LA RUSSIA E IL RISCHIO di UNA GUERRA
ATOMICA
Le possibili conseguenze
di Francesco Cappellani
Il 6 agosto del 1945 un quadrimotore
americano B-29 comandato dal
maggiore Paul Tibbets, partendo
dalla base militare di Tinian, nelle
isole Marianne, sganciava sulla
città di Hiroshima in Giappone la
prima bomba atomica della storia.
L’operazione, condotta per
costringere alla resa il governo
nipponico, da un punto di vista
strettamente militare, riuscì in
modo perfetto grazie anche a una
certa dose di fortuna.
Era già successo infatti che ben
quattro B-29 sovraccaricati di
combustibile e di ordigni esplosivi
si fossero schiantati il giorno
precedente sulla pista di lancio non
riuscendo a levarsi in volo prima
che i 2.600 metri della pista
finissero. L’Enola Gay,
questo il nome, di sua madre, che il
maggiore aveva fatto dipingere
sull’aereo il giorno prima, portava,
oltre alla bomba atomica, Little
Boy da 4.400 kg, 26.000 litri di
carburante e riuscì ad alzarsi in
volo negli ultimi cento metri della
pista per affrontare i 2.740 km di
navigazione per raggiungere
l’obiettivo.
Il generale Farrell, che aveva
assistito al decollo, dirà poi: «Cercavamo
quasi di farlo alzare con le nostre
preghiere e le nostre speranze».
Un’ora prima erano partiti dalla
base di Tinian tre altri B-29 per
controllare le condizioni meteo su i
tre obiettivi possibili, Nagasaki,
Kokura e Hiroshima. Quest’ultima
località appariva priva di nuvole e
con ottima visibilità e quindi fu
scelta per il lancio della bomba. Il
passaggio dei grossi aerei sul cielo
nipponico fu immediatamente
segnalato e la popolazione avvertita
dal suono delle sirene alle 8,09;
l’allarme rientrò dopo 22 minuti.
Niente accadde invece quando l’Enola
Gay sorvolò mezz’ora dopo la
città all’altezza di circa 9.000
metri; si pensò, al Comando
giapponese, a una isolata missione
di ricognizione. Non ci fu
contraerea, nè caccia e neanche le
batterie costiere aprirono il fuoco.
Così, in assoluta tranquillità, alle
9,15, Little Boy fu sganciata
da circa 9.500 metri di altezza.
L’altimetro della bomba collegato al
meccanismo di accensione era stato
tarato a circa 580 metri dal suolo
perché quella era la quota calcolata
per provocare la massima
devastazione. La bomba funzionò
perfettamente.
L’Enola Gay virò bruscamente
per allontanarsi il più rapidamente
possibile dall’epicentro
dell’esplosione mentre iniziava ad
alzarsi l’immensa nuvola a forma di
fungo che avrebbe raggiunto
l’altezza di 13.700 metri. Robert
Shumard, motorista in seconda
dell’aereo, avrebbe detto più tardi:
«Non c’era altro che morte in
quella nuvola. C’erano tutte quelle
anime giapponesi che salivano al
cielo». Quando l’aereo era già a
15 km dal punto di detonazione, fu
raggiunto dall’onda d’urto dello
scoppio che lo fece sobbalzare e
scricchiolare violentemente.
Hiroshima era stata risparmiata dai
bombardamenti negli anni della
guerra; della sua popolazione di
365.000 abitanti, 240.000 erano
rimasti in città. La bomba atomica
distrusse il 60% della città. Nel
raggio di circa 2 km dall’epicentro
dell’esplosione, quasi tutti gli
edifici furono distrutti dalla
violenza dell’onda d’urto e arsi
dalla successiva onda termica a
circa 6.000 gradi.
Non è stato possibile calcolare il
numero esatto delle vittime anche
perché, nella zona centrale
dell’esplosione, i corpi furono
vaporizzati dall’altissima
temperatura senza lasciare alcuna
traccia. I valori più attendibili
parlano di 66.000 morti al momento
dell’esplosione (il 60% bruciati dal
fuoco e dal calore, il 30% a causa
del crollo di edifici e strutture
varie e un 10% a causa delle
radiazioni) e di 69.000 feriti dei
quali molti moriranno entro la fine
del 1945 per le bruciature e gli
effetti delle radiazioni. Si parla
complessivamente di una cifra
dell’ordine di 140.000 persone. La
potenza calcolata ex-post per la
bomba di Hiroshima risultò di 15
kton (chiloton) cioè pari
all’esplosione di 15.000 tonnellate
di tritolo.
Tre giorni dopo, il 9 agosto 1945,
fu sganciata una seconda bomba
atomica, Fat Man, su
Nagasaki, della potenza di 21 kton
che provocò all’esplosione circa
75.000 vittime e altrettanti feriti.
Il materiale fissile utilizzato in
questo ordigno era plutonio 239
anziché uranio 235. L’atto di resa
del Giappone sarà firmato il 2
settembre 1945 dopo il discorso del
15 agosto dell’imperatore Hirohito
che aveva dichiarato la fine delle
ostilità.
