[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

175 / LUGLIO 2022 (CCVI)


attualità

LA RUSSIA E IL RISCHIO di UNA GUERRA ATOMICA
Le possibili conseguenze

di Francesco Cappellani

 

Il 6 agosto del 1945 un quadrimotore americano B-29 comandato dal maggiore Paul Tibbets, partendo dalla base militare di Tinian, nelle isole Marianne, sganciava sulla città di Hiroshima in Giappone la prima bomba atomica della storia. L’operazione, condotta per costringere alla resa il governo nipponico, da un punto di vista strettamente militare, riuscì in modo perfetto grazie anche a una certa dose di fortuna.

 

Era già successo infatti che ben quattro B-29 sovraccaricati di combustibile e di ordigni esplosivi si fossero schiantati il giorno precedente sulla pista di lancio non riuscendo a levarsi in volo prima che i 2.600 metri della pista finissero. L’Enola Gay, questo il nome, di sua madre, che il maggiore aveva fatto dipingere sull’aereo il giorno prima, portava, oltre alla bomba atomica, Little Boy da 4.400 kg, 26.000 litri di carburante e riuscì ad alzarsi in volo negli ultimi cento metri della pista per affrontare i 2.740 km di navigazione per raggiungere l’obiettivo.

 

Il generale Farrell, che aveva assistito al decollo, dirà poi: «Cercavamo quasi di farlo alzare con le nostre preghiere e le nostre speranze». Un’ora prima erano partiti dalla base di Tinian tre altri B-29 per controllare le condizioni meteo su i tre obiettivi possibili, Nagasaki, Kokura e Hiroshima. Quest’ultima località appariva priva di nuvole e con ottima visibilità e quindi fu scelta per il lancio della bomba. Il passaggio dei grossi aerei sul cielo nipponico fu immediatamente segnalato e la popolazione avvertita dal suono delle sirene alle 8,09; l’allarme rientrò dopo 22 minuti.

 

Niente accadde invece quando l’Enola Gay sorvolò mezz’ora dopo la città all’altezza di circa 9.000 metri; si pensò, al Comando giapponese, a una isolata missione di ricognizione. Non ci fu contraerea, nè caccia e neanche le batterie costiere aprirono il fuoco. Così, in assoluta tranquillità, alle 9,15, Little Boy fu sganciata da circa 9.500 metri di altezza. L’altimetro della bomba collegato al meccanismo di accensione era stato tarato a circa 580 metri dal suolo perché quella era la quota calcolata per provocare la massima devastazione. La bomba funzionò perfettamente.

 

L’Enola Gay virò bruscamente per allontanarsi il più rapidamente possibile dall’epicentro dell’esplosione mentre iniziava ad alzarsi l’immensa nuvola a forma di fungo che avrebbe raggiunto l’altezza di 13.700 metri. Robert Shumard, motorista in seconda dell’aereo, avrebbe detto più tardi: «Non c’era altro che morte in quella nuvola. C’erano tutte quelle anime giapponesi che salivano al cielo». Quando l’aereo era già a 15 km dal punto di detonazione, fu raggiunto dall’onda d’urto dello scoppio che lo fece sobbalzare e scricchiolare violentemente.

 

Hiroshima era stata risparmiata dai bombardamenti negli anni della guerra; della sua popolazione di 365.000 abitanti, 240.000 erano rimasti in città. La bomba atomica distrusse il 60% della città. Nel raggio di circa 2 km dall’epicentro dell’esplosione, quasi tutti gli edifici furono distrutti dalla violenza dell’onda d’urto e arsi dalla successiva onda termica a circa 6.000 gradi.

 

Non è stato possibile calcolare il numero esatto delle vittime anche perché, nella zona centrale dell’esplosione, i corpi furono vaporizzati dall’altissima temperatura senza lasciare alcuna traccia. I valori più attendibili parlano di 66.000 morti al momento dell’esplosione (il 60% bruciati dal fuoco e dal calore, il 30% a causa del crollo di edifici e strutture varie e un 10% a causa delle radiazioni) e di 69.000 feriti dei quali molti moriranno entro la fine del 1945 per le bruciature e gli effetti delle radiazioni. Si parla complessivamente di una cifra dell’ordine di 140.000 persone. La potenza calcolata ex-post per la bomba di Hiroshima risultò di 15 kton (chiloton) cioè pari all’esplosione di 15.000 tonnellate di tritolo.

 

Tre giorni dopo, il 9 agosto 1945, fu sganciata una seconda bomba atomica, Fat Man, su Nagasaki, della potenza di 21 kton che provocò all’esplosione circa 75.000 vittime e altrettanti feriti. Il materiale fissile utilizzato in questo ordigno era plutonio 239 anziché uranio 235. L’atto di resa del Giappone sarà firmato il 2 settembre 1945 dopo il discorso del 15 agosto dell’imperatore Hirohito che aveva dichiarato la fine delle ostilità.

