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N. 4 - Aprile 2008 (XXXV)

LA GUERRA DEI TRENTUNO ANNI

LA FINE E L'INIZIO: IL 1918 - Parte VII

di Cristiano Zepponi

 

Gli statisti alleati ebbero il torto, agli inizi del nuovo anno, di non credere alla gravità della minaccia costituita dal rapido afflusso di rinforzi tedeschi dall’est, che portarono il computo delle forze (a marzo dell’anno precedente costituite da 178 divisioni inglesi, francesi e belghe contro 129 tedesche) in favore della Germania, seppur con un margine minimo.

 

Neanche l’istituzione di un comando unificato per razionalizzare gli sforzi alleati, il Consiglio supremo di guerra (creato nel corso della conferenza di Rapallo in novembre), risolse il problema della concentrazione del comando, che – soprattutto a causa dell’ostruzionismo inglese – rimase particolarmente carente. Lo stesso accadde alle truppe sul campo, spezzettate qui e là, e per di più reclamate a gran voce da tutti gli alleati: gli italiani opponendosi al ritiro dei contingenti inviati i mesi precedenti, i francesi facendo lo stesso con l’armata di Salonicco, Lloyd George proponendo nientemeno che un’offensiva in Palestina (e riuscendo solo a provocare le dimissioni di Robertson, capo dello stato maggiore generale imperiale, sostituito da Sir Henry Wilson.

 

Il corpo di spedizione in Francia, su richiesta del primo ministro francese Clemenceau, estese il suo fronte di altri 22 km a sud, fino al fiume Oise, proprio mentre le divisioni tedesche arrivavano a 177, con altre 30 in arrivo, sguarnendo così un settore cruciale.

 

Era ormai chiaro, peraltro, che la guerra si sarebbe risolta – dopo il sostanziale fallimento degli attacchi sottomarini – con una gara di velocità tra la Germania e gli Usa, ovvero tra l’attacco e l’arrivo dei rinforzi. E la Germania, conscia delle difficoltà dell’impresa – ben diversa dalla vittoria sulla disastrata Russia – si coprì le spalle.

 

Occupò l’Ucraina ed un quarto dei territori europei dell’impero russo, per sfruttarne le risorse alimentari, subito dopo aver imposto una pace definitiva alla Romania ed al governo bolscevico (che pure aveva dichiarato la propria disponibilità ad una pace “senza annessioni e senza indennità”). Il 3 marzo 1918, nella città di Brest-Litovsk, la Russia accettò le condizioni.

 

Nel frattempo, negli Usa, il presidente Woodrow Wilson mise in atto una vera e propria rivoluzione. Già dall’entrata in guerra, infatti, Wilson aveva dichiarato solennemente che gli States non avrebbero combattuto in vista di particolari rivendicazioni territoriali, ma solo con l’obiettivo di ristabilire la libertà dei mari violata dai tedeschi, i diritti delle nazioni, un nuovo ordine mondiale di pace. Agli inizi del nuovo anno, invece, intuendo che la guerra entrava in una fase ideologica – specie a partire dalla rivoluzione d’ottobre, dotata di una crescente capacità di penetrazione – ne accentuò il carattere di lotta per la democrazia e contro l’autoritarismo, proponendo un organico programma di pace in quattordici punti: abolizione della diplomazia segreta, libertà di navigazione, abbassamento delle barriere doganali, piena reintegrazione del Belgio, della Romania e della Serbia, evacuazione tedesca dei territori russi occupati e dell’Alsazia-Lorena, rettifica dei confini italiani sulle linee delle nazionalità, possibilità di sviluppo autonomo per i popoli sottoposti agli Imperi turco e asburgico.

 

L’aiuto americano era troppo importante, perché questo “nuovo Vangelo” fosse rifiutato dagli alleati che in realtà, tesi com’erano al raggiungimento della vittoria, ne avrebbero volentieri fatto a meno.

 

Ludendorff scelse, per l’attacco tedesco (con l’impiego di tre armate – Diciassettesima, Diciottesima e Seconda – e 68 divisioni) il settore compreso tra Arras e St.Quentin, perché il terreno offriva condizioni migliori, e la difesa non era solida come in altre zone, sperando di spingere gli inglesi verso la Manica. L’offensiva prese il nome in codice “Michael”.

La gestazione del piano risentì della tensione del momento, che tutti gli attori sapevano decisivo, e dell’assenza di Hoffmann, rimasto ad est con le sue intuizioni; la sorpresa vi ebbe un ruolo chiave, e per questo furono prese tutte le misure possibili per dissimulare le intenzioni del comandante supremo, sfruttando il breve ed intenso bombardamento preparatorio, impiegando largamente granate a gas e fumogene e preparando attacchi diversivi sui settori inglese (“San Giorgio I” sul saliente di Lys, “San Giorgio II” contro Ypres) e francese (“Blücher” nella Champagne).

