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N. 3 - Marzo 2008 (XXXIV)

LA GUERRA DEI TRENTUNO ANNI

L’attrito, i mari ed i sistemi produttivi: il 1916 - Parte V
di Cristiano Zepponi

 

Di fronte alla marea montante delle nuove armate inglesi (l’Inghilterra abbracciò la coscrizione obbligatoria, con il Military Service Act, nel gennaio del 1916) e alla contemporanea, crescente produzione di munizioni in campo avverso, Falkenhayn, e con lui la Germania, decise che non si poteva indugiare oltre, e tornò ad accarezzare l’idea di un’offensiva ad occidente.

Studiò quindi la prospettiva di un’offensiva metodica, d’attrito, diretta ad obiettivi limitati. Il giorno di natale del 1915, dieci giorni dopo la prima conferenza congiunta dei suoi avversari (conclusasi con la decisione di massima di un’offensiva simultanea di Francia, G.B. Russia e Italia nel corso del 1916), mostrò di intuire il ruolo centrale dell’Inghilterra nella coalizione nemica: “La storia delle guerre inglesi contro l’Olanda, la Spagna, la Francia e Napoleone si sta ripetendo. La Germania non può aspettarsi alcuna pietà da questo nemico, fintantoché esso continua a nutrire una pur tenue speranza di conseguire il suo obiettivo”.

L’Inghilterra, però, era lontana, ed il suo esercito (come detto precedentemente) cresceva in fretta: era ormai invulnerabile, eccettuando gli attacchi sottomarini. Tuttavia, da sempre, la “perfida Albione” manovrava indirettamente, come manichini, i soldati degli alleati di turno sul continente, e questi potevano essere considerati la sua prima difesa: “Qui le sue vere armi sono rappresentate dagli eserciti francese, russo e italiano”.

La Russia dello zar, come evidente ormai a tutti, si era dimostrata un gigante coi piedi d’argilla, e aveva sacrificato truppe in abbondanza per alleviare il peso germanico dagli alleati: paralizzata com’era, non incuteva più timore.

L’Italia, poi, arenata sui monti del Carso e dissanguata da offensive testarde quanto sanguinose, sembrava molto lontana dal costituire un pericolo serio.

Restava solo uno, storico, avversario: “La Francia è quasi arrivata alla fine del suo sforzo bellico. Se riusciremo a far capire chiaramente al popolo francese che sul piano militare non ha più nulla da sperare, la situazione giungerà ad un punto di rottura, e all’Inghilterra salterà di mano la spada migliore”.

La Francia colpita, invasa ed esausta, sarebbe stata quindi dissanguata in un punto ben preciso, “per difendere il quale il comando francese sia costretto a gettare in campo ogni uomo di cui dispone”.

La scelta, drammaticamente, cadde su Verdun.

Il suo nome, ed il suo passato di “porta” attraverso la quale le orde germaniche passarono per attaccare i galli, la rendevano un simbolo.

Nessuno può dire se si sia trattato veramente di un piano per “sbriciolare” l’esercito francese, o di un deliberato tentativo di sfondamento (come asseriscono alcuni), ricalcato sul modello della manovra di Sedan nel 1870. A favore della seconda ipotesi forse gioca la superstizione tedesca: ancora un Moltke alla guida dell’esercito, ancora il quartier generale a Coblenza, come allora.

Le fortezze russe e belghe erano cadute come castelli di carte, all’alba del conflitto; e uomini troppo avvezzi a conclusioni avventate ne dedussero che l’era delle “ridotte” era ormai conclusa, sostituita dal macello di carne.

Joffre, che era tra questi, spogliò così Verdun delle sue difese, e l’incuria acuì le manchevolezze, al punto che presto divenne quasi inservibile.

“L’artiglieria nobilita quello che altrimenti sarebbe un ignobile macello”, diceva Federico II. Ma il 21 febbraio, alle 7 e un quarto, l’ora cioè in cui si aprì il bombardamento su ambedue le rive della Mosa (per un totale di 25 km), nessuno avrebbe potuto scoprire nel profluvio di esplosioni velleità aristocratiche: “I crateri scavati dalle enormi granate davano a tutto il paesaggio un aspetto simile a quello della crosta lunare” (B. H. Liddell Hart, “La Prima Guerra Mondiale”, pag. 286).