 

La fissione (scissione) è un processo per cui un elemento “fissile” (un nucleo pesante come l’uranio), colpito da un neutrone (particella subatomica priva di carica) “lento”, cioè a bassa energia, si scompone in due o più frammenti liberando energia con l’emissione di radiazioni e due o tre neutroni in grado di continuare indefinitamente il processo di fissione fino, teoricamente, al consumo totale del materiale fissile, si ha cioè una reazione cosiddetta a catena. Nelle bombe a fissione il materiale fissile può essere uranio 235 col quale si arricchisce dall’80% fino al 93,5% l’uranio naturale, essenzialmente U238, che ne contiene solo lo 0,72%, mediante diversi processi di separazione isotopica molto complessi e costosi, oppure plutonio 239 prodotto artificialmente nei reattori nucleari partendo dall’uranio 238 arrivando a formare plutonio col 93% di Pu239 e il 7% di Pu240.

 

La massa critica di questi elementi, cioè la quantità minima necessaria ad autosostenere una reazione a catena dipende dal tipo, dalla densità e dalla forma in cui è compattato il materiale fissile e da quanto il materiale che lo circonda sia in grado di riflettere i neutroni che sfuggono dal nocciolo fissile rimandandoli dentro il nocciolo stesso. Nel caso dell’uranio si raggiunge la massa critica con una sfera di circa 47 kg, mentre per il plutonio è sufficiente una sfera di 10 kg.

 

È importante notare che Little Boy conteneva 64 kg di uranio arricchito, ma che al momento dello scoppio meno di 1 kg fu soggetto a fissione per cui il sistema si rivelò molto inefficiente e quel modello di bomba atomica fu abbandonato. Con raffinate tecniche costruttive, usando sistemi di compressione sui noccioli fissili, si può arrivate oggi a bombe atomiche di 1 kton di potenza con 1-2 kg di plutonio, ottenendo proiettili compatti per missili o per artiglieria. Le bombe a fissione più efficienti arrivano a una potenza di qualche decina di kton, in quanto per ottenere valori maggiori i problemi tecnici diventano enormemente complessi e impraticabili. Per dare un’idea di quanta energia si può ottenere in via puramente teorica dalla materia, usando la famosa relazione di Einstein E=mc2, si ricava che la massa convertita in energia da una bomba di 12 kton è di appena 0,56 grammi.

 

L’innesco per compattare l’uranio o il plutonio per raggiungere la massa critica, era costituito da un esplosivo chimico convenzionale che, ad esempio nel caso della bomba all’uranio, sparava due masse subcritiche una contro l’altra allo stesso tempo attivando come innesco di neutroni una sorgente di polonio-berillio. Il polonio 210 è un elemento radioattivo che decade con un’emivita di 138 giorni emettendo particelle alfa, il berillio colpito dai raggi alfa emette neutroni cha avviano la reazione a catena all’interno della massa critica.

 

Le bombe atomiche cadute sul Giappone sono stati gli unici ordigni nucleari impiegati in un contesto bellico. Ma data la loro potenza e capacità distruttiva rispetto agli esplosivi tradizionali, dopo la fine del secondo conflitto mondiale iniziò la corsa a questo tipo di armamenti soprattutto in USA e Russia, determinando la cosiddetta Guerra Fredda durante la quale le due nazioni ne accumularono fino a un massimo, secondo il Bulletin of Atomic Scientists, di circa 40.000 testate nucleari in Russia e oltre 31.000 negli U.S.A. Questa proliferazione era basata sull’idea delle deterrenza reciproca, cioè di misure per cui il nemico, temendo le analoghe spaventose conseguenze di un suo attacco, sia dissuaso dal metterlo in opera.

 

Dopo la fine dell’Unione Sovietica, nel 1991, molte testate nucleari furono smantellate da ambo le parti in seguito ai trattati di non proliferazione come, nel 1970, l’NPT (Nuclear non Proliferation Treaty) seguito nel 1972 dal SALT (Strategic Arm Limitation Treaty) e nel 1991 dallo START (Strategic Arms Reduction Treaty). Dalle circa 70.000 testate nucleari degli anni Ottanta si è scesi ad oggi a circa 13.000 ordigni. Quasi tutte le nazioni hanno accettato l’NPT salvo la Corea del Nord che ne è uscita nel 2003.

 

Attualmente i dieci stati che hanno un armamento nucleare ufficialmente dichiarato sono i seguenti:

 

Russia (6.257)

USA (5.550)

Cina (350)

Francia (290)

Regno Unito (225)

Pakistan (165)

India (156)

Israele (90)

Corea del Nord (50)

 

In totale 13.133 testate atomiche; in realtà, dati aggiornati al 23 febbraio 2022 da parte della Feederation of American Scientists, stimano che la Russia abbia al momento 4.477 testate nucleari disponibili di cui 2.889 immagazzinate e non operabili nell’immediato, mentre 1.558 sono pronte e montate su missili balistici intercontinentali (812), sottomarini lanciamissili (576), e le rimanenti su bombardieri specificamente attrezzati. Inoltre, vi sarebbero circa 1.500 testate dismesse, ma ancora operative in attesa dello smantellamento.

