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N. 3 - Marzo 2008 (XXXIV)

LA GUERRA DEI TRENTUNO ANNI

Il logoramento, gli ammutinamenti e i nuovi leaders: il 1917 - Parte VI

di Cristiano Zepponi

 

Le speranze di pace americane resistettero a provocazioni incessanti, a partire dall’affondamento del Lusitania (avvenuto il 7 maggio 1915, ovvero due anni prima, e considerato quindi a torto la causa dell’entrata in guerra degli States) e si nutrirono di una rigida osservanza della neutralità dichiarata dal presidente Wilson, occupata dalla ricerca di proposte di pace accettabili per entrambe le coalizioni e al contempo considerabile come un escamotage per preparare l’opinione pubblica statunitense (fortemente isolazionista) all’eventuale possibilità di dover partecipare al massacro europeo.

 

Ciò nonostante, la consueta debolezza diplomatica, una serie di calcoli errati o un mix di entrambe le circostanze portò la Germania a lanciare una campagna sottomarina indiscriminata; e quando all’affondamento delle prime navi seguì un maldestro tentativo di istigare il Messico ad attaccare di sorpresa gli USA, Wilson decise di entrare nel conflitto.

Il 6 aprile 1917, dichiarò così guerra alla Germania, e si diede ad organizzare un esercito competitivo con quelli europei, già rotti allo scontro.

 

Al fronte, comunque, la situazione restava tutt’altro che rosea per l’Intesa, nonostante il potenziale economico e militare si presentasse potenzialmente infinito. Joffre, conscio del progressivo esaurimento delle riserve umane francesi, comunicò agli alleati di poter partecipare ancora ad una grande battaglia, prima che gli effettivi dell’esercito (arrivati ad un totale di 2.600.000) cominciassero a calare.

 

Il piano per il 1917 ignorò comunque la proposta di Cadorna di spostare le riserve alleate in Italia per mettere fuori gioco l’avversario più debole, l’Austria. Piuttosto, si preferì insistere sul settore principale; tuttavia, la strategia “limitata” di Joffre era da tempo caduta in disgrazia nell’opinione pubblica transalpina.

Nivelle, protagonista della battaglia d’autunno a Verdun, ne prese il posto; e, con scarsa prudenza, prese da subito a promettere l’agognato sfondamento nel settore del saliente tedesco Lens-Noyon-Reims, nonostante godesse di un potere minore rispetto al predecessore e non fosse riuscito a convertire gran parte dei subordinati a questa prospettiva.

Riuscì comunque convincente nei confronti del mondo politico, al punto che il nuovo ministro inglese, Lloyd George, mise alle sue dipendenze anche l’armata inglese in Francia guidata da Haig.

Dimentico dei calcoli di Joffre, infine, Nivelle scelse di far ricadere il peso dell’attacco, ancora, sulle spalle francesi.

 

Ma Ludendorff, in paziente attesa dei risultati della campagna sottomarina e del piano di riorganizzazione dell’esercito del Kaiser, mandò a vuoto il colpo il 12 marzo, ritirando l’esercito su una linea fortificata approntata ai tempi della Somme, e definita “Sigfrido” (“Hindenburg” per gli alleati). L’intera area abbandonata fu completamente distrutta e inquinata, come ordinato nel programma “Alberico” (il nome del nano malvagio dei Nibelungi), nonostante le (momentanee) lamentele del principe ereditario Rupprecht.

 

Gli inglesi, naturalmente, videro sconvolti i preparativi dell’attacco, che dovette di conseguenza essere limitato alla zona di Arras, dove la Terza armata di Allenby aprì la campagna di primavera occupando (con il fondamentale ausilio di nuove granate a gas e di un fuoco di sbarramento strisciante perfettamente coordinato) il 9 aprile la contesa altura di Vimy prima di arenarsi, anche a causa del pessimo impiego dei tanks sparpagliati su tutto il fronte (ciononostante, furono catturati 13.000 prigionieri e 200 cannoni).