La risposta del fuoco di controbatteria francese non potè impedire che reticolati e fortificazioni finissero demoliti da quella dimostrazione di potenza, concentrata per la prima volta nelle poche ore di una giornata che si annunciava “fredda e asciutta”.

L’attacco di un sottile schermo di fanteria, esteso per 7 km, incontrò sulle prime la tenace resistenza dei superstiti al diluvio di fuoco; fino al 24, però, le linee ad est della Mosa furono rapidamente erose (portando tra l’altro alla caduta del forte Douaumont), tanto che Joffre, rinsavito, decise di affidare la difesa del settore a Pètain, coadiuvato da alcune riserve.

Questi risolse il problema dei rifornimenti (inizialmente incentrati sulla sola strada Bar-le-Duc – Verdun, la “Via Sacra”), riorganizzò il fronte in vari settori autonomi e scatenò alcuni contrattacchi.

L’avanzata tedesca, impantanatasi anche a causa di un’atmosfera di “lugubre pessimismo”, riprese il 6 marzo, dopo due giorni di bombardamento, allargandosi alla sponda occidentale della Mosa.

Ma fallì, come prevedibile, perché i difensori avevano ormai rafforzato le posizioni, riuscendo a difendere il Mort Homme a ovest e la Côte de Poivre a est, e perché la fortuna li aveva baciati, come spesso accade (riuscirono infatti a distruggere le 450.000 granate innescate contenute nel deposito di Spincourt).

La battaglia proseguì, in tono minore, dal 9 marzo in poi, per motivi di prestigio, simbolici e psicologici. Tuttavia la nuova tattica tedesca di attirare le riserve francesi nel campo di tiro dell’artiglieria riuscì lentamente nel suo intento di “consumare” il nemico, ed il rapporto di caduti si fece sempre più favorevole agli attaccanti, nonostante le frequenti rotazioni di Pètain. Il 17 giugno cadde il forte di Vaux, e la marea teutonica riprese a salire al punto che il 23 di quel mese rischiò di cadere anche Belleville, ultimo baluardo di Verdun, mentre Pètain ripeteva instancabilmente la frase che lo rese celebre: “On les aura!”.

I russi si mossero ancora per soccorrere l’alleato, scagliando interminabili colonne umane contro il fronte tedesco nei pressi di Vilna (sul lago Narocz), e così fecero gli italiani, che per un confuso concetto di assistenza accorsero a farsi massacrare in quella che poi fu chiamata quinta battaglia dell’Isonzo, mentre gli inglesi rilevavano la decima armata francese, schierata nel settore di Arras, per permetterle di intervenire a Verdun.

Le richieste d’aiuto si susseguivano. I russi, ancora una volta, si mossero, stavolta in soccorso dell’Italia attaccata in giugno dall’esercito austriaco.

Cadorna fu colto completamente di sorpresa dall’offensiva, chiamata significatamene Strafexpedition (“spedizione punitiva” contro l’ex-alleato) e diretta dal Trentino verso la pianura veneta, che puntava a spezzare in due tronconi lo schieramento del Regio Esercito.

Mentre la resistenza sugli altipiani di Asiago riusciva a bloccare la penetrazione, il 4 giugno le armate dello Zar risposero all’appello italiano, nel tentativo di impedire l’afflusso di riserve nemiche.

Le forze guidate da Brusilov avanzarono contro la Quarta e la Settima armata, la prima a Luck e la seconda in Bucovina. Dopo pochi giorni le truppe asburgiche cedettero di schianto, e lasciarono 200.000 prigionieri.

La campagna proseguì per tre mesi, e si concluse con un solo risultato: la brillante conduzione di Brusilov conquistò sì la vittoria, ma si concluse con la perdita di 1.000.000 di uomini, e con il completo sfacelo del “rullo compressore” che un tempo faceva tremare il mondo.

Preoccupati forse di sembrare insensibili di fronte a tanto sangue, gli inglesi accelerarono i tempi per un’offensiva sulla Somme.

Dopo aver condotto i preparativi alla luce del sole, bombardarono per un’intera settimana il fronte d’attacco con 1.500 cannoni (uno ogni 20 metri); persa in questo modo la sorpresa, la neonata Quarta armata (agli ordini di Rawlinson) attaccò il 1° luglio con 13 divisioni su un fronte di 25 km, a ondate.