 

L’Ucraina, che ne aveva 1.900 ereditate in seguito alla dissoluzione dell’URSS, vi ha rinunciato nel 1994 col Memorandum di Budapest, un accordo in cui USA, Russia e Gran Bretagna, e successivamente Cina e Francia, si impegnavano a non attaccarla in cambio della dismissione delle armi nucleari, consegnate alla Russia per essere smantellate. Memorandum già violato dalla Russia nel 2014 con l’invasione della Crimea e oggi con l’operazione militare di aggressione dell’Ucraina iniziata a fine febbraio 2022.

 

Gli ordigni nucleari di oggi sono molto diversi dalle due bombe atomiche americane del 1945 che pesavano oltre 4 tonnellate con potenze di 15-20 kton. La tecnologia costruttiva si è evoluta verso un forte ridimensionamento in termine di peso e dimensioni; attualmente le bombe pesano qualche centinaio di chili e hanno una potenza distruttrice che va da qualche decina di kton ai 50.000 kton (50 megaton) della bomba Tsar russa, la bomba a idrogeno più potente di sempre (oltre 3.000 volte la bomba di Hiroshima) testata nel 1961 dall’allora Unione Sovietica a nord del circolo polare artico.

 

La variegata potenza di queste armi e la loro miniaturizzazione che ne facilita il trasporto e l’immediato utilizzo, consente di effettuare un attacco atomico utilizzando mezzi diversi, dai missili balistici anche con portata intercontinentale come il recentissimo Sarmat sovietico, da sottomarini nucleari come il nuovissimo Belgorod sovietico dotato di droni-siluro da 24 metri a propulsione atomica con una autonomia di 10.000 km in grado di portare testate nucleari sottomarine e farle esplodere provocando immani tsunami sulle coste nemiche, e anche da bombardieri teleguidati. È quindi possibile, servendosi di piattaforme di lancio via terra, via mare e via aria, raggiungere e distruggere qualsiasi località del globo.

 

In funzione delle loro caratteristiche e quindi del loro uso si parla di armi nucleari strategiche, con potenze dell’ordine dei centinaia di kton, utilizzabili per distruggere intere città, grandi complessi industriali o estese basi operative nonché flotte in mare o alla fonda o, con bombe sottomarine, provocare tsunami in grado di inondare città costiere, e di armi tattiche che sono ordigni di bassa potenza, pochi kton, da usare sul campo di battaglia come armi convenzionali ad esempio per annientare una colonna di mezzi blindati o affondare una portaerei nel corso di un conflitto locale.

 

Chiaramente mentre l’uso di armi strategiche con la possibilità di disintegrare una metropoli in qualsiasi continente riporta alla possibilità di una risposta equivalente da parte della nazione aggredita e quindi a una guerra mondiale, le armi tattiche costituirebbero solo un importante potenziamento rispetto agli esplosivi attualmente in uso. La Russia ad oggi possiede circa 1.900 armi tattiche.

 

Per dare un’idea della differenza tra un’arma strategica nucleare e quelle tradizionali basta paragonare gli effetti della bomba di Hiroshima, di cui abbiamo parlato all’inizio, con i risultati del bombardamento di Dresda avvenuto alla fine del secondo conflitto mondiale da parte dell’aviazione inglese e americana. Il bombardamento avvenne in quattro ondate fra il 13 e il 15 febbraio 1945, vi parteciparono oltre 1.300 aerei, 775 bombardieri della R.A.F. e 527 dell’USAAF (United States Army Air Forces) che scaricarono quasi 4.000 tonnellate di bombe altamente esplosive e incendiarie distruggendo e bruciando 6,5 kmq del centro città e causando circa 25.000 vittime. Un’operazione ben più complessa rispetto a quella ottenibile oggi con una testata nucleare di media potenza montata su un unico missile a lunga gittata.

 

Attualmente gli arsenali nucleari sono costituiti essenzialmente da due tipi di bombe: oltre a quelle a fissione chiamate comunemente bombe atomiche già illustrate, vi sono quelle a fusione (in realtà fissione + fusione) denominate bombe termonucleari.