La fissione (scissione) è un
processo per cui un elemento
“fissile” (un nucleo pesante come
l’uranio), colpito da un neutrone
(particella subatomica priva di
carica) “lento”, cioè a bassa
energia, si scompone in due o più
frammenti liberando energia con
l’emissione di radiazioni e due o
tre neutroni in grado di continuare
indefinitamente il processo di
fissione fino, teoricamente, al
consumo totale del materiale
fissile, si ha cioè una reazione
cosiddetta a catena. Nelle bombe a
fissione il materiale fissile può
essere uranio 235 col quale si
arricchisce dall’80% fino al 93,5%
l’uranio naturale, essenzialmente
U238, che ne contiene solo lo 0,72%,
mediante diversi processi di
separazione isotopica molto
complessi e costosi, oppure plutonio
239 prodotto artificialmente nei
reattori nucleari partendo
dall’uranio 238 arrivando a formare
plutonio col 93% di Pu239 e il 7% di
Pu240.
La massa critica di questi elementi,
cioè la quantità minima necessaria
ad autosostenere una reazione a
catena dipende dal tipo, dalla
densità e dalla forma in cui è
compattato il materiale fissile e da
quanto il materiale che lo circonda
sia in grado di riflettere i
neutroni che sfuggono dal nocciolo
fissile rimandandoli dentro il
nocciolo stesso. Nel caso
dell’uranio si raggiunge la massa
critica con una sfera di circa 47
kg, mentre per il plutonio è
sufficiente una sfera di 10 kg.
È importante notare che Little
Boy conteneva 64 kg di uranio
arricchito, ma che al momento dello
scoppio meno di 1 kg fu soggetto a
fissione per cui il sistema si
rivelò molto inefficiente e quel
modello di bomba atomica fu
abbandonato. Con raffinate tecniche
costruttive, usando sistemi di
compressione sui noccioli fissili,
si può arrivate oggi a bombe
atomiche di 1 kton di potenza con
1-2 kg di plutonio, ottenendo
proiettili compatti per missili o
per artiglieria. Le bombe a fissione
più efficienti arrivano a una
potenza di qualche decina di kton,
in quanto per ottenere valori
maggiori i problemi tecnici
diventano enormemente complessi e
impraticabili.
Per dare un’idea di quanta energia
si può ottenere in via puramente
teorica dalla materia, usando la
famosa relazione di Einstein E=mc2,
si ricava che la massa convertita in
energia da una bomba di 12 kton è di
appena 0,56 grammi.
L’innesco per compattare l’uranio o
il plutonio per raggiungere la massa
critica, era costituito da un
esplosivo chimico convenzionale che,
ad esempio nel caso della bomba
all’uranio, sparava due masse
subcritiche una contro l’altra allo
stesso tempo attivando come innesco
di neutroni una sorgente di
polonio-berillio. Il polonio 210 è
un elemento radioattivo che decade
con un’emivita di 138 giorni
emettendo particelle alfa, il
berillio colpito dai raggi alfa
emette neutroni cha avviano la
reazione a catena all’interno della
massa critica.
Le bombe atomiche cadute sul
Giappone sono stati gli unici
ordigni nucleari impiegati in un
contesto bellico. Ma data la loro
potenza e capacità distruttiva
rispetto agli esplosivi
tradizionali, dopo la fine del
secondo conflitto mondiale iniziò la
corsa a questo tipo di armamenti
soprattutto in USA e Russia,
determinando la cosiddetta Guerra
Fredda durante la quale le due
nazioni ne accumularono fino a un
massimo, secondo il Bulletin of
Atomic Scientists, di circa
40.000 testate nucleari in Russia e
oltre 31.000 negli U.S.A. Questa
proliferazione era basata sull’idea
delle deterrenza reciproca, cioè di
misure per cui il nemico, temendo le
analoghe spaventose conseguenze di
un suo attacco, sia dissuaso dal
metterlo in opera.
Dopo la fine dell’Unione Sovietica,
nel 1991, molte testate nucleari
furono smantellate da ambo le parti
in seguito ai trattati di non
proliferazione come, nel 1970, l’NPT
(Nuclear non Proliferation Treaty)
seguito nel 1972 dal SALT (Strategic
Arm Limitation Treaty) e nel
1991 dallo START (Strategic Arms
Reduction Treaty). Dalle circa
70.000 testate nucleari degli anni
Ottanta si è scesi ad oggi a circa
13.000 ordigni. Quasi tutte le
nazioni hanno accettato l’NPT salvo
la Corea del Nord che ne è uscita
nel 2003.
Attualmente i dieci stati che hanno
un armamento nucleare ufficialmente
dichiarato sono i seguenti:
Russia (6.257)
USA (5.550)
Cina (350)
Francia (290)
Regno Unito (225)
Pakistan (165)
India (156)
Israele (90)
Corea del Nord (50)
In totale 13.133 testate atomiche;
in realtà, dati aggiornati al 23
febbraio 2022 da parte della
Feederation of American Scientists,
stimano che la Russia abbia al
momento 4.477 testate nucleari
disponibili di cui 2.889
immagazzinate e non operabili
nell’immediato, mentre 1.558 sono
pronte e montate su missili
balistici intercontinentali (812),
sottomarini lanciamissili (576), e
le rimanenti su bombardieri
specificamente attrezzati. Inoltre,
vi sarebbero circa 1.500 testate
dismesse, ma ancora operative in
attesa dello smantellamento.