I francesi, dal canto loro, attaccarono il 16 aprile tra la Somme e l’Oise, e nei pressi di Reims, ma non fecero che ripetere un copione già visto: si dissanguarono con più ostinazione che inventiva, dopo aver adeguatamente preavvertito i tedeschi con un’interminabile bombardamento.

Tuttavia, la nausea nei confronti di questi massacri e le recentemente generate erano state così alte, da provocare un sisma. Il malcontento delle truppe superò il livello di guardia, ed esplose durante il periodo maggio-giugno in non meno di sedici corpi d’armata.

I reggimenti rifiutarono di andare in linea, ed assai spesso accettarono di difendere la posizione ma non di avanzare contro mitragliatrici e reticolati, mostrando per la verità più stanchezza che sedizione. I casi di diserzione, e le condanne a morte, toccarono in quei giorni il loro acme, e recenti stime parlano di 40.000 casi di ribellione.

“La paura di perdere la vita, l’opposizione all’ordine di uccidere altra gente, la ribellione contro i superiori che reprimevano indiscriminatamente la loro personalità: queste erano le fonti affettive più importanti da cui traeva alimento la tendenza dei soldati a sfuggire alla guerra”, scrisse in proposito Sigmund Freud.

 

Il generale Pètain, che sostituì il deludente Nivelle il 28 aprile, resta oggi associato ad una poco invidiabile nomèa, pienamente meritata molto tempo dopo. Ma in quei giorni ebbe il merito di capire che la psicologia, e non la durezza, avrebbe salvato l’armata di Francia.

Viaggiò per un mese, visitando batterie e divisioni, ascoltando le lagnanze, promettendo riposo e rotazioni più frequenti (senza dimenticare, comunque, anche 23 fucilazioni). Moltiplicò l’artiglieria e le armi da fuoco, per risparmiare sugli uomini, curò e protesse l’esercito convalescente e lo tastò poi inizialmente in prove più sopportabili, attraverso le quali potesse ritrovare morale ed orgoglio: ad agosto l’armata di Guillaumat terminò la lenta riconquista dei settori ancora occupati di Verdun, mentre in ottobre quella di guidata da di Maistre s’impossessò dell’altura di Chemin des Dames.

 

Gli inglesi, rimasti soli a causa del dissanguamento francese e del crollo russo (il 2 marzo, infatti, lo zar aveva abdicato), tentarono allora di riprendere l’attacco.

Prima, il 7 giugno, lanciando all’assalto (con successo) la Seconda armata contro Messines, dopo aver sfruttato l’appoggio dei carri armati, dei gas, di un gigantesco tiro d’artiglieria (in alcune zone si contava un cannone ogni sette metri) e di 19 gigantesche mine sotterranee che contenevano 600 tonnellate di esplosivo; e poi, il 31 luglio, rivolgendosi al settore di Ypres, sconvolto definitivamente dalla deprecabile abitudine di attuare un bombardamento prolungato, che di fatto (ancora una volta) attirò le riserve e ridusse il campo ad un acquitrino, demolendo il delicato sistema drenante della regione.

 

Qui, di conseguenza, le nuove tecniche difensive tedesche (un sottile schermo di piazzeforti e casematte in cemento armato dotate di mitragliatrici, scarsamente presidiato e sviluppato in profondità, sommato a rapidi contrattacchi) ed il fango delle paludi di Passchendaele cooperarono stremando le truppe inglesi, costrette a reiterare il macello fino a novembre, e facendo fallire il tentativo di cacciare le basi sottomarine tedesche dalle coste belghe.

 

L’ultimo sforzo, tuttavia, fu coronato dal successo: il 20 novembre trecentottantuno carri armati appartenenti a sei divisioni della Terza armata, senza bombardamento preliminare, caricarono dieci chilometri della sacca tedesca presso Cambrai, mentre la fanteria si occupava di seguire l’avanzata, e ottennero un clamoroso successo travolgendo le tre principali linee difensive avversarie. Nonostante dopo dieci giorni, per assenza di riserve, fossero costretti a ripiegare, rischiando addirittura di venire annientati dai contrattacchi tedeschi, i reparti inglesi dimostrarono allora che esisteva un modo per evitare lo stallo sul fronte occidentale.