 

L’assalto partì alle 4 e mezzo della mattina del 21 marzo, annunciato dal tuono di 4.000 cannoni e con una fitta foschia che copriva gli attaccanti; e sfondò completamente per 65 km dove non era previsto, a sud della Somme, mentre fu arginato intorno ad Arras, dove testardamente, anche nei giorni seguenti, continuò a caricare la Diciassettesima armata.

Le altre forze furono rallentate per non perdere contatto con i compagni bloccati, né si pensò ad inviare le riserve dove il fronte aveva ceduto finchè fu troppo tardi; il 26, Foch ricevette l’incarico di coordinare le azioni degli alleati; il 27, avanzando, le truppe tedesche erano penetrate per 65 km raggiungendo Montdidier, interrompendo la ferrovia per Parigi; il 28, un altro attacco su Arras fu bloccato dalla Terza armata di Byng, e solo allora Ludendorff modificò il piano indicando come obiettivo Amiens, raggiunta intorno al 30 marzo, dove la resistenza aveva avuto tutto il tempo per riorganizzarsi: il tentativo, allora, fu sospeso, nonostante la cattura di 80.000 prigionieri e 975 cannoni. Nel fallimento, poi, una parte sensibile aveva avuto la scoperta, da parte di truppe malnutrite, di depositi ricolmi di viveri ed equipaggiamento, la “sensazione generale di essere reduci da anni di privazioni” in confronto all’avversario, svelando d’un colpo le menzogne della propaganda sulla campagna sottomarina.

 

Nel frattempo, però, l’offensiva “San Giorgio I” si era trasformata, sull’onda del successo, in una campagna su vasta scala, riuscendo quasi a rigettare gli inglesi – arretrati per 16 km – nel mare, prima che riuscissero ad attestarsi alle porte del nodo ferroviario di Hazebrouck.

L’attacco ad occidente era fallito.

 

Nonostante ciò, poteva vantare enormi risultati tattici: 300.000 perdite britanniche, 10 divisioni temporaneamente disciolte, il frettoloso richiamo di 104.000 reclute dall’Inghilterra, e poi rinforzi dall’Italia, da Salonicco e dalla Palestina.

Ciò nonostante, il rapporto di forze andò via via ripristinandosi su basi più o meno paritarie, grazie anche alla dozzina di divisioni americane (ad organico raddoppiato) già sbarcate in Francia, sotto il comando del gen. Pershing.

 

Un altro tentativo tedesco, “Blücher”, cominciò all’una di notte del 27 maggio tra Soissons e Reims, con un bombardamento di tre ore e mezzo di inenarrabile intensità: quindici divisioni schiantarono poi la resistenza di sette divisioni alleate, superando l’Aisne sui molti ponti rimasti intatti e raggiungendo – tre giorni dopo – la Marna, dove però esaurirono l’energia e dovettero arrestarsi, anche a causa della comparsa delle truppe americane a Château-Thierry.

 

Il fallimento del tentativo di tagliare il saliente di Compiègne, il 9 giugno, e l’obbligo di far riposare le truppe tedesche, permisero agli americani di rafforzarsi – al ritmo di 300.000 uomini al mese – ed a francesi ed inglesi di riorganizzarsi, ricostituendo unità disciolte e preparando l’ultima difesa.  

 

Il nuovo attacco fu portato il 15 luglio su entrambi i lati del saliente di Reims: ad est fu frenato, mentre ad ovest le forze germaniche si spinsero al di là della Marna, dove tre giorni dopo Pètain lanciò un furioso contrattacco – lungamente preparato e accompagnato da massicce formazioni di carri armati. I tedeschi evacuarono il settore, e furono così costretti a ricucire il fronte. Ma intanto, dopo aver piazzato molti affondi – nessuno dei quali decisivo – dovettero lasciare l’iniziativa agli avversari.

 

Foch, che dal 14 aprile ricopriva la carica di comandante in capo delle armate alleate, si preoccupò da subito di non cedere questa iniziativa, tentando di non dargli tregua: alle 4 e venti dell’8 agosto il comandante della Quarta armata britannica schierata davanti ad Amiens, Rawlinson, scatenò un attacco a sorpresa con 456 carri armati, e travolse con le truppe dei corpi australiano e canadese la prima linea avversaria – formata da sei usurate divisioni - per una profondità di 20 km; fino al 12, giorno in cui esaurì lo slancio, catturò 21.000 prigionieri.

