
(porte,
quartieri,
etc.).
Un
caso
tutto
particolare:
uso
combinato
di
cavalleria
e
fanteria
Ovviamente
la
cavalleria
esisteva,
eccome.
Eppure
non
dobbiamo
pensare
a un
uso
plastico
e
ripetitivo
dei
cavalieri,
ovvero,
fronteggiandosi,
i
reparti
si
lanciavano
alla
carica
per
impattarsi
duramente
sull’avversario,
finché
non
si
decretava
un
vincitore.
A
Benevento
nel
1266,
abbiamo
un
esempio
di
duttilità
degli
schieramenti.
Fu
Carlo
d’Angiò
ad
applicarlo,
dopo
una
travolgente
e
rapida
avanzata,
fronteggiando
in
campo
aperto
il
Re
di
Sicilia
Manfredi,
figlio
dell’ormai
defunto
Federico
II.
I
“milites”
dell’angioino
erano
ormai
stremati
per
le
cavalcate
forzate
nell’estenuante
marcia.
Le
truppe
di
Manfredi
erano
invece
fresche
e
pronte
a
gettarsi
con
forza
nella
famosa
carica.
Carlo,
come
ci
raccontano
i
cronisti
dell’epoca,
risolse
la
situazione
a
livello
tattico:
a
ogni
cavaliere
schierò
affianco
uno
o
due
fanti
irregolari,
detti
ribaldi.
Sostenuta
la
carica
nemica,
i
ribaldi
sgusciarono
tra
le
fila
nemiche
e,
armati
di
piccole
spade
e
pugnali,
iniziarono
a
disarcionare
o
addirittura
ferire
i
cavalli
avversari.
Siamo
ben
lontani
dalla
nobiltà
cortese
cavalleresca,
molto
più
vicini
a
una
capacità
cinica
di
valutazione
delle
forze
in
campo
e di
duttilità
tattica.
Riferimenti
bibliografici:
G.
Breccia,
I
figli
di
Marte.
L’arte
della
guerra
nell’antica
Roma,
Arnoldo
Mondadori,
Milano
2012.
P.
Cammarosano,
Storia
dell’Italia
medievale,
Editori
Laterza,
Roma-Bari
2001.
Paolo
Diacono,
Storia
dei
Longobardi,
a
cura
di
Lidia
Capo,
Fondazione
Lorenzo
Valla,
Milano
1992.
P.
Grillo,
Legnano
1176:
una
battaglia
per
la
libertà,
Editori
Laterza,
Roma-Bari
2012.
P.
Grillo,
L’aquila
e il
giglio.
1266:
la
battaglia
di
Benevento,
Salerno
Editrice,
Roma
2015.
P.
Grillo,
Guerre
delle
crociate,
RCS
MediaGroup
S.p.a,
Milano,
2016.
Ibn
Al-Athìr,
Storici
arabi
delle
Crociate,
a
cura
di
Francesco
Gabrieli,
Einaudi,
Torino
1987.
A.A.
Settia,
Tecniche
e
spazi
della
guerra
medievale,
Viella,
Roma
2006.