L’Ucraina, che ne aveva 1.900
ereditate in seguito alla
dissoluzione dell’URSS, vi ha
rinunciato nel 1994 col
Memorandum di Budapest, un
accordo in cui USA, Russia e Gran
Bretagna, e successivamente Cina e
Francia, si impegnavano a non
attaccarla in cambio della
dismissione delle armi nucleari,
consegnate alla Russia per essere
smantellate. Memorandum già
violato dalla Russia nel 2014 con
l’invasione della Crimea e oggi con
l’operazione militare di aggressione
dell’Ucraina iniziata a fine
febbraio 2022.
Gli ordigni nucleari di oggi sono
molto diversi dalle due bombe
atomiche americane del 1945 che
pesavano oltre 4 tonnellate con
potenze di 15-20 kton. La tecnologia
costruttiva si è evoluta verso un
forte ridimensionamento in termine
di peso e dimensioni; attualmente le
bombe pesano qualche centinaio di
chili e hanno una potenza
distruttrice che va da qualche
decina di kton ai 50.000 kton (50
megaton) della bomba Tsar russa, la
bomba a idrogeno più potente di
sempre (oltre 3.000 volte la bomba
di Hiroshima) testata nel 1961
dall’allora Unione Sovietica a nord
del circolo polare artico.
La variegata potenza di queste armi
e la loro miniaturizzazione che ne
facilita il trasporto e l’immediato
utilizzo, consente di effettuare un
attacco atomico utilizzando mezzi
diversi, dai missili balistici anche
con portata intercontinentale come
il recentissimo Sarmat sovietico, da
sottomarini nucleari come il
nuovissimo Belgorod sovietico dotato
di droni-siluro da 24 metri a
propulsione atomica con una
autonomia di 10.000 km in grado di
portare testate nucleari sottomarine
e farle esplodere provocando immani
tsunami sulle coste nemiche, e anche
da bombardieri teleguidati. È quindi
possibile, servendosi di piattaforme
di lancio via terra, via mare e via
aria, raggiungere e distruggere
qualsiasi località del globo.
In funzione delle loro
caratteristiche e quindi del loro
uso si parla di armi nucleari
strategiche, con potenze dell’ordine
dei centinaia di kton, utilizzabili
per distruggere intere città, grandi
complessi industriali o estese basi
operative nonché flotte in mare o
alla fonda o, con bombe sottomarine,
provocare tsunami in grado di
inondare città costiere, e di armi
tattiche che sono ordigni di bassa
potenza, pochi kton, da usare sul
campo di battaglia come armi
convenzionali ad esempio per
annientare una colonna di mezzi
blindati o affondare una portaerei
nel corso di un conflitto locale.
Chiaramente mentre l’uso di armi
strategiche con la possibilità di
disintegrare una metropoli in
qualsiasi continente riporta alla
possibilità di una risposta
equivalente da parte della nazione
aggredita e quindi a una guerra
mondiale, le armi tattiche
costituirebbero solo un importante
potenziamento rispetto agli
esplosivi attualmente in uso. La
Russia ad oggi possiede circa 1.900
armi tattiche.
Per dare un’idea della differenza
tra un’arma strategica nucleare e
quelle tradizionali basta paragonare
gli effetti della bomba di
Hiroshima, di cui abbiamo parlato
all’inizio, con i risultati del
bombardamento di Dresda avvenuto
alla fine del secondo conflitto
mondiale da parte dell’aviazione
inglese e americana. Il
bombardamento avvenne in quattro
ondate fra il 13 e il 15 febbraio
1945, vi parteciparono oltre 1.300
aerei, 775 bombardieri della R.A.F.
e 527 dell’USAAF (United States
Army Air Forces) che scaricarono
quasi 4.000 tonnellate di bombe
altamente esplosive e incendiarie
distruggendo e bruciando 6,5 kmq del
centro città e causando circa 25.000
vittime. Un’operazione ben più
complessa rispetto a quella
ottenibile oggi con una testata
nucleare di media potenza montata su
un unico missile a lunga gittata.
Attualmente gli arsenali nucleari
sono costituiti essenzialmente da
due tipi di bombe: oltre a quelle a
fissione chiamate comunemente bombe
atomiche già illustrate, vi sono
quelle a fusione (in realtà fissione
+ fusione) denominate bombe
termonucleari.
La bomba a fusione sfrutta la
proprietà che i nuclei di due atomi
leggeri, tipicamente idrogeno e i
suoi isotopi deuterio e trizio
(atomi che hanno il nucleo composto
da un protone come l’idrogeno con in
più uno e due neutroni
rispettivamente), in condizioni di
altissime temperature (oltre cento
milioni di gradi) e pressione
generate con diverse tecniche e
l’uso di campi magnetici di grande
potenza per “confinare” il plasma
incandescente che si forma, possano
unirsi formando un nucleo, ad
esempio di elio, con massa minore
della somma delle masse di partenza;
la differenza di massa viene emessa
sotto forma di energia e radiazioni.