 

La defezione russa, divenuta permanente in agosto, quando le forze austro-tedesche si arrestarono (ma solo per motivi politici) ai suoi confini, costituì senza dubbio la notizia peggiore dell’anno per l’Intesa, specie considerando che per lunghi mesi la giovane America non sarebbe stata in grado di compensarne la perdita.

Ma analoghe, pessime nuove vennero sul finire dell’anno dal fronte italiano, fin’allora offuscato dall’attrito in corso nel centro Europa.

A dire il vero, sarebbe stato piuttosto semplice prevedere ciò che in realtà accadde: ogni autunno, con teutonica costanza, la Germania aveva infatti liquefatto la resistenza delle potenze minori alleate dell’Intesa (nel 1915 era toccato alla Serbia, nel 1916 alla Romania).

Inoltre, l’evidente stato di difficoltà dell’esercito austriaco era ben evidente anche ad osservatori disinteressati, senza bisogno di conoscere i pur pressanti appelli asburgici all’alleato.

 

“Divenne evidente attaccare l’Italia per impedire il crollo dell’Austria-Ungheria”, chiarì Ludendorff. Dopo l’undicesima battaglia dell’Isonzo (la numerazione indica abbastanza palesemente l’assoluta mancanza di originalità che caratterizzava il nostro Stato Maggiore) combattuta in agosto, nonostante lo sforzo riuscito di contenere l’avanzata avversaria sull’altopiano della Bainsizza, gli alti comandi austriaci implorarono aiuto. E lo ottennero.

 

I tedeschi riuscirono a mettere insieme solo sei divisioni, tenuto conto che la Russia non era ancora crollata del tutto e che gli inglesi continuavano a dimostrarsi più attivi che mai, e decisero di usarle con cura, contro un obiettivo debole ma strategicamente fondamentale.

 

Rispondeva a questi desiderata il settore Tolmino-Caporetto: e qui attaccarono il 24 ottobre, approfittando della latente stanchezza delle truppe schierate, della favorevole posizione dei versanti montagnosi (che impedivano anche il rapido afflusso dei rinforzi italiani nella breccia) e di un breve ma catastrofico bombardamento misto con granate e gas. Intere divisioni furono catturate, o scomparvero nel nulla, la Seconda armata guidata dal gen. Capello cessò praticamente di esistere durante la ritirata, e 600.000 uomini andarono ad intasare i campi di prigionia germanici; il 28 ottobre cadde Udine, ed il 31 fu raggiunto il Tagliamento.

 

Tuttavia i risultati, costituiti dal ripiegamento del Regio esercito verso il Piave (ultima, disperata linea di difesa, occupata entro il 20 novembre), dalla sostituzione di Cadorna (che incolpò della sconfitta i reparti in linea, accusandoli di aver disertato rifiutando di difendere le posizioni) con Diaz (l’equivalente locale di Pètain, decisamente più conscio dell’importanza del fattore morale e assai più attento alla mentalità dei soldati) e dalla cattura di più di 250.000 prigionieri esausti e sfiduciati, sorpresero anche gli Imperi centrali, che non disponevano di adeguate riserve.

 

Tentarono così di spostare, ostacolati dalla scarsa rete ferroviaria, la maggior parte dei reparti avanzanti verso il lato settentrionale del saliente veneto (dove operava il comandante austriaco Conrad), mentre gli anglo-francesi facevano frettolosamente affluire due corpi d’armata in soccorso dell’alleato.

Gli invasori cominciarono presto, in virtù della velocità di penetrazione, a subire il logorìo dovuto alla rarefazione dei rifornimenti rimasti nelle retrovie, né adeguatamente preparati ad un’avanzata così rapida; e al contempo gli italiani, alle prese con una grave situazione d’emergenza, trassero dagli eventi la fermezza morale per resistere sulla linea del Piave, nonostante gli sforzi germanici di travolgerne il fianco avanzando dal Trentino.

 

A dicembre, con la stagione delle nevi, le operazioni rallentarono fino a bloccarsi. L’Italia era stata la prima nazione a resistere ad un attacco autunnale tedesco, ma ne usciva ferita e quasi disarmata.