Ai pochi ma organizzati difensori bastò sparare nel mucchio anglo-sassone (l’apporto francese si limitò a 5 divisioni a sud del fiume), limitando le perdite a sparuti fazzoletti di terra presso Fricourt e Montauban, per resistere sulle loro posizioni sopraelevate.

Nel fango, per mesi, caddero a migliaia prima ancora di vedere il nemico; caddero gli inglesi lanciati all’assalto quasi a braccetto, e caddero i tedeschi, cui il gen. von Below (comandante della Prima armata) aveva ordinato di non cedere un centimetro, pena la corte marziale. Il 13 novembre, finalmente, l’offensiva fu bloccata.

Nel bel mezzo dello scontro, il 15 settembre, apparvero per la prima volta dei mezzi rudimentali, corazzati e cingolati, destinati ad un ruolo (militare e psicologico) di primo piano: i carri armati.

Nacquero, nonostante una lontana discendenza medievale (alcuni progetti leonardeschi), da un’esigenza tattica tipicamente contemporanea, manifestatasi sui campi di mezza Europa: l’inferiorità deprimente dell’offensiva rispetto all’enorme potere difensivo delle mitragliatrici, rilevata tra gli altri dai colonnelli Swinton e Hankey dell’esercito inglese.

Nonostante le misure di sicurezza avessero funzionato, si preferì gettarli nella mischia con i loro difetti meccanici e numerici. Non si sfruttò la sorpresa, e con essa la possibilità di porre fine alla guerra in anticipo, per un solo obiettivo altisonante: la Somme.

Mentre Joffre riprendeva a “rosicchiare” il nemico, dopo che l’intervento inglese aveva alleggerito la pressione su Verdun, riconquistando buona parte del terreno perso intorno alla fortezza assediata, comparve sulla scena un nuovo, e fuggevole attore: la Romania illusa dai successi (?) di Brusilov.

Dichiarò quindi guerra agli Imperi Centrali il 27 agosto 1916, dimenticando che la posizione, l’armamento e la qualità facevano difetto al suo numeroso esercito.

Si lanciò subito all’attacco in Transilvania, nonostante la parte maggiore del suo territorio (la Valacchia) s’incuneasse pericolosamente tra l’Austria-Ungheria e la Bulgaria.

Già il 28 agosto, la Germania si mosse: Hindenburg e Ludendorff assunsero il comando supremo, mentre un’armata mista (tedesco-bulgara) invase la Dobrugia ed un’altra si preparava ad attuare una controffensiva in Transilvania.

Sospesa l’offensiva, i rumeni cercarono di difendere i passi della zona montagnosa di confine ad occidente fino all’arrivo delle nevi, senza successo.

In breve le forze del kaiser attraversarono il Danubio presso Bucarest, e qui entrarono il 6 dicembre di quell’anno, ricacciando verso il Mar Nero le superstiti forze rumene (e gli scarsi contingenti russi inviati in aiuto). Il petrolio ed il grano del Paese fornirono una boccata d’ossigeno alle stremate economie germaniche, ed i russi rimasero con 500 km di frontiera in più da difendere.

Nel frattempo i sommergibili tedeschi avevano moltiplicato i loro sforzi distruttivi (dalle 109.000 tonnellate colate a picco a giugno alle 368.000 del gennaio 1917), sfruttando anche il possesso della costa belga e le chiare acque del Mediterraneo, dove più semplice era rispettare gli accordi per la salvaguardia del naviglio americano (concordati nell’aprile del 1916, dopo che un fitto scambio diplomatico culminato con un ultimatum di Wilson aveva posto fine alla campagna indiscriminata di affondamenti); l’unica battaglia di superficie, invece, avvenne nel pomeriggio del 31 maggio di quello stesso anno tra la Grande Squadra britannica e la Squadra d’alto mare tedesca dell’ammiraglio Scheer presso il banco dello Jutland.

“Si limitò a garantire quello che era già garantito” (B. H. Liddell Hart, op. cit., pag. 376), offrendo ai tedeschi la possibilità di cogliere un successo insperato ma non decisivo (avevano affondato infatti tre incrociatori da battaglia, tre incrociatori corazzati e otto cacciatorpediniere contro la perdita di una corazzata, un incrociatore da battaglia, quattro leggeri e cinque cacciatorpediniere), e di liberarsi di timori verso la “tradizione di Nelson”, ed agli inglesi quella di mantenere la consueta, ed aleatoria superiorità.