È il fenomeno che avviene
all’interno del sole e delle stelle.
Le bombe a fusione sono in realtà
bombe a fissione e fusione in quanto
una piccola bomba atomica esplodendo
serve da innesco creando le
condizioni di altissima pressione e
temperatura necessarie per accendere
la reazione di fusione nella miscela
gassosa.
Mediante il processo di fusione, a
differenza delle bombe a fissione, è
possibile progettare ordigni di
potenza teoricamente illimitata,
usando inoltre materiali molto meno
costosi.
Un tipo particolare di bomba
termonucleare è la bomba al
neutrone, in questo caso
contrariamente alle bombe precedenti
si realizza la struttura che avvolge
il combustibile nucleare in modo che
i neutroni possano facilmente
sfuggire dall’involucro del
proiettile. Il risultato, ottenuto
da prove mediante bombe di pochi
kton è una ridotta zona di
esplosione con un raggio di 200-300
metri, ma con una massimizzazione
della radiazione neutronica, circa
dieci volte maggiore di una bomba a
fissione, che può interagire ad
esempio con le armature dei carri
armati rendendole radioattive e
inutilizzabili nell’arco di uno-due
giorni, e con le persone provocando
mutazioni irreversibili nei tessuti
biologici (i neutroni colpendo
qualsiasi sostanza possono essere
catturati dai nuclei degli atomi del
bersaglio che vengono mutati
divenendo spesso radioattivi).
Concepita negli USA. alla fine degli
anni Cinquanta, fu sviluppata come
arma contro truppe in movimento, per
uso tattico, da campo di battaglia,
più che distruttivo. Ma in seguito
al trattato INF (Intermediate-range
Nuclear Forces) del 1987,
firmato da Reagan e Gorbaciov che
sancì la fine della Guerra Fredda,
queste armi nucleari a potenza
ridotta sono state ritirate
dall’Europa e ufficialmente
smantellate in tutti i paesi alla
fine del secolo scorso. Nel 2019
però gli USA. e la NATO hanno
accusato la Russia di avere violato
ripetutamente i protocolli INF per
cui, tra accuse reciproche, il 2
agosto 2019 il trattato è
ufficialmente “defunto”, segnando in
maniera drammatica la crisi
dell’attuale sistema di controllo
degli armamenti nucleari e la
possibilità di proseguire il loro
sviluppo grazie all’uso di nuove
tecnologie come l’intelligenza
artificiale.
Per capire perché, nel caso di
guerra atomica, si parli di “Doomsday”,
Giorno del Giudizio, occorre
considerare quali sono gli effetti
di una esplosione nucleare. Al
momento dell’esplosione un ordigno
nucleare rilascia circa il 90% della
sua energia in un milionesimo di
secondo, vaporizzando i materiali
della bomba e ogni cosa presente a
terra in corrispondenza
dell’epicentro dello scoppio,
trasformandosi in un gas a
temperature dell’ordine di milioni
di gradi. Si ha un’immediata
emissione di radiazioni, in gran
parte raggi gamma e neutroni
generati dalle reazioni nucleari nel
nocciolo della bomba che durano
circa un secondo. Questa radiazione,
chiamata radiazione diretta, anche
se letale, è trascurabile rispetto
agli altri effetti dell’esplosione
che coinvolgono distanze molto
maggiori. Il gas caldissimo irraggia
la sua energia sotto forma di raggi
X, luce e calore che scaldano l’aria
circostante. Si forma una “fireball”,
una sfera di aria a temperature
altissime carica di polveri e
frammenti succhiati dal suolo, che
si espande immediatamente
raffreddandosi; nel caso di una
bomba da un megaton in 10 secondi il
raggio della sfera può arrivare a
800 metri, con una luminosità molto
maggiore di quella del sole.
La fireball crescendo
irraggia calore e il “thermal
flash” (lampo termico) che ne
deriva dura parecchi secondi e
assorbe circa un terzo dell’energia
emessa nell’esplosione. L’onda di
calore è tale da innescare incendi
di estrema violenza e provocare
gravi ustioni della pelle anche a
trenta chilometri di distanza. La
rapidissima espansione della
firewall comprime l’aria
circostante creando un’onda di
pressione che si muove all’inizio a
migliaia di chilometri/ora
rallentando con l’aumentare del
percorso; questa onda d’urto
trasporta circa metà dell’energia
esplosiva della bomba ed è
responsabile della maggior parte
della distruzione di qualunque
struttura che non sia
particolarmente rinforzata si trovi
nel suo raggio d’azione; il crollo
degli edifici, le polveri e i
detriti causano morti e feriti nella
popolazione. In alcuni casi che
dipendono dalla configurazione del
terreno sottostante, l’onda di
calore e l’onda d’urto possono
unirsi insieme dando luogo a una
tempesta di fuoco, un incendio che
si propaga e si autoalimenta
spostandosi a centinaia di km/ora.