 

La bomba a fusione sfrutta la proprietà che i nuclei di due atomi leggeri, tipicamente idrogeno e i suoi isotopi deuterio e trizio (atomi che hanno il nucleo composto da un protone come l’idrogeno con in più uno e due neutroni rispettivamente), in condizioni di altissime temperature (oltre cento milioni di gradi) e pressione generate con diverse tecniche e l’uso di campi magnetici di grande potenza per “confinare” il plasma incandescente che si forma, possano unirsi formando un nucleo, ad esempio di elio, con massa minore della somma delle masse di partenza; la differenza di massa viene emessa sotto forma di energia e radiazioni. È il fenomeno che avviene all’interno del sole e delle stelle. Le bombe a fusione sono  in realtà bombe a fissione e fusione in quanto una piccola bomba atomica esplodendo serve da innesco creando le condizioni di altissima pressione e temperatura necessarie per accendere la reazione di fusione nella miscela gassosa. Mediante il processo di fusione, a differenza delle bombe a fissione, è possibile progettare ordigni di potenza teoricamente illimitata, usando inoltre materiali molto meno costosi.

 

Un tipo particolare di bomba termonucleare è la bomba al neutrone, in questo caso contrariamente alle bombe precedenti si realizza la struttura che avvolge il combustibile nucleare in modo che i neutroni possano facilmente sfuggire dall’involucro del proiettile. Il risultato, ottenuto da prove mediante bombe di pochi kton è una ridotta zona di esplosione con un raggio di 200-300 metri, ma con una massimizzazione della radiazione neutronica, circa dieci volte maggiore di una bomba a fissione, che può interagire ad esempio con le armature dei carri armati rendendole radioattive e inutilizzabili nell’arco di uno-due giorni, e con le persone provocando mutazioni irreversibili nei tessuti biologici (i neutroni colpendo qualsiasi sostanza possono essere catturati dai nuclei degli atomi del bersaglio che vengono mutati divenendo spesso radioattivi).

 

Concepita negli USA. alla fine degli anni Cinquanta, fu sviluppata come arma contro truppe in movimento, per uso tattico, da campo di battaglia, più che distruttivo. Ma in seguito al trattato INF (Intermediate-range Nuclear Forces) del 1987, firmato da Reagan e Gorbaciov che sancì la fine della Guerra Fredda, queste armi nucleari a potenza ridotta sono state ritirate dall’Europa e ufficialmente smantellate in tutti i paesi alla fine del secolo scorso. Nel 2019 però gli USA. e la NATO hanno accusato la Russia di avere violato ripetutamente i protocolli INF per cui, tra accuse reciproche, il 2 agosto 2019 il trattato è ufficialmente “defunto”, segnando in maniera drammatica la crisi dell’attuale sistema di controllo degli armamenti nucleari e la possibilità di proseguire il loro sviluppo grazie all’uso di nuove tecnologie come l’intelligenza artificiale.

 

Per capire perché, nel caso di guerra atomica, si parli di “Doomsday”, Giorno del Giudizio, occorre considerare quali sono gli effetti di una esplosione nucleare. Al momento dell’esplosione un ordigno nucleare rilascia circa il 90% della sua energia in un milionesimo di secondo, vaporizzando i materiali della bomba e ogni cosa presente a terra in corrispondenza dell’epicentro dello scoppio, trasformandosi in un gas a temperature dell’ordine di milioni di gradi. Si ha un’immediata emissione di radiazioni, in gran parte raggi gamma e neutroni generati dalle reazioni nucleari nel nocciolo della bomba che durano circa un secondo. Questa radiazione, chiamata radiazione diretta, anche se letale, è trascurabile rispetto agli altri effetti dell’esplosione che coinvolgono distanze molto maggiori. Il gas caldissimo irraggia la sua energia sotto forma di raggi X, luce e calore che scaldano l’aria circostante. Si forma una “fireball”, una sfera di aria a temperature altissime carica di polveri e frammenti succhiati dal suolo, che si espande immediatamente raffreddandosi; nel caso di una bomba da un megaton in 10 secondi il raggio della sfera può arrivare a 800 metri, con una luminosità molto maggiore di quella del sole.

 

La fireball crescendo irraggia calore e il “thermal flash” (lampo termico) che ne deriva dura parecchi secondi e assorbe circa un terzo dell’energia emessa nell’esplosione. L’onda di calore è tale da innescare incendi di estrema violenza e provocare gravi ustioni della pelle anche a trenta chilometri di distanza. La rapidissima espansione della firewall comprime l’aria circostante creando un’onda di pressione che si muove all’inizio a migliaia di chilometri/ora rallentando con l’aumentare del percorso; questa onda d’urto trasporta circa metà dell’energia esplosiva della bomba ed è responsabile della maggior parte della distruzione di qualunque struttura che non sia particolarmente rinforzata si trovi nel suo raggio d’azione; il crollo degli edifici, le polveri e i detriti causano morti e feriti nella popolazione. In alcuni casi che dipendono dalla configurazione del terreno sottostante, l’onda di calore e l’onda d’urto possono unirsi insieme dando luogo a una tempesta di fuoco, un incendio che si propaga e si autoalimenta spostandosi a centinaia di km/ora.