Comunque, pochi mesi dopo gli scioperi e le manifestazioni di piazza contro la fame ed il conflitto stesso (il più importante dei quali si verificò a Torino in agosto), il Paese riacquistò quell’unità d’intenti che, sola, gli permise di sopravvivere, e dopo una lunga convalescenza di reagire.

 

Gli unici successi dell’anno per l’Intesa vennero dai mari e dagli scenari di guerra distanti dal calderone continentale.

Sugli oceani si combattè senza dubbio la battaglia più importante del conflitto, navale ed economica, tra gli alleati ed i sottomarini tedeschi.

 

Durante il 1917 le perdite di naviglio mercantile, collegamento vitale della Gran Bretagna con le colonie e gli alleati d’oltreoceano, andarono salendo a ritmo esponenziale, toccando l’apice in primavera. “In aprile la grande direttrice di accesso all’Irlanda sud-occidentale stava diventando un vero cimitero di navi inglesi”, scrisse il primo Lord dell’Ammiragliato, Winston Churchill. 516.000 tonnellate di tonnellaggio mercantile britannico (si pensi che una nave su quattro salpata dai porti inglesi non giunse a destinazione) finì quel mese sotto il mare, nonostante il numero di sommergibili tedeschi gravitasse intorno al centinaio d’unità.

 

Oltre a queste, aumentarono anche le perdite di trasporti neutrali, arrivate in quello stesso aprile a 336.000 tonnellate, e di conseguenza andò emergendo una certa riluttanza a recapitare le merci necessarie alla sopravvivenza della Gran Bretagna, le cui scorte di viveri sarebbero bastate, in quel periodo, per sole sei settimane.

 

Le misure adottate all’interno del Paese (razionamento, aumento della produzione interna, sviluppo della cantieristica) cedettero nettamente il passo alle soluzioni belliche, nell’ottica del disperato tentativo di contrastare gli U-boote. I campi minati posti davanti alle basi germaniche, la comparsa degli aerei da ricognizione, i nuovi dispositivi per l’avvistamento e soprattutto l’istituzione del sistema dei convogli, definitivamente introdotti a partire dal 10 maggio, limitarono presto le perdite all’uno per cento.

 

Alla fine del 1917 gli affondamenti erano scesi largamente sotto le 200.000 tonnellate mensili: il comando tedesco, che aveva creduto di poter piegare l’economia inglese in un solo mese, registrò un aumento esponenziale delle perdite di sommergibili, e rese così il pedaggio della dichiarazione di guerra americana, precedentemente valutato un rischio calcolato, perfettamente inutile. 

 

 

Gli altri successi furono invece registrati in Palestina; ai primi di novembre un attacco diversivo su Gaza attirò nella zona le riserve turche, aprendo così la strada all’attacco principale, scattato il 6 dello stesso mese e presto dilagato nella piana di Filistea.

Il 14 cadde il porto di Giaffa, ed il 9 dicembre le truppe inglesi, rinforzate dall’intervento delle riserve, entrarono a Gerusalemme, ottenendo un successo importante per risollevare il morale della coalizione ma sostanzialmente inutile dal punto di vista strategico.

 

Nei primi giorni dell’anno, inoltre, si verificò il crollo della resistenza tedesca in Africa Orientale, l’ultima piazzaforte del Kaiser sul continente africano. Ma anche in questo caso la profusione di energie – 130.000 soldati, 72 milioni di sterline ed una laboriosa avanzata attraverso il varco del Kilimangiaro fino a Morogoro – in un settore del tutto secondario, e per di più difeso da forze avversarie di gran lunga inferiori (inizialmente sembra ammontassero a 5.000 uomini), non fu giustificata dai risultati, specie se si aggiunge che le truppe tedesche superstiti, sotto la guida di Lettow-Vorbeck, continuarono fino alla fine del conflitto a praticare un’insidiosa guerriglia nell’Africa portoghese, dove nel frattempo erano riuscite a ritirarsi.

 

 

 

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