La forma “a fungo” tipica
dell’esplosione delle bombe atomiche
è dovuta all’aria caldissima della
sfera di fuoco che crea una corrente
ascensionale; quando la colonna
termica raggiunge gli strati più
alti e freddi dell’atmosfera il
materiale tende a raffreddarsi e
inizia a ricadere dando origine al
“cappello” del fungo. Se la potenza
della bomba è di qualche kton il
fungo rimane nell’atmosfera
provocando effetti locali, mentre
con potenze di megaton la colonna
col suo carico di polveri sottili
raggiunge la stratosfera dove i
materiali aspirati possono rimanere
per mesi e, trascinate dalle
correnti di alta quota, interessare
tutto il globo prima di ricadere a
terra.
L’esperimento del 1954 nell’atollo
di Bikini compiuto dagli americani
con una bomba termonucleare di circa
15 Mton ha permesso di misurare gli
effetti devastanti di una esplosione
di quella potenza: in un minuto
circa si generò un “fungo atomico”
che raggiunse un’altezza di 14 km e
un diametro di 11 km, per arrivare
in meno di 10 minuti a quasi 40 km
di altezza e a un diametro di 100 km
espandendosi a 360 km/ora. Ma
l’aspetto più inquietante
nell’esperimento di Bikini, fu la
contaminazione dovuta alla ricaduta
(fallout) di cui accenneremo
più avanti, di polveri e particolato
radioattivo che investì un’area di
18.000 kmq.
L’effetto distruttivo è decisamente
maggiore se l’esplosione avviene in
aria, a centinaia di metri dal
suolo, a meno che non si vogliano
colpire postazioni missilistiche o
depositi di armamenti sotterranei,
in quanto l’onda d’urto, anziché
creare un immenso cratere come nel
caso di scoppio a terra che ne
assorbirebbe buona parte
dell’energia, viene riflessa dal
terreno conservando tutto il suo
potere devastante.
Come avvenne per l’esplosione
atomica su Hiroshima, il parametro
di maggiore importanza in caso di
guerra è il raggio di distruzione
che è determinato dalla potenza
della bomba e dall’altezza alla
quale viene fatta brillare. Tale
raggio è la distanza fra l’epicentro
al suolo dell’esplosione e la
circonferenza che racchiude la
superficie dove la distruzione è
praticamente totale, definita come
la zona soggetta a causa dell’onda
d’urto a una sovrappressione che
scende ai bordi del cerchio a 0,34
atmosfere. Poichè il raggio varia
come la radice cubica del volume
della sfera e quindi all’incirca
della potenza, a un aumento della
potenza ad esempio di un fattore
dieci corrisponde un aumento del
raggio di distruzione di poco
superiore al doppio. Ne segue che un
bombardamento con molte bombe di
minore potenza è più distruttivo di
quello con un singolo ordigno, ad
esempio 20 testate da 50 kton
distruggono un’area circa tre volte
maggiore di quella distrutta da una
bomba con una potenza pari alla
somma delle 20 testate, cioè da 1
megaton (1.000 kton).
Nel caso dell’esplosione di ordigni
atomici a grandi altezze, centinaia
di chilometri, i fenomeni legati
all’onda termica e di pressione sono
trascurabili mentre si verifica un
effetto, chiamato “electromagnetic
pulse” (EMP) dovuto ai raggi
gamma dell’esplosione che colpiscono
gli atomi dell’aria rarefatta
liberandone elettroni. Gli
elettroni, girando nel campo
magnetico terrestre, generano un
intenso impulso di onde radio (EMP)
che può propagarsi per migliaia di
km, ed è in grado di danneggiare
sistemi di comunicazione, computers,
e qualsiasi congegno elettronico
compresi i satelliti per usi
militari. Dai pochi test di EMP
compiuti in Russia e USA parecchi
anni fa è difficile dire se le
apparecchiature elettroniche di
ultima generazione, dotate di
particolari protezioni contro i
disturbi elettromagnetici, possano
essere rese inservibili causa EMP.
A differenza delle bombe
convenzionali, le armi nucleari
oltre alla distruzione causata da
onde di pressione e termiche,
producono radiazioni ionizzanti che
possono uccidere o provocare gravi
malattie alle persone che ne sono
investite come il cancro,
alterazioni genetiche anche dopo
parecchi anni e malformazioni alla
nascita, oltre a contaminare il
suolo e l’ambiente. In particolare i
neutroni sono circa 10 volte più
efficaci nel provocare danni
biologici rispetto alla radiazione
beta e gamma a parità di energia.
Il “fallout” nucleare, cioè
la ricaduta al suolo di materiale
radioattivo, è dovuto ai prodotti di
fissione generati nell’esplosione
del combustibile nucleare della
bomba, allo spesso guscio, spesso di
uranio, che contiene il
combustibile, e dai materiali
coinvolti al suolo polverizzati e
resi radioattivi da cattura di
neutroni e altre reazioni nucleari.
Il fallout è limitato a
quegli elementi radioattivi con vita
media superiore al tempo della
deflagrazione; l’effetto maggiore
dovuto a queste sostanze dura
qualche settimana mentre la
contaminazione del territorio può
durare decenni a causa della
presenza nei prodotti di fissione di
isotopi radioattivi come il cesio
137 che ha un’emivita di circa 30
anni e può essere assunto attraverso
la catena del cibo manifestando i
suoi effetti cancerogeni da 1 a 5
anni dopo l’eplosione.