 

“L’8 agosto”, secondo Ludendorff, “fu la giornata nera dell’esercito tedesco nella storia della guerra.. […] Essa dimostrò in modo indiscutibile il declino della nostra potenza di combattimento. […] Si doveva porre termine alla guerra”, e per questo informò l’imperatore ed i leaders politici dell’opportunità di aprire i negoziati prima del crollo inevitabile.

Tuttavia, le conclusioni del consiglio della corona, pur condividendo l’obiettivo del militare, mostrarono l’intenzione di seguire un’altra via: “Non possiamo più sperare di spezzare la volontà di combattere dei nostri nemici mediante operazioni militari offensive […] Obiettivo della nostra strategia dev’essere quello di paralizzare gradualmente la volontà di combattere del nemico mediante una difesa strategica”.

 

Ci pensò Foch, colpendo i germanici rapidamente in più punti diversi, a risvegliarli da simili illusioni: il 10 agosto attaccò a sud, con la Terza armata francese; il 17 dello stesso mese ancora più a sud, con la Decima armata francese; il 21 ed il 26 attaccarono rispettivamente la Terza e la Prima armata inglese.

Ai primi di settembre, i tedeschi abbandonarono la linea Hindenburg, mentre gli americani riuscirono ad erodere il saliente di St.Mihiel.

 

A metà del mese il fronte nel settore di Salonicco fu scosso da un’altra offensiva alleata (elaborata da Franchet d’Esperey), che travolse i reparti bulgari schierati nel settore Sokol-Dobropolye, montuoso e perciò relativamente sguarnito. Trovandosi divisi in due tronconi, i bulgari chiesero allora un armistizio, firmato il 29 settembre, che – secondo Ludendorff – “decise le sorti della Quadriplice alleanza”.

 

Lo sconforto nel comando tedesco fu aggravato dai martellanti attacchi simultanei portati il 28/29 settembre ad occidente, proprio mentre si cercava in qualche modo di salvare il fronte serbo. Nonostante questi si arrestassero in fretta, Ludendorff – che ripeteva di voler “salvare” l’esercito - sollecitò un armistizio; per negoziarlo, fu nominato il principe Max, che godeva di buona fama in campo internazionale.

Il 3 ottobre, di conseguenza, fu inviato al presidente Wilson l’appello per l’armistizio.

 

Nel frattempo, però, si continuava a morire: gli americani attaccarono tra la Mosa e le Ardenne, i francesi a ovest delle Argonne, gli inglesi sul fronte St.Quentin-Cambrai ed i belgi in direzione di Gand.

 

Furono gli inglesi a sfondare, nel tratto meglio guarnito della Linea Hindenburg – il Canal du Nord – senza però minacciare la ritirata tedesca, che procedeva spedita. Tuttavia, la volontà di resistenza del governo e del popolo tedesco era crollata, grazie all’effetto morale della pressione militare ed economica, nonostante lievi miglioramenti della situazione inducessero un moderato ottimismo all’interno del comando supremo.

 

La Turchia capitolò il 30 ottobre, dopo la cattura del grosso delle sue forze in Palestina, e dopo che la cavalleria alleata – guidata da Allenby – ebbe conquistato Damasco ed Aleppo.

L’Austria la seguì il 4 novembre, dopo il fallimento portato a giugno sul Piave ed il robusto contrattacco italiano del 27 ottobre, che riuscì a spezzare in due lo schieramento asburgico puntando su Vittorio Veneto, e dividendo le forze della costa adriatica da quelle delle montagne.

 

A quel punto alla Germania, ormai sola, restava solo la resa incondizionata, come specificato da Wilson in una nota del 23 ottobre; ma Ludendorff sperava ancora che una difesa prolungata spegnesse le velleità di lotta degli alleati.

Tuttavia, persa di mano la situazione, fu costretto a dimettersi il 26 ottobre, per poi cadere in un coma di 36 indotto da una dose eccessiva di sonniferi.

 

Il 4 novembre, per le strade tedesche scoppiò la rivoluzione, alimentata dal mancato avvio dei negoziati di pace (data la riluttanza del Kaiser ad abdicare), e cinque giorni dopo il socialista Ebert prese il posto del principe Max. La Germania era diventata una repubblica.

 

Il 6 novembre, i delegati tedeschi lasciarono Berlino per trattare; ed alle ore 5 dell’11 novembre, sulla carrozza ferroviaria di Foch – ferma nella foresta di Compiègne – non ebbero altra scelta che accettare le condizioni armistiziali degli alleati.

 

La rivoluzione dilagante, la minaccia proveniente dal territorio dell’ex alleato austriaco ed il drammatico logoramento ad occidente decisero la fine. Alle 11 di quel giorno, la guerra terminò.

 

 

 

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