 

La forma “a fungo” tipica dell’esplosione delle bombe atomiche è dovuta all’aria caldissima della sfera di fuoco che crea una corrente ascensionale; quando la colonna termica raggiunge gli strati più alti e freddi dell’atmosfera il materiale tende a raffreddarsi e inizia a ricadere dando origine al “cappello” del fungo. Se la potenza della bomba è di qualche kton il fungo rimane nell’atmosfera provocando effetti locali, mentre con potenze di megaton la colonna col suo carico di polveri sottili raggiunge la stratosfera dove i materiali aspirati possono rimanere per mesi e, trascinate dalle correnti di alta quota, interessare tutto il globo prima di ricadere a terra.

 

L’esperimento del 1954 nell’atollo di Bikini compiuto dagli americani con una bomba termonucleare di circa 15 Mton ha permesso di misurare gli effetti devastanti di una esplosione di quella potenza: in un minuto circa si generò un “fungo atomico” che raggiunse un’altezza di 14 km e un diametro di 11 km, per arrivare in meno di 10 minuti a quasi 40 km di altezza e a un diametro di 100 km espandendosi a 360 km/ora. Ma l’aspetto più inquietante nell’esperimento di Bikini, fu la contaminazione dovuta alla ricaduta (fallout) di cui accenneremo più avanti, di polveri e particolato radioattivo che investì un’area di 18.000 kmq.

 

L’effetto distruttivo è decisamente maggiore se l’esplosione avviene in aria, a centinaia di metri dal suolo, a meno che non si vogliano colpire postazioni missilistiche o depositi di armamenti sotterranei, in quanto l’onda d’urto, anziché creare un immenso cratere come nel caso di scoppio a terra che ne assorbirebbe buona parte dell’energia, viene riflessa dal terreno conservando tutto il suo potere devastante.

 

Come avvenne per l’esplosione atomica su Hiroshima, il parametro di maggiore importanza in caso di guerra è il raggio di distruzione che è determinato dalla potenza della bomba e dall’altezza alla quale viene fatta brillare. Tale raggio è la distanza fra l’epicentro al suolo dell’esplosione e la circonferenza che racchiude la superficie dove la distruzione è praticamente totale, definita come la zona soggetta a causa dell’onda d’urto a una sovrappressione che scende ai bordi del cerchio a 0,34 atmosfere. Poichè il raggio varia come la radice cubica del volume della sfera e quindi all’incirca della potenza, a un aumento della potenza ad esempio di un fattore dieci corrisponde un aumento del raggio di distruzione di poco superiore al doppio. Ne segue che un bombardamento con molte bombe di minore potenza è più distruttivo di quello con un singolo ordigno, ad esempio 20 testate da 50 kton distruggono un’area circa tre volte maggiore di quella distrutta da una bomba con una potenza pari alla somma delle 20 testate, cioè da 1 megaton (1.000 kton).

 

Nel caso dell’esplosione di ordigni atomici a grandi altezze, centinaia di chilometri, i fenomeni legati all’onda termica e di pressione sono trascurabili mentre si verifica un effetto, chiamato “electromagnetic pulse” (EMP) dovuto ai raggi gamma dell’esplosione che colpiscono gli atomi dell’aria rarefatta liberandone elettroni. Gli elettroni, girando nel campo magnetico terrestre, generano un intenso impulso di onde radio (EMP) che può propagarsi per migliaia di km, ed è in grado di danneggiare sistemi di comunicazione, computers, e qualsiasi congegno elettronico compresi i satelliti per usi militari. Dai pochi test di EMP compiuti in Russia e USA parecchi anni fa è difficile dire se le apparecchiature elettroniche di ultima generazione, dotate di particolari protezioni contro i disturbi elettromagnetici, possano essere rese inservibili causa EMP.

 

A differenza delle bombe convenzionali, le armi nucleari oltre alla distruzione causata da onde di pressione e termiche, producono radiazioni ionizzanti che possono uccidere o provocare gravi malattie alle persone che ne sono investite come il cancro, alterazioni genetiche anche dopo parecchi anni e malformazioni alla nascita, oltre a contaminare il suolo e l’ambiente. In particolare i neutroni sono circa 10 volte più efficaci nel provocare danni biologici rispetto alla radiazione beta e gamma a parità di energia.

 

Il “fallout” nucleare, cioè la ricaduta al suolo di materiale radioattivo, è dovuto ai prodotti di fissione generati nell’esplosione del combustibile nucleare della bomba, allo spesso guscio, spesso di uranio, che contiene il combustibile, e dai materiali coinvolti al suolo polverizzati e resi radioattivi da cattura di neutroni e altre reazioni nucleari. Il fallout è limitato a quegli elementi radioattivi con vita media superiore al tempo della deflagrazione; l’effetto maggiore dovuto a queste sostanze dura qualche settimana mentre la contaminazione del territorio può durare decenni a causa della presenza nei prodotti di fissione di isotopi radioattivi come il cesio 137 che ha un’emivita di circa 30 anni e può essere assunto attraverso la catena del cibo manifestando i suoi effetti cancerogeni da 1 a 5 anni dopo l’eplosione.