La flotta che da secoli dominava gli oceani affrontò quella costruita per strappargli il primato, e dallo scontro non emerse nessun vincitore. E pensare che si combatteva soprattutto per questo.

Dopo aver parato il colpo sul Tagliamento, Cadorna riportò le riserve sull’Isonzo, e qui attaccò di nuovo ai primi d’agosto, dopo una finta verso il mare (il 4 di quel mese), superando l’altura fortificata del Sabotino prima di prendere Gorizia.

Fu un grande successo psicologico, nonostante ulteriori avanzate verso est si infrangessero contro lo schieramento austro-ungarico. E sull’onda di questo successo, l’Alto Comando ordinò altre tre offensive nello stesso settore entro l’autunno, da cui l’avversario uscì logorato, e gli italiani decimati. Durante il 1916 il Regio esercito aveva perso 483.000 uomini, gli austro-ungarici 260.000.

“Durante il 1914 gli eserciti avevano combattuto con i mezzi e le risorse accumulati nei magazzini militari durante gli anni di Pace (il maiuscolo è mio, nda), per fronteggiare una guerra sul modello di quella franco-prussiana del 1870, come sarebbe stato possibile senza l’intervento inglese e senza il “miracolo” della Marna. Nel 1915 si era fatto ricorso alle riserve di denaro e di attrezzature industriali esistenti nei paesi belligeranti e, entro certi limiti, nei paesi neutrali, con cui era possibile commerciare. Ma anche queste risorse si erano andate esaurendo, cosicché l’ulteriore sforzo bellico poteva avvenire solo a spese della popolazione civile, il cui tenore di vita andava compresso e abbassato […] Le condizioni della popolazione civile subirono perciò, a metà del 1916, quasi contemporaneamente in tutte le nazioni in guerra, un brusco giro di vite. Era questo l’unico sintomo che il conflitto non sarebbe durato in eterno: la fame e la miseria potevano imporre la resa”. (M.Silvestri, “Isonzo 1917”, pag. 14).

Ovunque l’apparato produttivo si dilatò a dismisura, e conquistò spazi, potere ricchezza: fu un’età dell’oro per gli armaioli, ebbri di commesse vantaggiosissime, prive di controlli ma cariche di pecunia, e per i comitati di mobilitazione industriale, che ricevettero carta bianca per aumentare la produzione. Lo Stato forniva le materie prime ed una mano d’opera disciplinata e rassegnata, pronta ad accettare qualunque orario, accettava il prezzo (qualunque) del privato e anzi spesso glie lo anticipava (diventa molto più immediata la comprensione del boom FIAT, che prima della guerra era stata una media impresa di 4.000 operai, e al termine della stessa monopolizzava varie produzioni meccaniche impiegando una forza lavoro di 40.500 lavoratori, o dell’Ansaldo che passò da 4.000 a 56.000).

Ovunque si registrarono calmieri e requisizioni, scarsità di pane e materie prime, sommosse e proteste, ed ovunque faceva il suo corso l’interminabile flusso della propaganda, i cui caratteri non variavano troppo da Paese a Paese, e della retorica patriottica, che trovò in D’Annunzio il suo alfiere.

Ovunque, infine, l’avversario divenne barbaro, violento, sporco e vigliacco, violentatore di vergini e mozzatore d’arti infantili; per non parlare dei suoi intrugli venefici (l’eco della caccia alle streghe non era ancora svanito..), e della sua tendenza al cannibalismo, che fosse tedesco, inglese, austriaco o italiano: in questo modo si combatteva meglio, e non s’incolpava di tutte le manchevolezze il governo, essendo la popolazione assorbita dall’ascolto di continui allarmi su fantomatiche “quinte colonne”, o di confuse descrizioni di spie di letteraria memoria.

In verità, in poche rimasero vergini se capitate in mezzo ad un esercito sul piede di guerra; e quelli con il braccio mozzato, spesso, potevano dirsi fortunati, quando, tornati a casa, guardarono sbigottiti il moltiplicarsi della censura (specie sulle lettere dal fronte) e delle leggi repressive, e lessero i giornali che cominciavano “a dire e non dire, suggerire più che spiegare, mettendo a dura prova l’inventiva stilistica degli estensori” (M.Silvestri, op. cit., pag. 33).

Perché questo avvenne, in ogni angolo di quella folle Europa feudale.


 

 

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