Se parte della nuvola radioattiva
raggiunge la stratosfera, possono
passare mesi o anni prima che
avvenga la ricaduta su qualche parte
del globo in funzione delle
condizioni atmosferiche e del gioco
dei venti in quota. Si parla di
“fallout globale” che può investire
l’intero pianeta.
Nei 67 esperimenti nucleari tra i
quali, nel 1954, la bomba H da 15
mton, compiuti dagli USA dal 1946 al
1958 nell’isolotto di Bikini e il
vicino atollo di Enewetak,
appartenenti alla catena delle isole
Marshall, la contaminazione
radioattiva risultò così elevata che
l’atollo di Bikini fu dichiarato
abitabile solo nel 1997, ma nel 2016
un’attenta analisi ha mostrato che
nel terreno esistevano ancora tracce
di Cs137 oltre i limiti di
sicurezza, in grado di contaminare
ad esempio le noci di cocco. L’isola
è quindi a tutt’oggi, dopo 70 anni
dai test nucleari, inabitabile.
Ricordiamo che nel disastro di
Chernobyl, a circa 100 km da Kiev,
il 26 aprile 1986, furono
contaminate non solo Ucraina,
Bielorussia e parte della Russia, ma
furono colpite anche se in forma
leggera tutte le nazioni europee
compresa l’Italia dove fu vietato il
consumo di alcuni alimenti come il
latte e l’insalata considerati più a
rischio per le ricadute di nuclidi
radioattivi provenienti dalla nube
sprigionatasi dalla centrale
nucleare.
Fino dai primi anni Cinquanta del
secolo scorso sono stati messi a
punto programmi per simulare gli
effetti di bombe atomiche di potenza
da qualche kiloton a qualche
megaton, esercizi a quell’epoca
molto imprecisi in quanto da un lato
i dati sperimentali effettivi erano
solo quelli ottenuti dalle due bombe
cadute sul Giappone mentre gli altri
lanci di prova nel dopoguerra erano
stati effettuati su zone desertiche
con lo scopo principale di
migliorare le tecniche costruttive,
inoltre le capacità di calcolo dei
primi computer erano assai modeste e
tanti parametri, riguardanti ad
esempio la complessità della chimica
dell’atmosfera, incluso il problema
dell’ozono, o l’evoluzione della
situazione metereologica, erano
scarsamente noti.
Attualmente, grazie al vertiginoso
progresso dei calcolatori che ha
permesso di tenere conto di un
sempre maggiore numero di variabili
e alle ricerche sull’impatto
climatico di sostanze come fuliggini
e composti chimici risucchiati come
polveri sottili dal fungo atomico,
la capacità di previsione degli
effetti di eventi nucleari appare
sufficientemente affidabile. Il
risultato di queste simulazioni
dimostra che una esplosione nucleare
oltre alle perdite umane e alla
distruzione immediata di intere
città e agli effetti delle
radiazioni, può avere conseguenze
molto rilevanti sul clima per lunghi
periodi provocando quello che è
stato definito uno stato di “inverno
nucleare” capace di influire in modo
disastroso sulla vita sul nostro
pianeta.
Una simulazione del 2019 condotta
dai ricercatori del programma SGS (Science
& Global Security)
dell’Università di Princeton
calcola, come esercizio
dimostrativo, che, partendo da una
arma tattica di bassa potenza
lanciata dalla Russia su un
obiettivo della NATO, si può in
breve tempo innescare una guerra
atomica capace di provocare un
totale di 91,5 milioni tra morti e
feriti. Lo studio specifica che le
stime di mortalità non includono i
decessi causati dal fallout
nucleare e da altri effetti a lungo
termine.
Il conflitto si svolgerebbe in tre
fasi: dopo il lancio della bomba
tattica russa vi è una reazione
della NATO con il lancio di 180
testate tattiche su obbiettivi russi
e parimenti il lancio di 300 bombe
tattiche russe su 300 bersagli NATO
in Europa. Questa prima fase
provocherebbe 2,6 milioni di vittime
e feriti in poche ore. Nella seconda
fase la NATO depotenziata dovrà
servirsi di sottomarini e bombe
basate negli USA per distruggere gli
arsenali russi usando in totale 600
testate nucleari. Questa fase
durerebbe 45 minuti con 3,4 milioni
di morti e feriti. Nella fase finale
Russia e NATO lancerebbero testate
nucleari rispettivamente sulle 30
città più intensamente popolate
causando 85,3 milioni di vittime.
L’intera battaglia nucleare
durerebbe in tutto meno di 5 ore
provocando 34,1 milioni di morti e
57,4 milioni di feriti, un totale di
91,3 milioni di persone uccise o
invalidate.
Questo sarebbe il risultato
immediato del conflitto, ma le
conseguenze a lungo termine
potrebbero durare mesi e anni ed
essere di gran lunga più spaventose.
Il fallout radioattivo
causerà ancora decine di migliaia di
vittime e di ammalati ma inoltre,
come dimostrato da studi recenti,
anche con un impiego limitato di
ordigni nucleari, l’atmosfera si
raffredderà a causa dello strato di
fuliggine trascinato nella
stratosfera dal fungo atomico, con
effetti sconvolgenti per
l’ecosistema terrestre e marino e
quindi per la popolazione del nostro
pianeta.