 

Se parte della nuvola radioattiva raggiunge la stratosfera, possono passare mesi o anni prima che avvenga la ricaduta su qualche parte del globo in funzione delle condizioni atmosferiche e del gioco dei venti in quota. Si parla di “fallout globale” che può investire l’intero pianeta.

 

Nei 67 esperimenti nucleari tra i quali, nel 1954, la bomba H da 15 mton, compiuti dagli USA dal 1946 al 1958 nell’isolotto di Bikini e il vicino atollo di Enewetak, appartenenti alla catena delle isole Marshall, la contaminazione radioattiva risultò così elevata che l’atollo di Bikini fu dichiarato abitabile solo nel 1997, ma nel 2016 un’attenta analisi ha mostrato che nel terreno esistevano ancora tracce di Cs137 oltre i limiti di sicurezza, in grado di contaminare ad esempio le noci di cocco. L’isola è quindi a tutt’oggi, dopo 70 anni dai test nucleari, inabitabile.

 

Ricordiamo che nel disastro di Chernobyl, a circa 100 km da Kiev, il 26 aprile 1986, furono contaminate non solo Ucraina, Bielorussia e parte della Russia, ma furono colpite anche se in forma leggera tutte le nazioni europee compresa l’Italia dove fu vietato il consumo di alcuni alimenti come il latte e l’insalata considerati più a rischio per le ricadute di nuclidi radioattivi provenienti dalla nube sprigionatasi dalla centrale nucleare.

 

Fino dai primi anni Cinquanta del secolo scorso sono stati messi a punto programmi per simulare gli effetti di bombe atomiche di potenza da qualche kiloton a qualche megaton, esercizi a quell’epoca molto imprecisi in quanto da un lato i dati sperimentali effettivi erano solo quelli ottenuti dalle due bombe cadute sul Giappone mentre gli altri lanci di prova nel dopoguerra erano stati effettuati su zone desertiche con lo scopo principale di migliorare le tecniche costruttive, inoltre le capacità di calcolo dei primi computer erano assai modeste e tanti parametri, riguardanti ad esempio la complessità della chimica dell’atmosfera, incluso il problema dell’ozono, o l’evoluzione della situazione metereologica, erano scarsamente noti.

 

Attualmente, grazie al vertiginoso progresso dei calcolatori che ha permesso di tenere conto di un sempre maggiore numero di variabili e alle ricerche sull’impatto climatico di sostanze come fuliggini e composti chimici risucchiati come polveri sottili dal fungo atomico, la capacità di previsione degli effetti di eventi nucleari appare sufficientemente affidabile. Il risultato di queste simulazioni dimostra che una esplosione nucleare oltre alle perdite umane e alla distruzione immediata di intere città e agli effetti delle radiazioni, può avere conseguenze molto rilevanti sul clima per lunghi periodi provocando quello che è stato definito uno stato di “inverno nucleare” capace di influire in modo disastroso sulla vita sul nostro pianeta.

 

Una simulazione del 2019 condotta dai ricercatori del programma SGS (Science & Global Security) dell’Università di Princeton calcola, come esercizio dimostrativo, che, partendo da una arma tattica di bassa potenza lanciata dalla Russia su un obiettivo della NATO, si può in breve tempo innescare una guerra atomica capace di provocare un totale di 91,5 milioni tra morti e feriti. Lo studio specifica che le stime di mortalità non includono i decessi causati dal fallout nucleare e da altri effetti a lungo termine.

 

Il conflitto si svolgerebbe in tre fasi: dopo il lancio della bomba tattica russa vi è una reazione della NATO con il lancio di 180 testate tattiche su obbiettivi russi e parimenti il lancio di 300 bombe tattiche russe su 300 bersagli NATO in Europa. Questa prima fase provocherebbe 2,6 milioni di vittime e feriti in poche ore. Nella seconda fase la NATO depotenziata dovrà servirsi di sottomarini e bombe basate negli USA per distruggere gli arsenali russi usando in totale 600 testate nucleari. Questa fase durerebbe 45 minuti con 3,4 milioni di morti e feriti. Nella fase finale Russia e NATO lancerebbero testate nucleari rispettivamente sulle 30 città più intensamente popolate causando 85,3 milioni di vittime. L’intera battaglia nucleare durerebbe in tutto meno di 5 ore provocando 34,1 milioni di morti e 57,4 milioni di feriti, un totale di 91,3 milioni di persone uccise o invalidate.

 

Questo sarebbe il risultato immediato del conflitto, ma le conseguenze a lungo termine potrebbero durare mesi e anni ed essere di gran lunga più spaventose. Il fallout radioattivo causerà ancora decine di migliaia di vittime e di ammalati ma inoltre, come dimostrato da studi recenti, anche con un impiego limitato di ordigni nucleari, l’atmosfera si raffredderà a causa dello strato di fuliggine trascinato nella stratosfera dal fungo atomico, con effetti sconvolgenti per l’ecosistema terrestre e marino e quindi per la popolazione del nostro pianeta.

 

A partire dagli anni Ottanta molte pubblicazioni hanno analizzato le conseguenze climatiche di una guerra nucleare tra USA e Russia usando diversi modelli matematici. Un lavoro recente (J. Coupe, C. Bardeen, A. Robock, O. Toon 2019) ipotizza vari scenari, ad esempio assumendo che entrambe le nazioni facciano uso di 4.400 bombe nucleari da 100 kton per distruggere reciprocamente le maggiori città e aree industriali. Si stima che gli incendi provocati dalle esplosioni porterebbero nell’alta atmosfera (oltre 50 km) 150 milioni di tonnellate di fuliggine e polveri sottili che formerebbero una coltre di aerosol che si diffonderebbe intorno al globo assorbendo gran parte della radiazione solare. Lo strato di ozono sarebbe ridotto a causa di reazioni catalitiche con gli ossidi di azoto formatisi nell’aria intrappolata ad altissima temperatura nella fireball, causando un forte aumento della radiazione UV al suolo con le sue nefaste conseguenze. La radiazione solare totale che raggiungerebbe la superficie terrestre sarebbe ridotta del 60-70% nei sei mesi successivi alle esplosioni nucleari determinando un raffreddamento della superficie terrestre di circa 8 gradi che si ridurrebbero a 4 gradi dopo un decennio.

 

Il calo del riscaldamento solare diminuisce l’evaporazione degli oceani provocando un calo delle precipitazioni del 30-50% a seconda dei modelli climatici usati. La situazione di semioscurità, di gelate locali, di siccità, di diminuzione dello strato dell’ozono e di temperature anormalmente basse, unita agli effetti delle radiazioni nucleari dovute al fallout, danneggerebbe la fotosintesi delle piante, con danni inestimabili alla vegetazione e la decimazione dei raccolti e della produzione agricola scatenando una carestia a livello globale i cui effetti devastanti sulla sopravvivenza di tutti gli esseri viventi si protrarrebbero per quasi un decennio.

 

Si verificherebbe anche un rapido raffreddamento degli oceani che si calcola non potrebbero recuperare la temperatura iniziale quando l’atmosfera ritorna allo stato iniziale, restando più freddi per decenni con gravi danni per l’ecosistema marino, moria di alghe e pesci e una perdita del 30% di produttività già nel primo anno successivo alla guerra. Specialmente nelle zone oceaniche più a nord, il raffreddamento aumenterebbe la distesa del ghiaccio marino aumentando l’albedo, cioè la riflessione della radiazione solare e gelando le acque attorno a grandi porti come quelli di Pechino, Copenhagen e San Pietroburgo che diverrebbero impraticabili (C.S. Harrison et al. 2019).

 

In alcuni scenari predittivi si calcola un crollo della produzione di cibo del 90% che potrebbe causare la morte per fame e la malnutrizione di centinaia di milioni se non addirittura di qualche miliardo di persone soprattutto nei paesi sottosviluppati. Anche considerando una guerra atomica a più bassa intensità, come potrebbe essere quella tra India e Pakistan dove  potrebbero esplodere qualche centinaio di bombe da 100 kiloton, si creerebbero alcune decine di milioni di tonnellate di fuliggine e polveri in grado di impedire che una parte vitale della radiazione solare possa raggiungere la terra.

 

Già nel 1983 i risultati delle simulazioni, anche se approssimati, avevano paventato un “inverno nucleare” e più recentemente addirittura una “piccola era glaciale nucleare”. Gli effetti sarebbero simili, ma con dimensioni ben maggiori, a quelli verificatisi dopo l’eruzione del vulcano Tambora nell’aprile del 1815 in Indonesia che immise nell’alta atmosfera una enorme quantità di cenere vulcanica che determinò il famoso “anno senza estate” del 1816 nell’emisfero nord del pianeta. Questi fenomeni, uniti alla distruzione delle infrastrutture industriali, dei trasporti e della sanità condurrebbero a un numero enorme di nuove vittime per carestie, malattie da radiazioni e difficoltà di assistenza medica.

 

Occorre considerare che tutte le simulazioni di cui abbiamo parlato sono assolutamente teoriche per cui c’è attualmente un forte dibattito sulla loro affidabilità anche perché, con le nuove scoperte sull’esistenza e sul comportamento dei tanti prodotti chimici formatisi nelle esplosioni nucleari parecchi parametri di calcolo possono cambiare influenzando i risultati finali. Ultimamente ad esempio è stato scoperto che le molecole di black carbon (fuliggine) aumentano fino a 10 volte la loro dimensione quando raggiungono la stratosfera causando un maggiore assorbimento della radiazione solare e quindi una maggiore diminuzione dell’irraggiamento al suolo e un aumento della temperatura della stratosfera di circa 100 gradi alterando la chimica della stratosfera (J. Coupe, C. Bardeen, A. Robock, O. Toon 2019).