A partire dagli anni Ottanta molte
pubblicazioni hanno analizzato le
conseguenze climatiche di una guerra
nucleare tra USA e Russia usando
diversi modelli matematici. Un
lavoro recente (J.
Coupe, C. Bardeen, A. Robock, O.
Toon 2019)
ipotizza vari scenari, ad esempio
assumendo che entrambe le nazioni
facciano uso di 4.400 bombe nucleari
da 100 kton per distruggere
reciprocamente le maggiori città e
aree industriali. Si stima che gli
incendi provocati dalle esplosioni
porterebbero nell’alta atmosfera
(oltre 50 km) 150 milioni di
tonnellate di fuliggine e polveri
sottili che formerebbero una coltre
di aerosol che si diffonderebbe
intorno al globo assorbendo gran
parte della radiazione solare. Lo
strato di ozono sarebbe ridotto a
causa di reazioni catalitiche con
gli ossidi di azoto formatisi
nell’aria intrappolata ad altissima
temperatura nella fireball, causando
un forte aumento della radiazione UV
al suolo con le sue nefaste
conseguenze. La radiazione solare
totale che raggiungerebbe la
superficie terrestre sarebbe ridotta
del 60-70% nei sei mesi successivi
alle esplosioni nucleari
determinando un raffreddamento della
superficie terrestre di circa 8
gradi che si ridurrebbero a 4 gradi
dopo un decennio.
Il calo del riscaldamento solare
diminuisce l’evaporazione degli
oceani provocando un calo delle
precipitazioni del 30-50% a seconda
dei modelli climatici usati. La
situazione di semioscurità, di
gelate locali, di siccità, di
diminuzione dello strato dell’ozono
e di temperature anormalmente basse,
unita agli effetti delle radiazioni
nucleari dovute al fallout,
danneggerebbe la fotosintesi delle
piante, con danni inestimabili alla
vegetazione e la decimazione dei
raccolti e della produzione agricola
scatenando una carestia a livello
globale i cui effetti devastanti
sulla sopravvivenza di tutti gli
esseri viventi si protrarrebbero per
quasi un decennio.
Si verificherebbe anche un rapido
raffreddamento degli oceani che si
calcola non potrebbero recuperare la
temperatura iniziale quando
l’atmosfera ritorna allo stato
iniziale, restando più freddi per
decenni con gravi danni per
l’ecosistema marino, moria di alghe
e pesci e una perdita del 30% di
produttività già nel primo anno
successivo alla guerra. Specialmente
nelle zone oceaniche più a nord, il
raffreddamento aumenterebbe la
distesa del ghiaccio marino
aumentando l’albedo, cioè la
riflessione della radiazione solare
e gelando le acque attorno a grandi
porti come quelli di Pechino,
Copenhagen e San Pietroburgo che
diverrebbero impraticabili (C.S.
Harrison et al. 2019).
In alcuni scenari predittivi si
calcola un crollo della produzione
di cibo del 90% che potrebbe causare
la morte per fame e la malnutrizione
di centinaia di milioni se non
addirittura di qualche miliardo di
persone soprattutto nei paesi
sottosviluppati. Anche considerando
una guerra atomica a più bassa
intensità, come potrebbe essere
quella tra India e Pakistan dove
potrebbero esplodere qualche
centinaio di bombe da 100 kiloton,
si creerebbero alcune decine di
milioni di tonnellate di fuliggine e
polveri in grado di impedire che una
parte vitale della radiazione solare
possa raggiungere la terra.
Già nel 1983 i risultati delle
simulazioni, anche se approssimati,
avevano paventato un “inverno
nucleare” e più recentemente
addirittura una “piccola era
glaciale nucleare”. Gli effetti
sarebbero simili, ma con dimensioni
ben maggiori, a quelli verificatisi
dopo l’eruzione del vulcano Tambora
nell’aprile del 1815 in Indonesia
che immise nell’alta atmosfera una
enorme quantità di cenere vulcanica
che determinò il famoso “anno senza
estate” del 1816 nell’emisfero nord
del pianeta. Questi fenomeni, uniti
alla distruzione delle
infrastrutture industriali, dei
trasporti e della sanità
condurrebbero a un numero enorme di
nuove vittime per carestie, malattie
da radiazioni e difficoltà di
assistenza medica.
Occorre considerare che tutte le
simulazioni di cui abbiamo parlato
sono assolutamente teoriche per cui
c’è attualmente un forte dibattito
sulla loro affidabilità anche
perché, con le nuove scoperte
sull’esistenza e sul comportamento
dei tanti prodotti chimici formatisi
nelle esplosioni nucleari parecchi
parametri di calcolo possono
cambiare influenzando i risultati
finali. Ultimamente ad esempio è
stato scoperto che le molecole di
black carbon (fuliggine)
aumentano fino a 10 volte la loro
dimensione quando raggiungono la
stratosfera causando un maggiore
assorbimento della radiazione solare
e quindi una maggiore diminuzione
dell’irraggiamento al suolo e un
aumento della temperatura della
stratosfera di circa 100 gradi
alterando la chimica della
stratosfera (J.