 

Al di là della accuratezza o meno dei modelli di calcolo per la simulazioni degli effetti distruttivi immediati e di quelli dell’inverno nucleare nel caso di in una guerra con armi strategiche di alta potenza, appare evidente che l’umanità intera, in qualunque zona del mondo anche ben lontano dalle nazioni belligeranti, resterebbe coinvolta in una catastrofe mai finora verificatasi sul nostro pianeta. Solo bombe tattiche di bassa potenza, pochi kiloton, potrebbero dare fenomeni localizzati anche se devastanti sempre che non si innesti un meccanismo crescente di ritorsione che amplierebbe in breve il conflitto portandolo al livello planetario.

 

Una stima dell’effetto che avrebbe una bomba atomica su una città è valutabile facilmente col programma online Nukemap creato da Alex Wellerstein. Se lo applichiamo su Milano colpita in centro da una bomba di 300 kiloton fatta esplodere a 2000 metri d’altezza per massimizzare l’onda di pressione, otteniamo i seguenti risultati:

 

-  il raggio della zona dove la dose di radiazioni ionizzanti può essere letale o causare, nell’arco di un mese, nel 15% dei sopravvissuti, morte per cancro sarebbe di 460 m. interessando un’area di 0,67 kmq;

-  il raggio della firewall sarebbe di 600 m. corrispondente a un’area di 1,12 kmq dove tutto è vaporizzato;

- il raggio dell’onda di pressione (fino a scendere a una sovrapressione di 0,34 atm) sarebbe di 4,71 km e quindi in un’area di 69,6 kmq gli edifici collasseranno e potranno generarsi incendi provocando morti e feriti; l’onda di pressione, pur continuando a perdere di intensità, si estenderebbe fino a un raggio di 13 km prima di scomparire, provocando ancora danni e lesioni meno gravi come rotture di vetri, cadute di cornicioni ecc;

-  il raggio della radiazione termica sarebbe di 7,17 km coprendo un’area di 161 kmq dove si verificherebbero decessi e ustioni diffuse di terzo grado di gravità tale da richiedere anche amputazioni.

 

Sul sito www.outrider.org c’è anche una valutazione delle vittime che si conterebbero a Milano colpita da una bomba nucleare come nel caso precedente: 432.000 morti e 817.000 feriti, cioè circa il 90% della popolazione attuale.

 

Esercizi come questo su Milano, per quanto approssimati possano essere, danno una chiara idea della follia non solo di una guerra nucleare, ma anche semplicemente di farne cenno, come abbiamo sentito dalle allusioni del Ministro degli Esteri russo Lavrov e nelle dichiarazioni più esplicite di Aleksey Zhuravlyov, presidente del Partito Nazionalista Rodina (Patria), che ha annunciato in televisione che una testata nucleare montata sul missile balistico intercontinentale Sarmat, un mostro da 200 tonnellate che viaggia alla velocità di 20 Mach (25.000 km/h) con un raggio d’azione di 18.000 km, lanciato dalla base di Kaliningrad su Londra o Parigi o Berlino potrebbe raggiungere queste città e distruggerle in meno di 200 secondi.

 

Purtroppo sembra che alcuni leader politici minaccino l’uso di armi nucleari senza rendersi conto di cosa significhi veramente un conflitto atomico e quale eredità catastrofica lascerebbe alle future generazioni.

 

La soluzione definitiva, al di là dei più stringenti trattati di non belligeranza nucleare che potrebbero però essere disattesi come è già successo per l’INF o per il bando sulle armi chimiche, sarebbe quella di eliminare radicalmente tutti gli arsenali nucleari e controllare e certificare che questo avvenga realmente perché, come ha scritto l’avvocato svedese Beatrice Fihn, direttrice esecutiva dell’ICAN (International Campaign to Abolish Nuclear Weapons), organizzazione che ha ricevuto il premio Nobel per la pace nel 1997: «As long as we have nuclear weapons, nuclear war will be an option».

 

Appare quindi sempre più evidente che una guerra nucleare condotta con armi strategiche, cioè testate ad alta potenza indirizzabili su qualsivoglia metropoli dei cinque continenti, non avrebbe né vincitori né vinti: ci sarebbero centinaia di milioni di morti e distruzioni sterminate da ambo le parti.

 

 

Riferimenti biliografici:

 

J. Coupe, C. Bardeen, A. Robock, O. Toon, Nuclear Winter Responses to Nuclear War Between the United States and Russia in the Whole Atmosphere Community Climate Model Version 4 and the Goddard Institute for Space Studies ModelEJournal of Geophysical Research: Atmospheres, 124 (15) 2019.

C.S. Harrison et al., A new ocean state after nuclear winter, American Geophysical Union, Fall Meeting 2019. 

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