Coupe, C. Bardeen, A. Robock, O.
Toon 2019).
Al di là della accuratezza o meno
dei modelli di calcolo per la
simulazioni degli effetti
distruttivi immediati e di quelli
dell’inverno nucleare nel caso di in
una guerra con armi strategiche di
alta potenza, appare evidente che
l’umanità intera, in qualunque zona
del mondo anche ben lontano dalle
nazioni belligeranti, resterebbe
coinvolta in una catastrofe mai
finora verificatasi sul nostro
pianeta. Solo bombe tattiche di
bassa potenza, pochi kiloton,
potrebbero dare fenomeni localizzati
anche se devastanti sempre che non
si innesti un meccanismo crescente
di ritorsione che amplierebbe in
breve il conflitto portandolo al
livello planetario.
Una stima dell’effetto che avrebbe
una bomba atomica su una città è
valutabile facilmente col programma
online Nukemap creato da Alex
Wellerstein. Se lo applichiamo su
Milano colpita in centro da una
bomba di 300 kiloton fatta esplodere
a 2000 metri d’altezza per
massimizzare l’onda di pressione,
otteniamo i seguenti risultati:
- il raggio della zona dove la dose
di radiazioni ionizzanti può essere
letale o causare, nell’arco di un
mese, nel 15% dei sopravvissuti,
morte per cancro sarebbe di 460 m.
interessando un’area di 0,67 kmq;
- il raggio della firewall sarebbe
di 600 m. corrispondente a un’area
di 1,12 kmq dove tutto è
vaporizzato;
- il raggio dell’onda di pressione
(fino a scendere a una
sovrapressione di 0,34 atm) sarebbe
di 4,71 km e quindi in un’area di
69,6 kmq gli edifici collasseranno e
potranno generarsi incendi
provocando morti e feriti; l’onda di
pressione, pur continuando a perdere
di intensità, si estenderebbe fino a
un raggio di 13 km prima di
scomparire, provocando ancora danni
e lesioni meno gravi come rotture di
vetri, cadute di cornicioni ecc;
- il raggio della radiazione
termica sarebbe di 7,17 km coprendo
un’area di 161 kmq dove si
verificherebbero decessi e ustioni
diffuse di terzo grado di gravità
tale da richiedere anche
amputazioni.
Sul sito
www.outrider.org c’è anche
una valutazione delle vittime che si
conterebbero a Milano colpita da una
bomba nucleare come nel caso
precedente: 432.000 morti e 817.000
feriti, cioè circa il 90% della
popolazione attuale.
Esercizi come questo su Milano, per
quanto approssimati possano essere,
danno una chiara idea della follia
non solo di una guerra nucleare, ma
anche semplicemente di farne cenno,
come abbiamo sentito dalle allusioni
del Ministro degli Esteri russo
Lavrov e nelle dichiarazioni più
esplicite di Aleksey Zhuravlyov,
presidente del Partito Nazionalista
Rodina (Patria), che ha annunciato
in televisione che una testata
nucleare montata sul missile
balistico intercontinentale Sarmat,
un mostro da 200 tonnellate che
viaggia alla velocità di 20 Mach
(25.000 km/h) con un raggio d’azione
di 18.000 km, lanciato dalla base di
Kaliningrad su Londra o Parigi o
Berlino potrebbe raggiungere queste
città e distruggerle in meno di 200
secondi.
Purtroppo sembra che alcuni leader
politici minaccino l’uso di armi
nucleari senza rendersi conto di
cosa significhi veramente un
conflitto atomico e quale eredità
catastrofica lascerebbe alle future
generazioni.
La soluzione definitiva, al di là
dei più stringenti trattati di non
belligeranza nucleare che potrebbero
però essere disattesi come è già
successo per l’INF o per il bando
sulle armi chimiche, sarebbe quella
di eliminare radicalmente tutti gli
arsenali nucleari e controllare e
certificare che questo avvenga
realmente perché, come ha scritto
l’avvocato svedese Beatrice Fihn,
direttrice esecutiva dell’ICAN (International
Campaign to Abolish Nuclear Weapons),
organizzazione che ha ricevuto il
premio Nobel per la pace nel 1997: «As
long as we have nuclear weapons,
nuclear war will be an option».
Appare quindi sempre più evidente
che una guerra nucleare condotta con
armi strategiche, cioè testate ad
alta potenza indirizzabili su
qualsivoglia metropoli dei cinque
continenti, non avrebbe né vincitori
né vinti: ci sarebbero centinaia di
milioni di morti e distruzioni
sterminate da ambo le parti.
Riferimenti biliografici:
J. Coupe, C. Bardeen, A. Robock, O.
Toon,
“Nuclear Winter Responses to
Nuclear War Between the United
States and Russia in the Whole
Atmosphere Community Climate Model
Version 4 and the Goddard Institute
for Space Studies ModelE”, Journal
of Geophysical Research: Atmospheres, 124 (15)
2019.
C.S.
Harrison et al., A new ocean
state after nuclear winter,
American Geophysical Union, Fall
Meeting 2019.